PROCESSO ALBA PONTINA – Il secondo round della deposizione di Renato Pugliese, svoltasi oggi nell’aula della Corte di Assise del Tribunale di Latina, è un lungo flashback criminale di questi anni, come sentenziò a Roma il giudice Annalisa Marzano nel processo collegato agli altri componenti del Clan di “Lallà” Di Silvio che hanno scelto di essere giudicati col rito abbreviato.
Interrogato dal pm Luigia Spinelli, insieme al collega Claudio De Lazzaro, Pugliese racconta e conferma quanto ha dichiarato nei verbali che ha rilasciato agli stessi magistrati e alla Squadra Mobile di Latina. Eppure è con il contro-esame dell’avvocato Oreste Palmieri, difensore del boss Armando “Lallà” Di Silvio, che escono (o vengono confermate), probabilmente, le cose più interessanti. Almeno dal punto di vista della storia criminale del capoluogo (e non solo), che, dal nostro punto di vista, è ciò che ci interessa di più.
ECCO PERCHÈ MI SONO PENTITO
A domanda dell’avvocato Palmieri, Pugliese risponde senza tentennamenti e non si dà arie da eroe che vuole salvare Latina e il mondo dal male – come più o meno fece trasparire Agostino Riccardo, l’altro pentito di “Alba Pontina”, personaggio da sempre più esuberante e “fracassone” di Pugliese. Il figlio di Cha Cha lo dice chiaramente: “Mi sono pentito perché temevo di essere tradito dai Di Silvio“. Il perché? I Di Silvio sapevano che Pugliese non si era pentito a fine 2016, ossia quando fu arrestato insieme ad Agostino Riccardo, Ferdinando Pupetto e Samuele Di Silvio dopo quella che abbiamo definito l’estorsione “madre” ai danni di un ristoratore di Sermoneta Scalo, ma era confidente della Polizia di Stato già nel novembre 2014 (ossia, prima dell’arresto del padre con l’inchiesta Don’t touch). E i Di Silvio ne erano a conoscenza.
Un confidente che comunque non aveva smesso di delinquere, come dice lui stesso: quando parlava con il poliziotto della Mobile di cui si fidava, non si esimeva dall’andare dai Moccia di Tor Bella Monaca a caricare 600 grammi di cocaina, mentendo all’agente di Polizia.
Tuttavia, Pugliese ha dichiarato che ai Di Silvio, lui, faceva comodo “anche se ero diventato infame“, sebbene la cosa non sarebbe durata troppo. Ecco perché, ad un certo punto, per uno che anni prima stava con Massimiliano Moro (l’acerrimo nemico dei clan sinti che, infatti, per questo lo freddarono nel 2010), tutto era diventato rischioso. Un gioco troppo duro, anche in ragione del fatto che il padre, il conosciutissimo Costantino Cha Cha Di Silvio era in galera dopo l’operazione Don’t Touch (ottobre 2015). E ad accorgersi che i Di Silvio di Campo Boario non lo coinvolgevano del tutto, Pugliese lo capì quando, per gli affari con la politica, non gli furono corrisposti i soldi che, secondo lui, avrebbero dato alcuni committenti come l’imprenditore dei rifiuti, tra Latina, Sermoneta e Cisterna, Raffaele Del Prete che spingeva per Noi Con Salvini (l’attuale parlamentare europeo della Lega di Latina, Matteo Adinolfi era il suo commercialista; il deputato Francesco Zicchieri in rapporto con lui come testimoniano le intercettazioni contenute nell’inchiesta cisternese Touchdown) e Gina Cetrone candidata alle amministrative 2016 come sindaco a Terracina.
Un confidente che comunque non aveva smesso di delinquere, come dice lui stesso: quando parlava con il poliziotto della Mobile di cui si fidava, non si esimeva dall’andare dai Moccia di Tor Bella Monaca a caricare 600 grammi di cocaina, mentendo all’agente di Polizia.
