CLAN, POLITICA ED ESTORSIONI. DIFESA DI CETRONE: “AGOSTINO RICCARDO È UNA BOCCA SPALMATA DI FIELE”

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Gina Cetrone all'epoca della sua consiliatura in Regione Lazio (2010-2012)

Processo Scheggia: attesa per oggi, rinviata ancora la sentenza per l’ex consigliera regionale del centrodestra Gina Cetrone e il clan Di Silvio

Dopo le arringhe degli avvocati Domenico Oropallo, per l’ex marito della consigliera regionale del Pdl, Umberto Pagliaroli, e Oreste Palmieri, per gli altri due imputati, Armando detto “Lallà” e Gianluca Di Silvio, oggi, 4 novembre, era il turno dell’avvocato Lorenzo Magnarelli che assiste l’imputata principale, Gina Cetrone.

La difesa di Cetrone ha presentato e depositato al Collegio, presieduto dal Giudice Caterina Chiaravalloti, una corposa nota di di oltre 160 pagine. Successivamente è iniziata l’arringa in difesa dell’ex consigliera regionale Cetrone che è durata in tutto più di quattro ore, al termine della quale il legale ha chiesto l’assoluzione della sua assistita.

Nella scorsa udienza, tenutasi il 25 ottobre, entrambi gli avvocati, Oropallo e Palmieri, avevano chiesto anche loro l’assoluzione per i loro clienti, così come l’avvocato Giudetti sempre per Armando Di Silvio. Arringhe che avevano puntato a smontare la credibilità del collaboratore di giustizia, Agostino Riccardo. L’avvocato Palmieri aveva esordito spiegando di non aver capito le accuse mosse a carico di Armando Di Silvio, ritenuto dagli inquirenti concorrente morale dei reati. Come noto, agli imputati, a vario titolo, nel procedimento, vengono contestati i reati di estorsione, atti di illecita concorrenza, violenza privata, più gli illeciti connessi alle elezioni amministrative di Terracina 2016. Processato a parte, essendo correo, Agostino Riccardo, il collaboratore di giustizia le cui dichiarazioni hanno avuto un peso rilevante nelle disposizioni accusatorie degli inquirenti. E proprio le dichiarazioni di Riccardo e lui stesso sono stati presi di mira dall’arringa difensiva del legale di “Lallà” Di Silvio che ha definito il collaboratore di giustizia: “Un gran pagliaccio”.

Al termine della requisitoria terminata nell’udienza del 18 ottobre, i Pubblici Ministeri Luigia Spinelli e Corrado Fasanelli della Procura/DDA di Roma hanno chiesto per Cetrone e Pagliaroli 7 anni e 6 mesi di reclusione ciascuno, più 7mila euro di multa, mentre per i due Di Silvio 13 anni di reclusione oltreché a una multa da 15mila euro. Parte civile nel processo l’Associazione Antonino Caponnetto.

Il processo, come noto, ruota intorno a due circostanze: la contestata estorsione commessa da Riccardo e i Di Silvio, su mandato di Cetrone e Pagliaroli, ai danni di un imprenditore di Pescara, indietro con i pagamenti rispetto alle forniture dell’impresa dei due imputati che all’epoca lavoravano nel settore del vetro; l’illecita concorrenza alle elezioni amministrative di Terracina, nel 2016, nelle quali Gina Cetrone era, prima, candidata sindaco e, poi, consigliere comunale con la lista “Sì cambia”, a sostegno dell’aspirante primo cittadino Gianluca Corradini: l’ex esponente si sarebbe affidata a Riccardo e i Di Silvio per la campagna elettorale e la cosiddetta visualizzazione dei manifesti di propaganda. Il sodalizio di origine rom avrebbe costretto due “competitor”, Gianluca D’Amico e Matteo Lombardi, che facevano campagna elettorale per l’allora candidato sindaco Gianni D’Amico, ad avere uno spazio molto contenuto nell’attacchinaggio dei manifesti, oltreché ad essere stati minacciati nella località terracinese di La Fiora.

