BASTARDA PONTINA (Parte I)

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Casa confiscata Ciarelli
La casa confiscata dei Ciarelli/Di Silvio in Via Dei Sabini, zona Piccarello a Latina

La ‘ndrangheta è una macrostruttura segreta, orientata e avviluppata alla massoneria calabra: tante locali (cosche o famigghie) equivalgono ad altrettanti centri di potere occulto e di business, ognuno dei quali comunicanti e annodati tra di loro.

Tutto sembra preordinato e sfuggente al caos nella più potente organizzazione criminale del mondo, nonostante come in ogni società umana qualcosa scappa dal reticolato. Nelle varie articolazioni della ‘ndrangheta, ce ne è una che salta immediatamente agli occhi. È la bastarda: una struttura non autorizzata dagli organismi di vertice calabresi, considerata espressione diretta della “società” di Solano inserita nel locale di Bagnara Calabra (Reggio Calabria).

Considerata la storia per nulla identitaria del territorio che influenza molti aspetti della vita pubblica, anche i clan di Latina sono bastardi, non si ascrivono a onorate società nonostante mantengono con esse imprescindibili legami e si compiacciono, tra omertà e improvvisazione, di essere liberi dalle regole che le mafie tradizionali hanno costituito e sedimentato nel tempo.

La sede in disuso dell'ex As Campoboario, la società calcistica del quartiere di Latina un tempo appartenuta a Costantino Cha Cha Di Silvio e Gianluca Tuma
La sede in disuso dell’ex As Campoboario, la società calcistica del quartiere di Campo Boario (Latina) un tempo appartenuta a Costantino Cha Cha Di Silvio e Gianluca Tuma

Un mondo relativamente nuovo (i clan rom sono attivi nel Lazio ormai da un quarantennio), all’ombra comoda di quello vecchio, coperto da una quinta di teatro del crimine che nasconde queste piccole mafie in mancanza di legislazioni adeguate rispetto alla prima benzina di ogni crimine organizzato: la droga.

Credere di aver risolto e smantellato la struttura e le logiche dei clan autoctoni della città di Latina, dopo le ultime operazioni della magistratura (Alba Pontina 2018), sarebbe un grande errore. Ad esempio, il clan Di Silvio/De Rosa, quello colpito duramente dagli arresti per mafia di giugno 2018, non è una cosca unitaria e ha diverse ramificazioni, anche all’interno della stessa città di Latina; sopratutto, coloro che sono accusati di associazione mafiosa hanno sempre rivestito un profilo di secondo livello all’interno delle gerarchie dei Di Silvio che ha almeno un altro robusto ramo (oggi in sordina per via di inchieste e processi), quello facente capo, tra gli altri, a Carmine “Porcellino” Di Silvio, Giuseppe “Romolo” Di Silvio e Costantino “Patatone” Di Silvio, quest’ultimo figlio di Ferdinando il Bello che fu ucciso nel 2003 da un attentato esplosivo rimasto impunito (una auto-bomba a Capoportiere, al Lido di Latina, che quanto a violenza rimane un unicum per la città pontina).

Durante la guerra criminale del 2010 scaturita dall’attentato a Carmine Ciarelli, non erano certo gli uomini di Lallà a tessere le fila. Dapprima accusati di associazione per delinquere nell’inchiesta denominata Caronte (da cui poi conseguì il notissimo processo omonimo) insieme all’altra ala dei Di Silvio e all’altro clan rom Ciarelli, le loro posizioni si affievolirono con l’unica eccezione di uno dei figli di Lallà, Giuseppe Pasquale Di Silvio, che fu condannato nel processo, e che, nelle carte dell’inchiesta Alba Pontina, è citato più volte poiché esempio di come i Di Silvio gestiscono, similmente alla camorra e alle mafie tradizionali, i propri carcerati: si devono sostentare e la cassa comune derivante dalla vendita della cocaina è riservata quota parte ai detenuti. Il controllo del carcere (un luogo dove intessere relazioni per future alleanze criminali), infatti, è molto importante per i clan, e i Di Silvio non fanno eccezione. Dalla volontà di controllo derivano, spesso, comportamenti di collusione da parte di infedeli della polizia penitenziaria che favoriscono, e lo dimostrano svariate inchieste, traffici di ogni genere (come il denaro o la droga portati dall’esterno dentro il carcere), o, addirittura, la retta di armi per conto di consorterie criminali (retta: lo stoccaggio), come è stato scoperto di recente dalla Squadra Mobile di Latina, in collaborazione con lo Sco, in un appartamento del Villaggio Trieste. Patrizia Caschera, l’agente della polizia penitenziaria arrestata, custodiva un piccolo arsenale fatto di Beretta, Smith Wesson, Sig Sauer ecc.