Tuttavia, Pugliese ha dichiarato che ai Di Silvio, lui, faceva comodo “anche se ero diventato infame“, sebbene la cosa non sarebbe durata troppo. Ecco perché, ad un certo punto, per uno che anni prima stava con Massimiliano Moro (l’acerrimo nemico dei clan sinti che, infatti, per questo lo freddarono nel 2010), tutto era diventato rischioso. Un gioco troppo duro, anche in ragione del fatto che il padre, il conosciutissimo Costantino Cha Cha Di Silvio era in galera dopo l’operazione Don’t Touch (ottobre 2015). E ad accorgersi che i Di Silvio di Campo Boario non lo coinvolgevano del tutto, Pugliese lo capì quando, per gli affari con la politica, non gli furono corrisposti i soldi che, secondo lui, avrebbero dato alcuni committenti come l’imprenditore dei rifiuti, tra Latina, Sermoneta e Cisterna, Raffaele Del Prete che spingeva per Noi Con Salvini (l’attuale parlamentare europeo della Lega di Latina, Matteo Adinolfi era il suo commercialista; il deputato Francesco Zicchieri in rapporto con lui come testimoniano le intercettazioni contenute nell’inchiesta cisternese Touchdown) e Gina Cetrone candidata alle amministrative 2016 come sindaco a Terracina.
Pugliese, nel corso della sua deposizione odierna, ha ripetuto più volte che l’uomo della Squadra Mobile (che preferiamo non citare per nome in rispetto del suo ruolo) ha sempre fatto il poliziotto, anche pochi giorni prima che lo arrestassero per l’estorsione nei confronti del ristoratore di Sermoneta. Epperò è lo stesso Pugliese a ribadire che, nella Questura di Latina (lo ha detto più volte), c’era qualche mela marcia che passava notizie a loro “anche se poi le sentenze hanno detto altro”.
MI VOLEVANO MORTO
Il suo è un racconto ansiogeno poiché, da molto tempo, Renato Pugliese, il figlio non del tutto sinti e per questo sempre guardato a vista dai suoi parenti, aveva paura di morire. L’aveva nel 2010 quando ammazzarono il suo dominus criminale, Massimiliano Moro ucciso perché “voleva sterminare tutti i Ciarelli” e “prendersi Latina” sopratutto dopo un fatto che sembrerebbe minimo: nel 2009 uno schiaffo ricevuto in pieno volto da Carmine “Porchettone” Ciarelli a cui doveva 120mila euro. Al che Moro “si voleva vendicare ed avrebbe voluto uccidere…quel giorno voleva uccidere Carmine, il giorno dopo voleva uccidere Luigi, il giorno dopo ancora voleva uccidere Ferdinando…Lui voleva sterminare tutti quanti per poi prendersi tutto quello che era il giro di Latina, solo che il problema, tra virgolette, è che quando Fiori (ndr: Gianfranco Fiori, processualmente assolto per questo episodio) spara a Carmine Ciarelli a Pantanaccio, lo lascia in vita, lo vede in faccia e lui poi in un secondo momento, tramite il lettino dell’ospedale in zingaro fa presente al fratello, Ferdinando, chi gli aveva sparato. Esattamente glielo dice in zingaro dicendo: “Balò” che significa il ciccione”. In seguito “Massimiliano Moro si presenta in ospedale quando Carmine Ciarelli è ferito e quindi fa finta di niente. In un secondo momento loro anche fanno finta di niente”. Alla fine, senza specificare i nomi precisi, secondo Pugliese (che dice di averlo saputo da Pasquale Di Silvio che gli avrebbe spiegato chi sparò a Moro in risposta all’agguato di Fiori), citofonarono tre volte a Moro (lui apriva solo al rintocco del terzo suono) e poi lo ammazzarono come un cane, a casa sua, nel freddo gennaio del 2010. All’epoca Pugliese era agli arresti domiciliari ed era un suo uomo, ma fu rassicurato che lui non sarebbe stato toccato.
Temeva di essere ucciso, Pugliese, quando faceva le sue scorribande per l’approvvigionamento della droga, coca pura che veniva dal Sudamerica tramite tutti i maggiori clan del territorio, e per tale ragione andava dai Gallace a Nettuno, compromettendosi con un intermediario procacciato da Agostino Riccardo; oppure da Giuseppe ‘O Marocchino D’Alterio – “si sapeva che da vent’anni Giuseppe controlla tutto a Fondi: dal Mof alla droga” – senza fare i conti che in quel chilo di droga preso e non pagato dall’amico del padre Cha Cha, c’erano di mezzo i Fasciani di Ostia che, proprio da poco, si sono beccati una condanna per mafia (la vera mafia capitale, accertata anche da una sentenza passata in giudicato).