Un processo complesso e che ha visto darsi battaglia accusa e difesa sin dall’inizio. Uno dei momenti clou, oltreché alla testimonianza dell’imprenditore estorto che dichiarò di aver pagato per paura dei Di Silvio, era stato a settembre scorso il confronto in aula tra Gina Cetrone e il collaboratore di giustizia Agostino Riccardo (in realtà video collegato dal carcere), le cui dichiarazioni, insieme a quelle dell’altro collaboratore di giustizia, Renato Pugliese, hanno costituito sia in fase d’indagine che nel corso del dibattimento il perno delle accuse all’ex consigliera regionale. Un vis a vis che è stato una vera e propria prima volta nella storia giudiziaria della città di Latina.

E anche oggi, 4 novembre, l’arringa dell’avvocato difensore Magnarelli per Gina Cetrone non ha mancato di utilizzare toni aspri: in primis verso Agostino Riccardo considerato non credibile, e poi anche nei confronti dei comportamenti e di ciò che disse come testimone l’imprenditore di Pescara il quale sarebbe stato estorto. Critiche anche contro la Procura e due ex capi della Squadra Mobile di Latina, Carmine Mosca e Giuseppe Pontecorvo, che hanno diretto le indagini: “Arroganza istituzionale – sostiene veementemente l’avvocato Magnarelli – eravamo in queste mani”.

In particolare, secondo l’avvocato, l’ex dirigente della Mobile di Latina, Pontecorvo, avrebbe omesso di depositare agli atti un’informativa dell’8 giugno 2016 in cui si dava conto di un verbale del 4 giugno dello stesso anno che dimostrerebbe di come la Polizia, all’epoca, stesse seguendo Riccardo, in quel momento affiliato al clan Di Silvio, per salvaguardare l’incolumità di Gina Cetrone, sotto scacco dell’attuale collaboratore di giustizia. Nessun ingaggio di Riccardo per la campagna elettorale di Terracina 2016 da parte dell’ex esponente politica di centrodestra, ma persino il ruolo della vittima secondo la ricostruzione del suo legale.

Agostino Riccardo, quindi, viene definito dalla difesa come un nodo gordiano da recidere, “ciò che dice non vale nulla a patto che non lo si riscontri…e bisogna verificare se non abbia interessi spuri”. Al che la difesa ha ricostruito la sua storia, tentando di minarne la credibilità: nella data dell’11 aprile 2016, quando si sarebbe consumato, a Capo Croce (Sonnino), nella villa della madre di Cetrone, il primo approccio di Riccardo e dei Di Silvio con l’imprenditore abruzzese poi estorto, Riccardo, secondo le dichiarazioni dell’altro collaboratore di giustizia Renato Pugliese, sarebbe stato una scheggia impazzita: non più con i Travali perché arrestati nell’operazione “Don’t Touch” (ottobre 2015), Riccardo viveva di espedienti, come sempre nella sua vita, rimarca l’avvocato, alla giornata e si muoveva con il dolo del truffatore.

Il suo ruolo – ha ribadito più volte l’avvocato Magnarelli – è incompatibile con una associazione criminale e peraltro lo stesso Riccardo aveva debiti per circa 25mia euro con i Di Silvio, quindi, secondo il ragionamento della difesa, non poteva partecipare al loro sodalizio. Quell’11 aprile, quando l’imprenditore di Pescara fu intimidito da Riccardo, e il giorno dopo andarono insieme a Pescara, alla presenza di Pagliaroli e di Samuele (imputato nel processo ma, come noto, deceduto nel carcere di Siracusa) e Gianluca Di Silvio, Riccardo non sarebbe stato portatore di nessuna mafiosità perché non parte della consorteria del clan per cui occorre una tipica liturgia di affiliazione: questa, secondo l’avvocato Magnarelli, è solo una lettura ex post della Procura. “Riccardo è una bocca spalmata di fiele“, ha incalzato il legale di fronte alla collegio del Tribunale.