Proprio nelle pastoie gelatinose del carcere, i Di Silvio dimostrano di voler gestire quel microcosmo. È lì che si consuma la cesura più netta a qualsiasi patto di non belligeranza con i Travali (il clan colpito dalle condanne del processo Don’t Touch), che prima dei loro arresti sovrintendevano alcune piazze di spaccio a Latina. Dopo Don’t Touch, come noto, e gli arresti più significativi, i balordi di Campo Boario avevano colonizzato le zone precedentemente sotto il controllo dei Travali, Morelli ecc.: Q4, Viale Nervi, Villaggio Trieste, Nicolosi. Salvatore “Bula” Travali, tra i più recalcitranti ad accettare il nuovo stato di soccombenza del suo clan,  fu fatto picchiare, per volere dei Di Silvio di Campo Boario, da un altro detenuto, in cambio, a detta del pentito Renato Pugliese, di dieci stecche di sigarette.

Le case Ater del quartiere del Villaggio Trieste
Le case Ater del quartiere Villaggio Trieste in Via Virgilio. I Travali (clan Don’t Touch) avevano occupato abusivamente alcune delle abitazioni cosiddette popolari.

Avvenuto l’episodio due anni fa (2016), ora si ha la conferma che Bula non era caduto nella doccia come lui, un po’ goffamente, aveva scritto a chiare lettere in un’epistola pubblicata incredibilmente dalla stampa locale. Un fatto piuttosto inquietante, quello della pubblicazione della lettera, dal momento che questo genere di messaggio serviva a Bula (a cui fu consentito, in seguito, di fare gli auguri alla sua fidanzata con una pagina a pagamento su Latina Oggi) per comunicare la sua caratura criminale: potete anche picchiarmi ma io non “faccio l’infame”, e mi vendicherò, se ne avrò opportunità, seguendo le “nostre regole”.

Al fine di comprendere ancora di più le spaccature di questi clan rom che poco hanno a che vedere con la rigidità gerarchica dei clan tradizionali, è esemplificativa un’intercettazione, contenuta nelle sentenze del processo Caronte. Siamo nel 2010, i due fratelli Samuele e Pupetto Di Silvio – arrestati e accusati di associazione mafiosa (Alba Pontina 2018) insieme al padre Armando “Lallà”, al fratello Gianluca e agli altri – venivano descritti dall’altra ala dei Di Silvio come “boni solo a mettesse l’oro addosso”, oltreché investiti di epiteti non proprio oxfordiani, poiché incapaci di eseguire le direttive dei due clan Di Silvio e Ciarelli, all’epoca in joint venture per mettere a tacere la rivolta di un gruppo locale criminale (quello “facente capo” a Mario Nardone). Carmine “Porcellino” Di Silvio, addirittura, definiva effeminato Armando Di Silvio, il Lallà ora accusato di essere il “gran capo” mafioso dei Di Silvio dalla DDA di Roma, al contrario di suo figlio Samuele ritenuto, ad ogni modo, più affidabile (anche il pentito Renato Pugliese lo considera il più pericoloso). Persino a Pupetto Di Silvio, che aveva avuto un ruolo operativo nella guerra criminale 2010 (fu lui che guidava il motorino con cui accompagnò Christian Liuzzi a esplodere dei colpi d’arma da fuoco contro Alessandro Zof, un’azione grave che fu poi derubricata in lesioni), veniva contestato dall’altra ala dei Di Silvio l’ambiguità (“infame” per le logiche criminali) di farsela con non precisati calabresi.