O, ancora, quando si recava dal famigerato “sardo di Sezze“, un narcotrafficante di alto rango di stanza sui Lepini che, tramite Ermes Pellerani, entra in contatto con Pugliese e i Di Silvio. Rubato tutto anche a lui, solo che al “sardo” non interessa che Pugliese è il figlio di Cha Cha: per lui era già morto. (“Il sardo ti sta ancora cercando”, mi disse Alessandro Zof).
Eppoi c’erano gli albanesi che “giravano con una sua foto” perché un giorno o l’altro gliel’avrebbero fatta pagare.
O, ancora, quando si recava dal famigerato “sardo di Sezze“, un narcotrafficante di alto rango di stanza sui Lepini che, tramite Ermes Pellerani, entra in contatto con Pugliese e i Di Silvio. Rubato tutto anche a lui, solo che al “sardo” non interessa che Pugliese è il figlio di Cha Cha: per lui era già morto. (“Il sardo ti sta ancora cercando”, mi disse Alessandro Zof).
Eppoi c’erano gli albanesi che “giravano con una sua foto” perché un giorno o l’altro gliel’avrebbero fatta pagare.
Non mancavano neanche i cisternesi, quelli di Gennaro Amato e Alessandro Contì: “Contì mi voleva morto…mio padre e Lallà andarono fino ai Cinque Archi di Velletri per chiarire”.
E “mi voleva morto Carlo Maricca che mi minacciò”, ha detto Pugliese. Il quale Maricca convocò lui e Agostino Riccardo al suo maneggio a Latina, tramite Alessandro Zof, per “una truffa che facemmo al fratello di Giacomo Paniccia che stava con lui”.
Lo stesso Salvatore Travali, vecchio compare di clan (stavano tutti e due nel sodalizio cosiddetto “Don’t Touch”), minacciò a più riprese Pugliese, con il culmine di uno schiaffo in pieno centro, al Polo Nord, a causa di un debito. “Ma mi ripresi la mia rivincita…quando Salvatore stava in carcere gli feci spaccare una mascella…lui disse che era scivolato in doccia“.
Lo stesso Salvatore Travali, vecchio compare di clan (stavano tutti e due nel sodalizio cosiddetto “Don’t Touch”), minacciò a più riprese Pugliese, con il culmine di uno schiaffo in pieno centro, al Polo Nord, a causa di un debito. “Ma mi ripresi la mia rivincita…quando Salvatore stava in carcere gli feci spaccare una mascella…lui disse che era scivolato in doccia“.
LA DROGA IL MOTORE DI TUTTO
“Mi hanno sempre contestato estorsioni, ma io da sempre ho venduto droga“. Così si è descritto Renato Pugliese oggi, quando ad interrogarlo era il pm Spinelli, ed è in questo modo che ha spiegato come si controlla il territorio, con buona pace delle forze politiche di centrodestra o destra – vedi Lega e Casapound – che vanno nel quartiere Nicolosi a protestare contro l’immigrazione invasiva. Ha confermato, Pugliese, di come Pupetto Di Silvio, uscito dopo 8 anni di carcere ad aprile del 2016, impose a Joseph “il tunisino”, “capo degli spacciatori marocchini” dell’unica vera piazza di spaccio latinense (“lì ci sono le sentinelle e le persone in strada che controllano, nelle altre zone dello spaccio si va a casa del pusher“) – il quartiere Nicolosi per l’appunto – di acquistare la droga da loro, i Di Silvio di Campo Boario: chili di droga e 2000/2500 a settimana da dare alla famiglia sinti per evitare guai.
E da chi si rifornivano i Di Silvio per la droga del Nicolosi da dare ai marocchini? “Da Gianluca Ciprian”, questa la risposta di Pugliese, un nome che ritorna spesso nelle cronache del pentitismo pontino, coinvolto nella nota Operazione Arco risalente al 2014 che fece emergere un largo giro di narcotraffico sulle “coste” dei Lepini.
E da chi si rifornivano i Di Silvio per la droga del Nicolosi da dare ai marocchini? “Da Gianluca Ciprian”, questa la risposta di Pugliese, un nome che ritorna spesso nelle cronache del pentitismo pontino, coinvolto nella nota Operazione Arco risalente al 2014 che fece emergere un largo giro di narcotraffico sulle “coste” dei Lepini.
“Con la cocaina si facevano circa 400-500 euro al giorno” (compreso “quel napoletano tossicodipendente che otteneva uno sconto perché si esibiva cantando“) – ha detto Pugliese. Non si può fare di più, o almeno non quanto “fa Giulia De Rosa (ndr: moglie del deceduto Alessandro De Rosa, detto Franco Lo Zingaro, e madre di Christian De Rosa recentemente coinvolto nell’operazione Scudo) che riesce a raggiungere anche tra i 2000 e i 4000 mila quotidiane” in zona Cimitero.