Per l’avvocato è stato un processo di prevenzione essendoci differenza tra partecipazione a una associazione criminale e la contiguità ad essa. Dunque, non essendo Riccardo veicolo di mafiosità, non c’è metodo mafioso che invece è contestato dall’accusa.

Cetrone chiede solo 15mila euro all’imprenditore poi estorto ma – questa è la tesi della difesa da sempre – lei era garantita dall’ente statale Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura) e da un assegno da 50 mila euro, seppur post datato ma che poteva incassare, fornitole dallo stesso imprenditore che si presume estorto. Aveva garanzie, si domanda l’avvocato, perché rivolgersi a Riccardo e ai Di Silvio?

È lo stesso imprenditore a recarsi alla villa della madre di Cetrone a Capo Croce per pagare il suo debito con Cetrone e Pagliaroli e con la volontà di continuare il rapporto di lavoro. È lui che prende iniziativa per pagare e lo dice davanti a Cetrone, Pagliaroli, alla madre e alla contabile dell’imprenditrice e politica. L’imprenditore avrebbe avuto due preoccupazioni: posticipare il pagamento e continuare il rapporto di lavoro. Rapporti e pagamenti che non solo continuarono il giorno dopo, il 12 aprile, quando da Pescara, “scortato” dai Di Silvio e Riccardo e Pagliaroli, l’imprenditore effettua un bonifico da 15mila euro a favore di Cetrone e “offre” per il disturbo agli “zingari” qualche centinaia di euro, ma anche nei mesi a venire, almeno fino a novembre del 2016, senza contare che sarebbe ancora debitore nei confronti di Cetrone.

La tesi della difesa è che l’imprenditore pescarese, che non ha mai denunciato, sia entrato nella modalità di vittima quando nel 2018 viene chiamato e ascoltato dagli investigatori che indagavano sulle dichiarazioni di Riccardo, diventato collaboratore di giustizia.

Riccardo, per la difesa, arriva alla casa di Capo Croce perché chiamato non da Cetrone, ma da Pagliaroli (non lo dice l’avvocato, ma è chiaro il riferimento). Cetrone aveva già chiuso l’accordo per il pagamento con l’imprenditore: non sa che Riccardo verrà, né quello che facevano altri soggetti come i Di Silvio.

I soldi – poche centinaia di euro – che Riccardo pretese a Pescara riguardano lui e solo lui: si è trattato di un atto di accattonaggio da parte di Riccardo che andava alla ricerca di storie per spremere chi era in difficoltà, spendendo il nome dei Di Silvio.

Ma l’arringa del difensore non si ferma solo a smontare Riccardo. Va giù duro, il legale, anche con l’imprenditore Bartoccini che farebbe omissioni una volta interrogato e ascoltato come testimone (il pescarese aveva sostenuto di aver pagato per paura dei Di Silvio), persino falsità quando ha dichiarato di non firmare assegni, mentre in realtà Cetrone era in possesso del suo assegno da 50mila euro: “È un falsario e un calunniatore – dice l’avvocato – anche dopo l’incontro dell’11 aprile, ha continuato ad avere rapporti proprio perché non ha subito nessuna estorsione“.

Dichiarazioni false e inattendibili, spiega il legale, svelano un interesse spurio perché, essendo debitore, non vuole pagare. E sull’auto parcheggiata nel vialetto della villa della madre di Cetrone, messa lì da Riccardo e Di Silvio, per intimidirlo, l’avvocato è sicuro: è impossibile che sia accaduto. Il fatto dell’estorsione, per il difensore, non sussiste anche perché Cetrone non sapeva che Riccardo era andato a Pescara. Secondo l’avvocato, inoltre, se non avesse pagato – quel 12 aprile a Pescara quando sborsa soldi per il bonifico a Cetrone e per il disturbo agi “zingari” – non gli sarebbe successo nulla perché nessuno gli avrebbe prospettato nulla di negativo.

