Clan Ciarelli: sono riprese le testimonianze in Tribunale, ad essere ascoltati altre vittime del sodalizio di origine rom
Davanti al collegio presieduto dal Giudice Gian Luca Soana, è ripreso il processo che vede sul banco degli imputati quasi tutti i maggiori appartenenti del clan del Pantanaccio.
Il processo, come noto, è quello derivante dall’operazione “Puro Sangue” della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma e della Squadra Mobile di Latina finalizzata lo scorso giugno 2022, che contesta al clan Ciarelli (e ad altri soggetti slegati dal sodalizio rom o comunque membri di altre congreghe mafiose) reati aggravati dall’associazione mafiosa. Sul banco degli imputati, ci sono personaggi di rilevante caratura criminale come Carmine Ciarelli detto “Porchettone” e suo fratello Ferdinando Ciarelli detto “Furt”. Tra i reati più rilevanti vari episodi di estorsione, violenza privata, danneggiamento, usura. Dieci in tutto gli episodi estorsivi raccolti dagli investigatori e finiti nel processo.
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Nel procedimento con rito ordinario che è iniziato lo scorso 11 gennaio, alla sbarra ci sono dieci degli arrestati, inclusi Carmine e Ferdinando “Furt” Ciarelli. Gli altri sono Manuel Agresti, Matteo Ciaravino, Antoniogiorgio Ciarelli, Ferdinando “Furt” Ciarelli, il 25enne Ferdinando Ciarelli, Ferdinando Ciarelli detto “Macu”, Pasquale Ciarelli e Rosaria Di Silvio. Macu e Antoniogiorgio Ciarelli sono imputati anche nel processo che contesta l’omicidio mafioso di Massimiliano Moro.
Saranno, invece, giudicati dal Gup del Tribunale di Roma, col rito abbreviato, gli altri coinvolti nell’operazione: Roberto Ciarelli, Gianluca Di Silvio, Costantino Di Silvio detto Patatone, Francesco Iannarilli, Maria Grazia Di Silvio e Valentina Travali. Le richieste di condanna formulate dal Pm Luigia Spinelli dovrebbero arrivare il prossimo 8 giugno.
I dieci imputati del processo odierno sono difesi dagli avvocati Montini, Carradori, Vittori, Vasaturo, Farau, Nardecchia, Coronella, Palmiero e Diddi.
Oggi, 23 maggio, a sostenere l’accusa era presene il Pubblico Ministero della Procura/Direzione Distrettuale Antimafia Luigia Spinelli che ha iniziato interrogando l’avvocato e imprenditore estorto dal clan Ciarelli nel carcere di Latina e un tempo molto vicinino all’ex deputato di Fratelli d’Italia ed ex Presidente del Latina Calcio, Pasquale Maietta (con lui imputato nei processi per riciclaggio “Arpalo” e “Arpalo 2”). Una testimonianza che è seguita a quella andata in scena la scorsa udienza, a marzo, da parte di un altro avvocato finito sotto le grinfie di uno degli imputati che ha scelto il rito abbreviato, Roberto Ciarelli (leggi al link di seguito l’approfondimento di Latina Tu).
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Oggi, l’avvocato ha ricordato alla Corte d’Assise di essere stato arrestato, nell’ambito del procedimento penale Arpalo, nel 2018: fu recluso nel carcere di Latina tra l’aprile e il settembre di quell’anno. Mesi duri, durissimi, per cui, sin da subito, trascorsi un paio di giorni, l’avvocato fu avvicinato da un certo Francesco. Il testimone non ricorda il nome, ma si tratta di Francesco Iannarilli, uno degli imputati che ha scelto il rito alternativo a Roma.
“Questo ragazzo – ha detto l’avvocato interrogato dal Pm Spinelli – lamentava il fatto che il fratello avrebbe dovuto avere un’opportunità nel Latina Calcio”. Una chance che gli fu negata, secondo Iannarilli. La rimostranza fu fatta all’indirizzo dell’avvocato, coinvolto in un caso giudiziario noto come “Arpalo”, e soprattutto famoso in città per essere dirigente del Latina Calcio, insieme alla madre e a Maietta. “Ma capii subito che non era una storia vera – precisa l’avvocato – Io ero dirigente del Latina Calcio, ma era solo un pretesto. Questo Francesco manifestò la sua inimicizia e mi disse che avrei subito conseguenze. Mi spaventai perché non ero abituato a certi ambienti. Voleva un risarcimento ma in senso lato, ossia mi faceva presagire una violenza fisica o comunque una sottomissione come, ad esempio, fargli la spesa in carcere. Mi fece capire che ero in sua balia“.