Il rafforzamento del peso criminale

Il carattere bastardo di questi clan trova conferma nella struttura del clan rom più radicato e potente che ci sia, i Casamonica. A Roma, assommano diversi rami della famiglia Di Silvio, e altre famiglie come gli Spada o gli Spinelli ecc., nonostante la matematica abbia poco a che vedere con la comprensione delle loro logiche di organizzazione criminale. Nelle carte dell’inchiesta della DDA romana denominata “Gramigna” (gli arresti sono scattati a luglio 2018, circa un mese dopo i provvedimenti dell’inchiesta parallela latinense Alba Pontina), la collaboratrice di giustizia Daniela Cerreoni (ex convivente di Massimiliano Casamonica) spiega bene che la famiglia, infatti, è composta da un capo per ogni nucleo, ognuno dei quali è legato agli altri, “ma non esiste un capo assoluto di tutti, un capo dei capi”. Quello famigliare è, però, un vincolo che lega tutti e, se necessario, tutti “sono a disposizione degli interessi della famiglia”. Sono “un’unica razza”, dicono sia la Cerreoni che l’altro pentito Massimiliano Fazzari, anche se ognuno è autonomo nella propria zona di riferimento. La Cerreoni ha illustrato, inoltre, il razzismo che ha sempre subito da parte degli altri componenti della famiglia Casamonica per questioni genetiche: non era rom e, quindi, non era degna di essere compagna e madre. Come per l’altro non rom Fazzari, il cui rapporto con i Casamonica era solo questione di partite di droga, poiché legato alla ‘ndrangheta degli Strangio, la cosca egemone insieme ai Nirta e ai Pelle del locale di San Luca in Calabria (versante Mandamento Jonico), stabile a Roma per fare affari col clan rom.

In contatto con i calabresi e con Michele Senese, il boss campano di stanza a Roma da decenni e, in passato, con la Banda della Magliana, per i Casamonica tutto fa brodo, ma il vincolo sacro che in Sicilia o in Calabria si sancisce con punciute o messe massonico-cantilenate, qui a Roma e a Latina e nella Cociaria (presenti i Di Silvio con diversi interessi) si forgia con la tara ereditaria sinti/rom, anzi, zingara, come loro stessi amano definirsi.

Ciò che succede all’Appio Tuscolano dei Casamonica è, pertanto, molto affine a ciò che succede a Latina. E non vi è da stupirsi che, in Alba Pontina, la consorteria di Lallà utilizzasse metodi poco consoni ai quadri del crimine organizzato, sottraendo senza pagarle alcune partite di droga ad altri clan (in uno degli episodi indicati dall’inchiesta, la droga, peraltro, fu rubata agli stessi “cugini stretti” dei Casamonica).

Uno scorcio dei palazzoni in Via Pionieri della Bonifica, a Campo Boario (Latina). Un quartiere difficile che sconta la presenza dei Di Silvio
Uno scorcio dei palazzoni in Via Pionieri della Bonifica, a Campo Boario (Latina). Un quartiere difficile che sconta la presenza dei Di Silvio

Struttura bastarda e comportamenti bastardi vanno di pari passo, sebbene – sia chiaro – in nessun clan ci sono comportamenti degni. Come i Di Silvio abbiano ripagato questi sgarri ai clan rimane un mistero, in ragione del fatto che le partite di droga sono merce di scambio molto delicata e pericolosa. Lo stesso Renato Pugliese, ora in collaborazione con la DDA, non sa rispondere al perché, dopo avere rubato alcune partite di droga durante le operazioni di acquisto da altri clan, non ci siano state serie ripercussioni. Quando Pugliese si intascò, non pagandolo, circa un kg di stupefacente da alcuni corrieri dell’area romana, che lavoravano per conto di Peppe ‘O Marocchino D’Alterio (il boss di riferimento di alcuni clan camorristici a Fondi), non subì alcuna vendetta, ma solo una richiesta di chiarimenti da parte del medesimo O’ Marocchino, da sempre compare di narcotraffico di Cha Cha Di Silvio, il padre di Renato Pugliese, da tre anni in carcere. Nonostante avesse avuto indicazioni da D’Alterio su come restituire il maltolto (avrebbe dovuto pagare a rate e lasciare i soldi a un banchista del mercato del martedì di Latina), Pugliese non sborsò un euro: un fatto piuttosto eloquente del peso che i clan rom hanno raggiunto in provincia. È probabile che al figlio di Cha Cha non si possa torcere un capello, essendo il padre un criminale che da anni è in contatto con il sud pontino, parimenti a molte altre consorterie latinensi che, da sempre, gestiscono i loro affari in coabitazione con i clan più noti del sud della provincia. Se trenta anni fa, le consorterie latinensi erano sotto il cappello delle cosche del sud pontino come gli stessi D’Alterio o i Tripodo ecc., oggi hanno la “credibilità” per via di crediti e fedeltà del passato.