TRA ESTORSIONI E GETTONI DI PRESENZA, ECCO I NOMI DI UN MONDO DIVERSO
Che cos’è un gettone di presenza? È quando Agostino Riccardo portava la “storia” – usualmente quella di un professionista in difficoltà dovendo corrispondere un debito, o indietro con i pagamenti con un altro professionista o altri imprenditori – all’attenzione di Armando “Lallà” Di Silvio e dei suoi tre figli, Samuele, Ferdinando “Pupetto” e Gianluca Di Silvio. Imbastita la strategia per recuperare il credito o il debito (a seconda dei punti di vista), il gettone di presenza veniva esercitato da chi aveva più fama criminale, in questo caso i Di Silvio di Campo Boario. Era sufficiente la presenza all’incontro “chiarificatore” di un Di Silvio per far spaventare il debitore. In questo modo, Agostino o Renato, affiliati al clan, ma addentro alla Latina bene con la loro rete di conoscenti anche tra persone per così dire presentabili, rassicuravano il malcapitato dicendogli: “non ti preoccupare ci mettiamo noi una parola buona, ma tu devi pagare altrimenti quelli sparano“.
Fu così con Davide Malfetta, il ristoratore di Sermoneta Scalo, amico di Davide Lemma, e fu così anche con De Gregoris, il cui debito con due imprenditori di Monterotondo che avevano interpellato i Di Silvio, fu pagato da Luciano Iannotta, l’attuale presidente dell’Associazione Sportiva Dilettantistica Polisportiva Terracina Calcio e a capo di Confartigianato Imprese Latina, che recentemente ha organizzato (31 ottobre 2019) con la Questura di Latina e l’Associazione Nazionale Anziani e Pensionati (Anap), nella sede di Piazzale Granato, presso il Centro le Corbusier (Latina), un incontro per informare sulle truffe che prendono di mira gli appartenenti alla terza età. Un uomo che, a detta di Pugliese, conoscevano dai tempi in cui con Viola, Alessandrini e il gruppo Don’t Touch, facevano le campagne elettorali per Gina Cetrone con cui stabilirono un contatto attraverso il suo ex marito.
Un uomo che dava del tu a lui e ad Agostino Riccardo al punto da aggredire quest’ultimo, e picchiarlo, nel momento in cui si presentarono nella sua azienda vicino Sonnino per tentare di racimolare qualcosa.
Fu così con Davide Malfetta, il ristoratore di Sermoneta Scalo, amico di Davide Lemma, e fu così anche con De Gregoris, il cui debito con due imprenditori di Monterotondo che avevano interpellato i Di Silvio, fu pagato da Luciano Iannotta, l’attuale presidente dell’Associazione Sportiva Dilettantistica Polisportiva Terracina Calcio e a capo di Confartigianato Imprese Latina, che recentemente ha organizzato (31 ottobre 2019) con la Questura di Latina e l’Associazione Nazionale Anziani e Pensionati (Anap), nella sede di Piazzale Granato, presso il Centro le Corbusier (Latina), un incontro per informare sulle truffe che prendono di mira gli appartenenti alla terza età. Un uomo che, a detta di Pugliese, conoscevano dai tempi in cui con Viola, Alessandrini e il gruppo Don’t Touch, facevano le campagne elettorali per Gina Cetrone con cui stabilirono un contatto attraverso il suo ex marito.
Un uomo che dava del tu a lui e ad Agostino Riccardo al punto da aggredire quest’ultimo, e picchiarlo, nel momento in cui si presentarono nella sua azienda vicino Sonnino per tentare di racimolare qualcosa.
Insomma, uno, Luciano Iannotta, a quanto riporta Pugliese, che poteva dialogare anche con i Di Silvio, pagando sì per l’estorto in questione, ma pretendendo che poi fosse lasciato in pace. E non solo. Fu lui, a quanto riporta Pugliese, a dargli svariati migliaia di euro (circa 15mila euro, senza chiederli indietro) per un debito che Renato aveva con Luigi Ciarelli. Un debito che fece un giro stano: era Angelo Travali, con cui Renato condivideva gli affari, prima di passare al clan di Lallà, a dovere dei soldi a Luigi Ciarelli in quanto aveva acquistato da lui un carico di fumo (hashish) da circa 30mila euro. Una volta finito in carcere Travali, fu Renato Pugliese a dover ripianare il debito contratto da Angelo “Palletta” e lo seppe perché “mi dicevano che Marco Ciarelli (ndr: figlio di Luigi) mi stava cercando“.