“Poi – prosegue l’avvocato – venni avvicinato da Roberto Ciarelli, ma non sapevo chi fosse, lo conobbi lì. Mi disse di essere un figlio di Ferdinando Ciarelli. Mi avvicinò all’ora d’aria e mi disse che per 2000 euro mi avrebbe garantito la tranquillità. Mi fece richiesta ma senza minacce e sapeva che ero stato avvicinato. Mi disse: “so che hai problemi qui dentro ma se mi dai i soldi farai una permanenza tranquilla”. Una specie di polizza sulla vita, con lui non sarebbero sorti problemi”.
Dunque, nella dinamica criminale, un classico: la vittima viene avvicinato dal “poliziotto cattivo” (Iannarilli) che minaccia, successivamente la medesima vittima trova un barlume di speranza nel “poliziotto buono” (Roberto Ciarelli) che gli promette protezione e pace. In realtà, secondo l’accusa, e anche in base alle sensazioni del testimone, sia “il poliziotto cattivo” che quello “buono” sono della stessa pasta, uniti per ottenere soldi.
“Roberto Ciarelli – ha detto l’avvocato – era in cella con Andrea Pradissitto (nda: ex affiliato al clan Ciarelli e ora collaboratore di giustizia) e Matteo Ciaravino. Con lui ci conoscemmo perché mi parlava di calcio e dopo poco abbiamo capito che era un amico d’infanzia di mio cognato, il compagno di mia sorella. Con lui nacque un rapporto di socialità in attesa di tornare a casa. Pradissitto lo conobbi lì e cercò di tirarmi su il morale parlandomi, i primi giorni per me furono i più duri”.
“Sapevo della nomea dei Ciarelli, sono nomi che circolano in città da anni. Sappiamo noi latinensi che sono soggetti con cui non interagire. Pradissitto mi disse che era stato coinvolto nella guerra criminale pontina. Erano chiacchiere da carcere, mi disse che era stato oggetto di un processo importante”.
Sulla richiesta dei 2mila euro, il testimone è netto e ammette quanto successo. “Dopo pochi giorni, si affacciò nella mia cella Roberto Ciarelli e mi disse di contattare un numero e di dare i soldi. Tenni all’oscuro della vicenda mia moglie e i bambini. Lo dissi a mio padre. Gli dissi di contattare il numero ed effettuare il pagamento che fu effettuato. Venni a sapere da Roberto Ciarelli che era andato tutto a buon fine e la mia permanenza fu effettivamente tranquilla in carcere“.
“Soggetti tipo me in quell’ambiente sono facili prede e io per questo, ragionando con quel poco di lucidità che mi rimaneva, accettai lo scambio. Dovevo riprendermi, ero provato. Temevo di correre qualche rischio”.
“Non ho denunciato l’episodio, anche perché se sei in carcere sai che un colletto bianco come me lo paga questo scotto. Dopo il pagamento stavo tranquillo, il pagamento avvenne entro massimo 15 giorni dalla richiesta che mi era stata fatta da Roberto Ciarelli”.
Eppure, sullo sbilanciarsi o meno riguardo alla circostanza se Ciarelli, Pradissitto e Ciaravino fossero legati tra di loro, il testimone è cauto. Il Pm Spinelli, infatti, punta a dimostrare l’associazione mafiosa. “Stavano insieme ma non posso definirli come un gruppo“. Tuttavia, a verbale, fa presente il Pm, l’avvocato dichiarò che Ciarelli, Pradissitto e Ciaravino erano un tutt’uno. Al che il testimone precisa: “Non erano tre alieni estranei all’ambiente”.
E su Pasquale Maietta? È vero che fu avvicinato perché il vero bersaglio era l’ex deputato di Fratelli d’Italia, un tempo stimato e molto vicino all’attuale premier Giorgia Meloni? L’avvocato non ricorda e non esclude che gli possano essere state fatte domande su Pasquale Maietta. Al che il Pm gli ricorda che, interrogato dalla Polizia, disse che Ciarelli, Pradissitto e Ciaravino gli chiesero delle disponibilità economiche di Maietta e se i soldi in Svizzera fossero un fatto vero oppure solo indiscrezioni giornalistiche.
“In carcere – ha riposto il testimone – tante persone mi chiedevano dell’inchiesta “Arpalo” perché aveva avuto tanto clamore mediatico. Non sono in grado però di interpretare perché mi chiedevano queste informazioni su Maietta e Arpalo”.
Ad ogni modo, la vita carceraria proseguì più o meno tranquilla. “Ciarelli mi chiese piccole cose legate alla spesa. Con Ciaravino c’era un rapporto e se mi chiedeva la pasta gliela davo. Roberto Ciarelli ci ha provato a chiedere altri soldi, ma io ero più sicuro e gli dissi che non avevo più niente e che magari lo avrei aiutato una volta fuori, eventualmente a pagare gli avvocati. Fu diverso però perché la prima volta avvertii un disagio, ma le alte volte no, finiva lì. Alle sue richieste dicevo di no”.