I clan rom alla conquista del territorio

Ci sono voluti anni prima che nella coscienza del territorio, indipendentemente dalle carte delle Procure e dalle investigazioni delle forze preposte, vi fosse la piena consapevolezza di ciò che stava accadendo nel Lazio. I clan sinti/rom e le altre consorterie romano-latinensi sono mafia da decenni, lo saranno a prescindere da come andranno le ultime operazioni organizzate dalla DDA capitolina chiamate “Gramigna” (i Casamonica e gli Spada nella provincia romana) e Alba Pontina (i Di Silvio di Latina), i cui esiti sono ancora tutti da scrivere.  Queste “piccole mafie” sono, infatti, di difficile penetrazione poiché, come detto, si basano su legami famigliari di primo grado, da cui consegue che gli unici che si pentono hanno sangue di gaggi (chi non ha nel dna sangue sinti/rom) o, nella loro accezione denigratoria, sangue bastardo. All’indomani della notizia del “pentimento” di Renato Pugliese, figlio di Costantino “Cha Cha” Di Silvio ma col cognome per parte di madre, sulle cui dichiarazioni si impianta e si vidima largamente l’inchiesta Alba Pontina, era facile scorgere sui social insulti sulla sua natura sinti “non pura”: in sostanza Renatino, nelle logiche dei clan zingari, è geneticamente inaffidabile poiché di madre non sinti. Ecco perché, secondo questo modo di ragionare completamente mafioso, è un “infame” annunciato. È l’anagrafe che lo suggeriva.

Sì perché oltre al carico di viltà mascherata dalla violenza, le consorterie sinti/rom crescono e si rafforzano in un razzismo di fondo contro chi non ha quelle origini famigliari. Per così dire, il bianco che non ha la “faccia zingara” è quello da spremere, a meno che non si affili (anche sposando una donna della famigghia) o non venga utilizzato come acchiappa-clienti oppure non appartenga a qualche altro clan. Ferdinando “Pupetto” Di Silvio, figlio del cosiddetto capo Lallà Di Silvio, in un’intercettazione di Alba Pontina, sosteneva ai suoi compari in prossimità di un’estorsione ai danni di un gaggio: “Faccia Zingara, quello se mette paura”. Dove la parola “zingaro” se utilizzata da un bianco assume una matrice razzista, qui è utilizzata da uno stesso appartenente a quelle radici come un motto di superiorità per ottenere ciò che si desidera. Un ribaltamento di contesto linguistico, e conseguentemente sociale, dove il politicamente corretto che suggerisce di non chiamare un sinti “zingaro”, o un gambiano “negro”, o un bianco “muso pallido”, viene deriso/sovvertito. Ben vengano, per gli appartenenti ai clan sinti/rom, tutti quegli aspetti della vita pubblica che accrescono la loro “aurea” criminale: i luoghi comuni degli zingari brutti, sporchi e cattivi; i soprannomi come nei clan tradizionali; le cronache locali che li descrivono come criminali – lo stesso Pupetto si vanta con un estorto di aver sparato ad un altro criminale di Latina nella cosiddetta guerra del 2010; la sottocultura borgatara che alimenta il mito dello zingaro con tanto di canzoni napoletane di corredo e riferimenti pop da seguire (sia beninteso, a scanso di equivoci, che non è mai il pop, come le serie televisive tipo Gomorra, a creare il crimine); la lingua sinti utilizzata come una barriera e un segno di riconoscimento.

La prossemica, la gestualità della “faccia zingara”, il significante violento conduce al significato socio-culturale di una consorteria mafiosa, quella dei sinti-rom, che chiunque sia cresciuto a Latina ha sperimentato. Dai Ciarelli, dai Di Silvio, dai De Rosa, dai Fè, dai Travali è opportuno tenersi alla larga, dai loro quartieri – Pantanaccio, Campo Boario, Gionchetto, Villaggio Trieste -, e dal loro atteggiarsi. Lo sa la società civile, lo sanno gli altri gruppi criminali cittadini che esistono e che non sono stati più in grado di riprendersi completamente, anche al netto degli arresti di questi ultimi anni.