L’ALTRO LIVELLO
Accanto alla polvere delle strade di Torbella, alla spietatezza dei rapporti di potere tra clan, ai bassifondi dei pusher di strada (“A casa di Valentina Travali – sorella di Angelo e Salvatore, che spacciava in Via Corridoni, al Nicolosi, anche lei sotto i Di Silvio in quanto compagna, nel tempo, di due uomini di nazionalità marocchina – “sono andato solo una volta, era sporco, mi veniva da vomitare“), c’era quella Latina e quella provincia che si vestiva in giacca e cravatta. Era semplice il gioco: per estorcere un avvocato o un professionista o un imprenditore, i Di Silvio si inserivano se c’era da recuperare un credito che una persona aveva con quell’avvocato, quel commercialista o quell’imprenditore. A detta di Pugliese, lo fecero, tramite Agostino Riccardo, con l’assicuratore Trotta o con il commerciante del pesce che aveva il banco al mercato del martedì (“Doveva allineare i prezzi così come voleva un altro pescivendolo amico di D’Alterio che commissionò il lavoro a noi di Latina“). Solo due esempi tra i tanti.
C’era, poi, l’ex candidato a sindaco di Latina (amministrative 2016), Davide Lemma, a cui Pugliese chiese dei soldi nel momento del bisogno, sempre per un maledetto debito di droga – Pugliese, come detto, era solito vendere e portare ai Di Silvio coca purissima, ma aveva il vizio di non pagarla ai clan da cui si approvvigionava: “Lemma era amico di mio padre, faceva il direttore del Latina Calcio con Maietta“.
Ma il personaggio più misterioso rimane Antonio Fusco, detto Zi Marcello, indagato nell’inchiesta Alba Pontina (accusato di favoreggiamento) di cui abbiamo scritto ampiamente mesi fa (leggi qui). Uomo con concrete aderenze nelle Forze dell’Ordine, era colui che metteva in guardia, nel 2016, Pugliese, Riccardo e i Di Silvio dalle attività della Polizia, di cui era venuto a sapere, quando di lì a poco avrebbe voluto intervenire per arrestarli in flagranza di un’estorsione (quella ai danni del ristoratore di Sermoneta Scalo, Davide Malfetta). Il punto è che Antonio Fusco, che si presenta distinto, insospettabile, inserito nella regola del gioco sociale (come ha detto Pugliese), per salvarli provava a contattare al telefono i Di Silvio di Campo Boario da un centralino di Palazzo M, al centro della città di Latina, che altro non è che il Comando Provinciale della Guardia di Finanza.
“Fusco” – ha dichiarato oggi Pugliese – “stava spesso in Kenya per rilassarsi, è un imprenditore, possiede un benzinaio sulla Pontina, ha diversi capannoni…sta nel ramo nelle concessionarie“. Sopratutto, come ha sostenuto Pugliese, è vicino a Patrizio Forniti, il cognato di Nino Montenero, e Sergio Gangemi, il pezzo grosso legato alla ndrangheta. Due uomini, Forniti e Gangemi, con cui non si scherza in ragione del fatto che “si sa chi hanno dietro“.
Ecco perché quando Fusco entra in gioco per dirimere un’estorsione che Pugliese e i Di Silvio stavano portando a termine ai danni di un commerciante di fiori di Nettuno, quest’ultimo pagò ma poi fu lasciato in pace proprio perché conosceva Zi Marcello. Se avessero continuato a dargli fastidio, “le cose si sarebbero messe male” perché con Fusco c’erano Forniti e Gangemi.
Ecco perché quando Fusco entra in gioco per dirimere un’estorsione che Pugliese e i Di Silvio stavano portando a termine ai danni di un commerciante di fiori di Nettuno, quest’ultimo pagò ma poi fu lasciato in pace proprio perché conosceva Zi Marcello. Se avessero continuato a dargli fastidio, “le cose si sarebbero messe male” perché con Fusco c’erano Forniti e Gangemi.
