SCARFACE: IL CLAN PARASSITA DELLE PAURE DEI CITTADINI

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Operazione Scarface: la forza del Clan di Romolo Di Silvio si nutriva dell’omertà delle vittime schiacciate tra paura e silenzio

Certo, c’è un clan che incute timore, che utilizza il proprio cognome, Di Silvio, come fosse un brand criminale da esibire e con cui riscuotere i dividendi in termini di lucro e paura. E, certo, ci sono dinamiche incomprensibili agli occhi delle persone cosiddette civili che mai hanno avuto a che fare con regolamenti di conti, arsenali di armi, droga comprante e rivenduta e alleanze da stringere o recidere.

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È la forza di un Clan ormai inserito nella geografia della città, conosciuto da tutti, come e più dell’altro ramo dei Di Silvio, quello capeggiato da Armando detto Lallà già colpito duramente da condanne per associazione mafiosa.

Sorprende, peraltro, in riferimento al Clan di Lallà Di Silvio, ridimensionato dagli arresti avvenuti a giugno 2018 con l’operazione Alba Pontina, che né i cittadini di Latina né tantomeno i rivali del Clan di Giuseppe Di Silvio detto Romolo abbiano avuto alcun tipo di influenza da un’inchiesta che, dopo tutto, è stata la prima che ha visto un pool Antimafia dedicato alla città pontina. E nessuna influenza da un’eco mediatica che ha definitivamente posizionato Latina nella mappatura della cronache nazionali.

Il Clan di Romolo del Gionchetto ha visto, invece, quegli arresti ai danni dei cugini di Via Muzio Scevola come un’opportunità: occupare del tutto lo spazio criminale della città. Allo stesso tempo, sebbene da angolatura opposta, molto cittadini di Latina non hanno compreso che qualcosa si stava scalfendo.L’azione importante e continua di magistratura e organi investigativi che stanno tenendo la barra dritta sui clan rom della città sembra così relegata agli addetti ai lavori.

Antonio Patatino Di Silvio, Giuseppe Romolo Di Silvio e Ferdinando Prosciutto Di Silvio
Antonio Patatino Di Silvio, Giuseppe Romolo Di Silvio e Ferdinando Prosciutto Di Silvio (foto da Facebook). In questo momento i due figli e il padre si trovano tutti e tre ristretti in carcere. “Romolo” è considerato un capo-famiglia dell’ala dei Di Silvio tra Campo Boario e Gionchetto: sta scontando la sua pena in carcere per l’omicidio Buonamano commesso insieme al nipote Costantino “Patatone” Di Silvio. Fu, insieme a Carmine Ciarelli e altri componenti delle famiglie rom il “leader” della guerra criminale contro la mala latinense nel 2010. I due figli sono stati arrestati per una rapina ed estorsione in ragione di un debito avuto con personaggi di Campo Boario anche loro coinvolti in inchieste e nella malavita locale.

Una verità amara perché dall’indagine Scarface, condotta da Squadra Mobile e DDA di Roma, vengono fuori vittime del Clan di Romolo spaventate, ridotte a uno stato di costrizione e con la paura anche solo di pensare di denunciare gli aguzzini del sodalizio rom. Come se gli arresti e le inchieste sui clan rom non avessero dato alcun coraggio alle vittime le quali, invece, si trovano in un universo parallelo dove non c’è stata nessuna svolta giudiziaria né tantomeno di consapevolezza e orgoglio.

A confermare una frustrante realtà sono le estorsioni contestate dal Gip di Roma Rosalba Liso al Clan di Romolo: tutti i soccombenti non denunciano. Ma c’è di più. Perché persino quando interrogati dagli investigatori difficilmente parlano e persino negano, chi di conoscerli personalmente chi di non ricordare gli episodi di prepotenza subita. In questi anni, d’altronde, troppe volte si sono visti nelle aule di Tribunale vittime di estorsione non saper pronunciare in Aula neanche il cognome del brand rom.

Esemplificativa di questo clima è un’estorsione per cui sono accusati i figli del boss Romolo Di Silvio, i fratelli Antonio e Ferdinando detti rispettivamente Patatino e Prosciutto, e il loro cugino di secondo grado, Ferdinando “Pescio” Di Silvio, figlio di Costantino detto Patatone in carcere per il delitto Buonamano e numero due del Clan di Via Moncenisio.

Siamo nell’agosto 2019, una coppia di giovani si fa prestare 500 euro da Patatino e Prosciutto Di Silvio e da lì inizia un incubo poiché i fratelli ne pretendono almeno il doppio indietro. Un’usura in piena regola.

La droga per il Clan sta diventando una fonte di guadagno importante e chi si riferisce a loro rischia di finire strozzato. È quello che capita alla coppia di giovani, un uomo e una donna, entrambi lavoratori.

A spiegare come funziona per la droga è il collaboratore di giustizia, ex corriere per conto del Clan, Emilio Pietrobono: “Di Stefano e Di Silvio dopo avere acquistato la droga la danno in appoggio a terze persone nella misura di 5 grammi. Darla in appoggio significa darla in credito. Queste persone sono Romualdo (ndr: Montagnola), Massimo Longarini e Miro della Migliara 47 (Casemiro Ciotti)”.

L’altro collaboratore di giustizia Maurizio Zuppardo aggiunge in un altro verbale reso alla DDA: “Davano la sostanza stupefacente a credito alle persone che avrebbero potuto poi vessare per prendere i loro beni“. Una vecchia dinamica sempre in voga eppure ancora efficace a distanza di anni.