Uno scorcio di Via Giulio Cesare. Da questa via inizia Campo Boario; percorrendola si arriva dritti in Via Coriolano, di cui una delle traverse è Via Muzio Scevola dove risiede Armando Lallà Di Silvio, ora in carcere per associazione mafiosa. Nella sua casa, si consumava una consistente parte dello smercio di droga.
Via Giulio Cesare. Da questa via inizia Campo Boario; percorrendola si arriva dritti in Via Coriolano: una delle traverse è Via Muzio Scevola dove risiede Armando Lallà Di Silvio, ora in carcere per associazione mafiosa. Nella sua casa, si consumava, da anni, una consistente parte dello smercio di droga messo in piedi dai Di Silvio

Solo se fai parte di un altro clan, Pupetto sostiene, “può essere che te porto rispetto”, riferito a un interlocutore di origine campana che a detta sua aveva sbagliato, perché se “tu fai lo scemo” puoi essere anche napoletano ma non appartieni e, quindi, conti zero.

I rapporti dei clan sinti con i clan tradizionali si sono stratificati nel tempo, sin dagli anni ottanta per proseguire con la complessa convivenza a Latina con i Baldascini/Casalesi (vedi i Ciarelli e il processo Mendico/Anni 90), e ad arrivare a fatti apparentemente minimi ma piuttosto eloquenti come quello occorso nel 2014, quando Samuele Di Silvio, uno dei rampolli di casa Lallà, girava bellamente per Latina a compiere vigliaccate e bullizzare gaggi insieme a Salvatore Sparta Leonardi, figlio di un ex pentito (come noto, esiste radicato il fenomeno di chi si pente e poi si pente di essersi pentito) di un clan catanese di Cosa Nostra. Del resto, la droga, la benzina di cui si diceva, non cresce negli acquitrini della palude e qualcuno dovrà pure recapitarla nelle lande del Leone Alato. Ecco perché le relazioni con i clan tradizionali o i corrieri della droga di professione sono un fenomeno non già di oggi: ad esempio, secondo Renato Pugliese, di stanza a Sezze c’è un sardo di un certo spessore criminale in grado di rifornire di cocaina i clan di Latina e Terracina, e dal quale Renatino insieme a Marco Mauti (di Terracina e coinvolto nel mercato delle affissioni elettorali) si recò per acquisire un kg di sostanza stupefacente.

Rapporti con i clan che possono consolidarsi anche con un patto di mutuo silenzio: il sistema florovivaistico dei Crupi, legati ai calabri Commisso di Siderno, lo testimonia. Il loro centro direzionale era situato su una Migliara nel territorio pontino e, in tal modo, gestivano un narcotraffico che tagliava tutta l’Europa dall’Olanda fino alla palude. I Crupi, con la scusa del commercio florovivaistico, triangolavano con il Sudamerica, via Olanda, per importare in Italia ingenti quantità di droga (cocaina) che, in seguito, venivano smistate per lo Stivale durante i viaggi di ritorno dai Paesi Bassi verso la base di Latina. Un camion carico di fiori, infatti, passa velocemente le dogane e una volta entrato in Italia può fermarsi nelle varie stazioni di posta criminale al fine di consegnare la “merce”. Un narcotraffico gestito a puntino che prevedeva anche lo smercio di cioccolato che giungeva a Latina. La cioccolata sì, la sostanza stupefacente no. Infatti, i Crupi non intaccavano minimamente il controllo territoriale dei clan di Latina poiché la droga importata dall’Olanda non veniva spacciata nelle piazze pontine. Al massimo, la penetrazione territoriale nella città di Latina, avveniva da parte dei Crupi investendo in strutture sportive come La Siepe a Borgo Carso. Investimenti a discreto moltiplicatore di consenso sociale, forse dati in cambio di qualche altro favore da restituire.

Alba Pontina?

È proprio la droga, quindi, che caratterizza le indagini che hanno portato, il 12 giugno del 2018 (con ordinanza di applicazione di misure cautelari personali firmata il 23 maggio), agli arresti dei Di Silvio di Latina nell’operazione denominata Alba Pontina.