Per quanto riguardo le elezioni comunali per Terracina 2016, l’avvocato di Cetrone sostiene che la Procura non ha portato prove ma si è sempre affidata alle dichiarazioni di Agostino Riccardo. Nel momento della campagna elettorale, Riccardo teneva sotto scacco Cetrone e lo spiegava la nota interna della Questura sunnominata: quella, per intenderci, che sarebbe stata omessa dall’allora Capo della Mobile. Per il legale, non ci sarebbe stata nessuna attività di attacchinaggio su incarico di Cetrone. Riccardo le sfilava i manifesti, diceva di attaccarli e poi non li attaccava. In seguito, ricostruisce il legale, gli furono trovati in auto il 4 giugno, quando c’era silenzio elettorale e non vi era più la possibilità di affiggerli. Questa sarebbe la prova che Riccardo millantava con Cetrone, in realtà truffava.

E sulle minacce a D’Amico per i manifesti elettorali, secondo il legale, era lui stesso ad affiggerli illecitamente: quindi, il fatto che li abbia trovati strappati e buttati a terra in località “La Fiora”, durante la campagna elettorale, è un elemento trascurabile poiché figlio dell’illegittimità a monte. La lista di Cetrone, a La Fiora, era autorizzata a fare un comizio che quella sera si svolse legittimamente e correttamente: né una nota dei Carabinieri, della Polizia di Stato, o Locale, è pervenuta per denunciare situazioni strane.

E il 4 giugno – spiega l’avvocato – tra Riccardo, Lombardi e D’Amico ci fu un accordo per la lista Corradini Sindaco che non aveva niente a che fare con la lista di Cetrone. “Riccardo tirava le truffe e lui cercava di prendere più manifesti possibili da chiunque anche per candidati di Procaccini (nda: il competitor di Corradini, poi eletto sindaco)”.

Per di più, Cetrone non avrebbe avuto interesse all’elezione comunale: “Che senso avrebbe avuto fare un accordo per i manifesti elettorali?”. È D’Amico, per quanto sostiene l’avvocato di Cetrone, ad aver affisso dove non doveva affiggere commettendo un illecito amministrativo: aver tolto i manifesti, quindi, non sarebbe stata una violenza privata da parte di Riccardo/Di Silvio, perché il suddetto D’Amico li ha messi dove non poteva. C’è di più: “D’Amico dice di essersi accordato con Riccardo per i manifesti, è solo il collaboratore a sostenere di averlo minacciato”. Un aspetto che, per la difesa, fa cadere l’accusa di concorso morale di Cetrone nella violenza privata subita da D’Amico e Lombardi (deceduto anche lui in circostanze misteriose).

Lo stesso ormai noto sms di Cetrone indirizzato a Riccardo, in cui l’ex consigliera regionale gli dice che a La Fiora non c’erano manifesti, viene scritto dopo il comizio e, quindi, secondo la difesa, successivamente alla contestata volontà di Cetrone di avere per lei tutti gli spazi elettorali migliori in città e in periferia.

E, infine, l’avvocato evidenzia le dichiarazioni di Angelo Riccardi, l’altro collaboratore di giustizia ascoltato nel corso del processo (sub judice in realtà la sua collaborazione, messa in discussione dall’Antimafia di Roma) che ha sostenuto che Riccardo avrebbe voluto mettere nei guai e distruggere Gina Cetrone e che la Direzione Distrettuale Antimafia stava con lui qualsiasi cosa dichiarasse. “Riccardo – incalza l’avvocato – ha portato a processo una congerie di elementi inconsistenti, ha detto il falso“.

E a stabilirlo sarà il Tribunale di Latina che ha rinviato alla prossima udienza che si terrà l’8 novembre: per quella data, al netto di evenienze non prevedibili, dopo le repliche del Pm Luigia Spinelli, i giudici Chiaravallotti, Valentini e Nadile entreranno in camera di consiglio, per poi pronunciare la sentenza di un processo che rimane storico per la provincia di Latina.

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