E quando l’uomo della coppia si trova senza denaro che cominciano i guai. Il giovane tenta di ritardare la restituzione del prestito utile all’acquisto di droga dicendo di non essere pagato al lavoro, essendo impiegato in un ristorante di Latina. Così i Di Silvio non fanno altro che andare dal titolare del ristorante e chiedere lo stipendio che spetta al loro debitore per poi intascarselo. Il ristoratore, messo alle strette, non può fare a meno di pagare per evitare beghe con il brand criminale che è sufficiente nominare per incutere ansia.

È proprio il debitore che dà indicazioni a Prosciutto Di Silvio e lo aiuta a trovare il ristorante dove venire e riscuotere il suo stipendio. Lo fa, ovviamente, per evitare situazione peggiori, mettendo in mezzo anche l’ignaro titolare di lavoro.

La sera del 19 settembre 2019 arriva al ristorante un’auto Mercedes classe A di colore grigio dalla quale scendono alcuni individui. Il debitore alla vista dell’auto entra dentro il ristorante e fa al suo titolare: “Hai capito che questi zingari sono venuti per me? Stasera devo per forza dare i soldi sennò passo guai seri“. Il titolare dopo qualche resistenza cede e paga la prima parte del suo stipendio che forzatamente dalle mani del dipendente va in quelle dei Di Silvio: ecco i primi 200 euro. Dopo un settimana, al ristorante va in scena il secondo round. Arriva Pescio Di Silvio, che si sta facendo le ossa nel mondo criminale essendo un giovane di circa 20 anni, e si rivolge direttamente al titolare dicendo di sapere che il suo dipendente deve ancora avere tutto lo stipendio: “Mi ha detto che sono circa 900 euro, facciamo una cosa dammi subito 700 e chiudiamo la faccenda stasera“.

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Alle rimostranze del titolare, Pescio minaccia che in caso contrario sarebbero stati guai per il suo dipendente. Convinto, il titolare consegna i soldi al dipendente che vengono letteralmente strappati di mano dall’affiliato al Clan di Romolo.

Le fasi dell’estorsione sono seguite dagli investigatori della Squadra Mobile che chiamano a sommarie informazioni le vittime di estorsione. Qui, si comprende bene cosa significhi vivere in un clima di intimidazione perenne dove il nome Di Silvio è scolpito nella paura di chi ha a che fare con loro.

La donna della coppia vessata lo dichiara senza mezzi termini: “Conosco la fama criminale dei due fratelli Di Silvio e di tutta la loro famiglia e ovviamente questo ha inciso sul mio atteggiamento nei loro confronti, e solo perché conoscevo la loro fama criminale sono stata costretta a consegnare loro la somma stabilita altrimenti non l’avrei mai fatto…ovviamente ho capito subito che stavo subendo un’usura ma non sono stata in grado di ribellarmi proprio per la loro fama criminale“.

Prosciutto e Pescio Di Silvio
Prosciutto e Pescio Di Silvio

Eppure poco dopo, la donna, che ha praticamente ammesso agli organi inquirenti che era stata vittima di usura e assoggettata da uomini di un clan, viene redarguita dal suo compagno, ugualmente estorto ma assolutamente contrario a dire la verità alle domande delle Forze dell’Ordine. Non si tratta di denunciare spontaneamente, siamo ben lontani da questo grado di consapevolezza a Latina. Si tratta più drammaticamente di non ammettere nulla neanche di fronte a un’evidenza. Meglio impauriti e soffocati dai Di Silvio che chiamati alla responsabilità di dire la verità per liberarsi.

“Mo non lo hai capito – fa l’uomo alla compagna che ha ammesso di essere stata estorta alla Polizia – che se adesso succede qualcosa…vanno da loro…ci sta il nome mio…il nome tuo…che dichiarate…a destra e sinistra…non è peggio”. E ancora sempre rivolto alla compagna: “Praticamente mi stai a fa’ capi’ che te la sei cantata?“.

La donna risponde che comunque gli investigatori sapevano già tutto – erano sulle tracce del Clan di Romolo da tempo – ma il compagno non ne vuole saperne niente. La donna gli viene incontro e gli promette che sarebbe andata di nuovo alla Polizia a ritrattare l’ammissione. Tuttavia, il compagno è agitatissimo e le dice cosa farà nel caso in cui fosse chiamato dai poliziotti: “Io nego tutto…io non ho preso un soldo…io non ho dato un cazzo a nessuno…ma che mi devo anda’ a rovina’ io per glia altri“.

È così che avviene. A novembre, ascoltato dagli investigatori, l’uomo vessato e usurato, disperato a tal punto da aver messo in pericolo il proprio lavoro al ristorante interpellando il proprio datore, rilascia dichiarazioni opposte a quelle della compagna che aveva ammesso l’estorsione e la pressione psicologica dovuta alla fama criminale dei Di Silvio.

L’uomo ammette di conoscere i Di Silvio davanti agli investigatori, ammette persino di essere assuntore di cocaina e di aver assistito agli incontri al ristorante tra i rom e il datore di lavoro, ma nega nella maniera più assoluta di aver acquistato droga dal sodalizio e di aver contratto debiti con loro.

Solo il pensiero di rispondere con la verità a una domanda diventa opprimente. È così che il Clan primeggia, nutrendosi come un parassita delle paure di Latina.

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