Rispetto all’estorsione da 2mila euro, l’avvocato dimostra di avere le idee chiare. “Non chiesi se quel Francesco che mia aveva avvicinato conoscesse Ciarelli: in carcere meno si parla e meglio è”. Anche se, interrogato dalla Polizia, aveva detto di avere avuto “il sospetto che tra chi mi aveva minacciato e Ciarelli ci fosse stato un accordo, ma non avevo elementi per dimostrarlo“.
E sulle mancate denunce? “Non volevo averci niente a che fare. Se fossi stato portato all’esasperazione avrei sporto denuncia. In seguito a quell’episodio, però, non ho più vista minata la mia serenità famigliare”.
I contatti con Roberto Ciarelli, tuttavia, non finirono in Via Aspromonte, sede del carcere di Latina. “Fuori dal carcere Roberto mi contattò e mi chiese di vederci. Non gli avevo dato il numero e capii che mi stava contattando lui, riconoscendolo dal profilo whatsapp. La prima volta lo incontrai al Pantanaccio e mi chiese soldi e io per cessare la vicenda gli diedi circa 200 euro”.
“Poi mi scrisse durante il lockdown, a marzo 2020, ma non ci incontrammo perché non violai le regole di restrizione che tutta Italia aveva”. Ciarelli cercava il testimone chiedendo soldi per pagare gli avvocati, considerando il monte di circostanze giudiziarie sue e della sua famiglia. “L’ultimo incontro avvenne a fine lockdown, maggio 2020. Mi chiese soldi per gli avvocati e io gli dissi se vuoi io conosco degli avvocati per i tuoi guai. Alla fine gli diedi una piccola somma da altri 150 euro”.
“Incontrai anche Pradissitto in una partita di calcio e ci salutammo. Qualche settimana, dopo a ottobre, Ciarelli mi chiese assistenza legale ma gli dissi che non esercitavo più”.
Ma i soldi dati in carcere che fine fecero? “So che i 2000 euro furono consegnati a una donna, credo la mamma di Pradissitto. Il cognome dei Ciarelli, sin da ragazzino, mi ricordava le stesse cose che ricordano tutti i latinensi: pretendevano un giro in motorino oppure gli pagavi da bere. angherie. Sono le famiglie rom che al pari di altri soggetti sono pericolosi”.
A verbale, gli ricorda il Pm, l’avvocato disse che “queste famiglie sono una piaga del territorio“. Al che, il testimone precisa: “Diciamo che non avrei utilizzato la parola “piaga”. E sul pagamento di 2mila euro, ribadisce il testimone di non aver parlato “con mia moglie per non incuterle timore. Pagai perché avevo timore di ritorsioni per me, mia moglie e i miei figli piccoli. A giugno 2021, dopo che i pentiti avevano detto della mia estorsione, parlai quando fui chiamato, non potevo più oppormi”.
Finito l’interrogatorio, condito anche dal contro-esame del collegio difensivo, è stata la volta della moglie dell’avvocato la quale ha confermato di essere sempre stata all’oscuro dei ricatti subiti in carcere dal marito e del pagamento dei soldi in cambio della protezione. “Mi parlò di Roberto Ciarelli, mi aveva detto che mi gli aveva insegnato qualche colpo di boxe, ma non mi ha mai parlato delle richieste di denaro che aveva ricevuto. Io glielo chiedevo ogni tanto, ma lui mi diceva: “ma che sei matta?. Mio marito non amava toccare l’argomento del carcere anche se mi disse che Roberto Ciarelli contava molto dentro il carcere“.
Alla fine di una udienza durata circa tre ore, sono stati ascoltati quattro poliziotti della Squadra Mobile di Latina, ossia coloro che hanno effettivamente lavorato all’indagine. A loro sono stati chieste precise annotazioni su determinati fatti entrati nel processo come capi d’imputazione: dall’estorsione della casa dell’avvocato in Via Milazzo, all’aggressione di un rampollo del clan nei confronti dei titolari dello stabilimento balenare “Rive di Traiano” a Terracina, fino a una accesa discussione di fronte a un locale in zona pub a Latina, il cui titolare finì nella morsa di Roberto Ciarelli.
Il processo è stato infine aggiornato al prossimo 27 giugno, data in cui si proseguirà con la testimonianza di altri poliziotti e quattro persone vittime del clan, tra cui uno di loro che fu estorto dal boss Carmine Ciarelli detto “Porchettone” tramite il profilo Facebook “Purosangue”, che dà il nome all’indagine intera. Questo testimone avrebbe dovuto essere interrogato oggi ma non si è presentato. Sarà multato e accompagnato coattivamente dalla Squadra Mobile di Latina, così come deciso dalla Corte d’Assise.