Droga come cocaina, hascisc, in parte marjuana che nelle precedenti indagini più rilevanti che avevano coinvolto i clan di Latina era entrata solo di striscio, fatte salve alcune operazioni mirate come Bon Bons, Lazial Fresco, Las Mulas e altre minori, le quali, al netto dei processi che ne sono conseguiti (o ne conseguiranno), non hanno liberato la città e la provincia da personaggi che in seguito hanno continuato imperterriti a sporcare il territorio e il suo tessuto sociale. Un’incapacità dello Stato, per via di percorsi giudiziari troppo complessi, di sradicare le incrostazioni del crimine organizzato nel territorio che trova conferma, sopratutto, nel sud della provincia dove, ad esempio, solo di recente, è stato oggetto di misura cautelare per mafia, il già citato Peppe ‘O Marocchino D’Alterio, arrestato a settembre 2018, insieme ai figli, nell’operazione della DDA denominata Aleppo, e vecchia conoscenza del narcotraffico già dai tempi dell’operazione Lazial Fresco (2007), in cui furono coinvolti, tra gli altri, anche Cha Cha Di Silvio e Peppe Lo Zingaro Travali. La famiglia D’Alterio fu colpita anche dall’operazione della DDA chiamata Sud Pontino (2010), che vide 68 arresti e che confermò, insieme alle altre due indagini dei Ros Damasco I e Damasco II, il grado di infiltrazioni dei clan al Mercato Ortofrutticolo di Fondi. Nonostante le inchieste e i processi, ’O Marocchino era sempre ‘O Marocchino, forte dei suoi legami con i clan camorristici, e capace di imporre il suo canone criminale, fatto di incendi e balzelli arroganti, ad alcuni imprenditori e trasportatori del Mof.

Anche nello storico Quartiere Nicolosi, il racket degli stupefacenti dei Di Silvio imponeva le sue direttive ai pusher del luogo
Anche nello storico Quartiere Nicolosi di Latina, il racket degli stupefacenti dei Di Silvio imponeva le condizioni ai pusher del luogo

Non è la droga, tuttavia, ad aver dato il via alle indagini di Alba Pontina, bensì le estorsioni e il recupero crediti. Se, come detto, la droga è la benzina di ogni criminalità associata, le estorsioni e il recupero crediti ne sono il motore. La droga serve per accumulare denaro, per avere una base economica, così da reinvestire i proventi con le usure/estorsioni (remunerative e meno pericolose del narcotraffico). La droga rimane, bene o male, nel contesto di chi la utilizza e di chi ne ottiene profitto; le estorsioni e il recupero crediti agiscono, invece, nell’ordito profondo della società cosiddetta civile, e sono la testimonianza vivente di quanto una città e un territorio possano essere soggiogati da gruppi di balordi che con vigliaccheria si associano per avere più peso.

Il risultato di Alba Pontina, che ha visto a distanza di venti anni l’interessamento della DDA romana per i clan di Latina città (nel 1997 ci furono un’indagine e degli arresti da parte dell’Antimafia romana a Latina che coinvolse la malavita latinense di Gianluca Tuma, Cha Cha, Baldascini, Peppe Lo Zingaro, Carmine Ciarelli ecc. e che si dissolse presto e colpevolmente), potrà e/o dovrà essere solo l’inizio, anche alla luce di una nuova giurisprudenza che non può che aiutare le indagini su queste consorterie – magari, questo è l’auspicio, prevedere una sezione distaccata della DDA nel territorio pontino.

È, infatti, grazie alla sentenza della Cassazione, la n. 57896 del 2017 che ha visto condannare i Fasciani di Ostia, che la presunta cosca latinense di Armando Lallà Di Silvio&parenti viene definita, nell’imputazione della DDA, mafiosa. Non forse una piccola mafia né una nuova mafia, ma una mafia minore. Secondo quella sentenza della Cassazione, “il reato previsto dal 416 bis cp (associazione mafiosa) è configurabile in relazione a organizzazioni diverse dalle mafie cosiddette tradizionali anche nei confronti di un sodalizio costituito da un ridotto numero di partecipanti che tuttavia impieghi il metodo mafioso per ingenerare sia pur in un ambito territoriale circoscritto una condizione di assoggettamento ed omertà diffusa”.

( – continua con la seconda parte e la terza parte)

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