Altro nome che è stato menzionato a più riprese da Pugliese è quello di Gianluca La Starza, avvocato, un tempo vicino all’Associazione Vittime della Strada di Latina e presidente della Lynx Latina, la squadra di calcio a 5 con sede sociale a Borgo Sabotino e che milita nella massima serie. Una delle poche società rimaste nel Palazzetto dello Sport del capoluogo.
“La Starza era noto per i cid falsi (ndr: nel ramo delle assicurazioni)…a mio padre diede 20mila euro…era un tipo pauroso“. È Pugliese a rivelare che loro, i Di Silvio, si inserirono in un debito che La Starza avrebbe avuto con persone a cui doveva denaro per alcuni incidenti falsi.
“La Starza era noto per i cid falsi (ndr: nel ramo delle assicurazioni)…a mio padre diede 20mila euro…era un tipo pauroso“. È Pugliese a rivelare che loro, i Di Silvio, si inserirono in un debito che La Starza avrebbe avuto con persone a cui doveva denaro per alcuni incidenti falsi.
TRA CIARELLI E DI SILVIO NON CORRE BUON SANGUE
Pugliese lo specifica nei minimi particolari, lasciando intendere che la cosiddetta Guerra Criminale del 2010, in cui le due famiglie si unirono contro i gruppi di Mario Nardone e Massimiliano Moro, fu solo una parentesi. Breve e insanguinata (due morti, Moro e Bistecca Buonamano, e diverse gambizzazioni tra cui quella di Alessandro Zof): “Doveva morire anche Carlo Maricca per quello che aveva fatto in precedenza…quando ha saputo che c’era questa guerra in atto lui, a quanto mi ha detto Armando Di Silvio, è scappato in Romania per tempo…è uno scaltro, è un viscido” – ha sostenuto Pugliese anche in riferimento all’uccisione di Ferdinando “Il Bello” Di Silvio esploso a Capoportiere dentro la sua auto nel 2003.
Uno dei casi che esemplifica l’odio tra i due clan, lo riporta alla mente Pugliese quando, nel 2016, un uomo vicino ai Ciarelli volle prendere casa a Campo Boario. Non lo avesse mai fatto. Quello è il territorio dei Di Silvio e l’altra famiglia sinti deve stare al di là del canale, a Pantanaccio.
Volarono parole grosse e bastoni, si mise in mezzo anche il fratello di Lallà, Gianni Di Silvio, talché Luigi Ciarelli mandò, come da tradizione rom, 7-8 donne della famiglia Ciarelli a sbraitare nel regno di Armando Di Silvio. Intervenne la Squadra Mobile e la cosa si risolse così: ognuno a casa sua, i Ciarelli al Pantanaccio e i Di Silvio a Campo Boario, con la promessa di guerre sempiterne – Pupetto avrebbe voluto fare la pelle a qualcuno dei Ciarelli; lo stesso Marco, figlio di Luigi Ciarelli, a quanto riporta Pugliese, avrebbe voluto ucciderlo.
Uno dei casi che esemplifica l’odio tra i due clan, lo riporta alla mente Pugliese quando, nel 2016, un uomo vicino ai Ciarelli volle prendere casa a Campo Boario. Non lo avesse mai fatto. Quello è il territorio dei Di Silvio e l’altra famiglia sinti deve stare al di là del canale, a Pantanaccio.
Volarono parole grosse e bastoni, si mise in mezzo anche il fratello di Lallà, Gianni Di Silvio, talché Luigi Ciarelli mandò, come da tradizione rom, 7-8 donne della famiglia Ciarelli a sbraitare nel regno di Armando Di Silvio. Intervenne la Squadra Mobile e la cosa si risolse così: ognuno a casa sua, i Ciarelli al Pantanaccio e i Di Silvio a Campo Boario, con la promessa di guerre sempiterne – Pupetto avrebbe voluto fare la pelle a qualcuno dei Ciarelli; lo stesso Marco, figlio di Luigi Ciarelli, a quanto riporta Pugliese, avrebbe voluto ucciderlo.
Un odio, quello tra i clan sinti, che come bene spiegato da Nello Trocchia nel suo libro sui Casamonica, esiste perché questi sodalizi sono degli arcipelaghi e non hanno (ancora?) la struttura unita e piramidale di una tradizionale Mamma della ndrangheta o, ancor di più, di Cosa Nostra.
Prossimo round. L’udienza di questo lungo flashback criminale è fissata al ritorno dalle feste natalizie: martedì 7 gennaio ore 9. A parlare sarà l’altro collaboratore di giustizia, Agostino Riccardo.