OMICIDIO MORO. PRADISSITTO INCHIODA GRENGA: “SALÌ IN CASA E GLI SPARÒ IN TESTA”

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Massimiliano Moro (foto da latina24)

Omicidio Moro: testimonianza chiave nel corso per il processo, a parlare il collaboratore di giustizia Andrea Pradissitto

Si è svolta oggi, 17 aprile, a Latina, davanti alla Corte d’Assise presieduta dal Giudice Gian Luca Soana, una nuova udienza del processo in cui sono imputati, per l’omicidio di Massimiliano Moro con l’aggravante mafiosaFerdinando Ciarelli detto “Macù” (figlio del capo-famiglia Carmine detto Porchettone), Antoniogiorgio Ciarelli (fratello di Porchettone), Simone Grenga (legato al clan del Pantanaccio per aver sposato la figlia del numero tre del sodalizio, Luigi Ciarelli) e Ferdinando Di Silvio detto Pupetto, già condannato con sentenza passata in giudicato per reati aggravati dal 416 bis (processo Alba Pontina) e figlio del capo-famiglia Armando Di Silvio detto “Lallà”.

In programma c’era l’esame da parte dei Pubblico Ministeri della Procura/DDA di Roma, Luigia Spinelli e Francesco Gualtieri, dei due collaboratori di giustizia, Agostino Riccardo, e, soprattutto, Andrea Pradissitto, ex affiliato al clan Ciarelli in quanto marito di Valentina Ciarelli, figlia del numero due del sodalizio, Ferdinando “Furt” Ciarelli.

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Andrea Pradissitto

Pradissitto, sin da stamani e fino al tardo pomeriggio, ha ripercorso la sua storia criminale, l’affiliazione con i Ciarelli e le fasi che portarono all’omicidio di Moro. L’esame e il controesame dell’ex affiliato al clan rom più potente di Latina, dal punto di vista economico e dei contatti criminali, si sono protratti così che il Presidente della Corte d’Assise Gian Luca Soana ha rinviato alla prossima udienza l’escussione della collaboratore Agostino Riccardo.

Il collegio difensivo è composto dagli avvocati Emilio Siviero, Marco Nardecchia, Alessandro Farau e dal collega, nonché Promotore di giustizia in Vaticano (il corrispettivo del Procuratore Capo oltre Tevere), Alessandro Diddi.

Era la prima volta che Pradissitto veniva sentito in un’aula di Tribunale nel quadro di un processo che contesta l’omicidio mafioso che, a distanza di anni, è finalmente giudicato dalla magistratura. Pradissitto, 33 anni, è il genero di Ferdinando “Furt” Ciarelli, definito dall’ex affiliato come il vero capo del clan Ciarelli a Latina. “Carmine Ciarelli – ha detto Pradissitto – è il numero uno per il pubblico, ma a comandare è sempre stato mio suocero“.

Condannato per questo delitto col rito abbreviato a 9 anni, è uscito fuori che Pradissitto, negli anni della sua affiliazione, riceveva una sorta di vitalizio dall’avvocato Stefano Trotta, coinvolto in inchieste per truffe con le assicurazioni. Il legale, secondo quanto riferito da Pradissitto stesso, lo avrebbe pagato circa 2mila euro al mese perché, al tempo in cui si trovavano in carcere, fu lasciato in pace da Armando “Lallà” Di Silvio per intercessione dello stesso Pradissitto (all’epoca dei fatti legato per parentela al boss di Campo Boario).

Collaboratore di giustizia lo è diventato “per la mia famiglia e perché non appartengo più a questo mondo, l’ho fatto per loro, per mia moglie e mio figlio, anche se all’inizio non avevo avuto il coraggio”.

Poi a febbraio 2021, quando la Squadra Mobile di Latina e la DDA di Roma lo arrestarono con la prima ordinanza in carcere per l’omicidio di Massimiliano Moro, Pradissitto decise che era finito il suo tempo con la malavita dei Ciarelli. Tramite il suo patrigno, ex poliziotto, prese contatti con la Questura di Latina e con il capo della Squadra Mobile di allora, Giuseppe Pontecorvo, manifestando la sua volontà di collaborare con lo Stato. Ne seguì, come primo step, l’interrogatorio con i Pm della DDA, Luigia Spinelli e Corrado Fasanelli. Il resto è storia con la seconda ordinanza di luglio 2021 da cui è scaturito il processo incardinato presso il Tribunale di Latina.

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La testimonianza di Pradissitto assume oggi, in relazione all’omicidio Moro, una valenza in più. Se anche l’altro collaboratore di giustizia Renato Pugliese, già sentito in questo processo, ha spiegato che da quanto gli risulta fu Simone Grenga a premere il grilletto e spedire all’altro mondo Moro, la conferma di Pradissitto acquisisce un valore probabilmente decisivo. Pradissitto, infatti, faceva parte del commando che la sera del 25 gennaio 2010 si recò in Largo Cavalli per far fuori “Massimo”.

Ferdinando Ciarelli detto “Furt”

Prima di arrivare al momento clou della sua testimonianza, Pradissitto ha tratteggiato la sua vita nel crimine pontino, sollecitato dalle domande del Pm Spinelli. “Sono sposato con Valentina Ciarelli, figlia di Furt. A 15 anni divento amico di Renato Pugliese, la cui madre viveva vicino ai miei, a Borgo Sabotino. Quando Renato fu arrestato per l’omicidio (nda: quello commesso al locale Makkeroni di Latina, per cui poi fu assolto), entrai a contatto con Giuseppe Pasquale Di Silvio, figlio di Armando detto “Lallà”, e da lì iniziai con le estorsioni e lo spaccio di droga, tutte quelle cose che si fanno quando sei minorenne“.

“Poi conobbi Moro e iniziai a fare altri lavori per lui. Nel 2008 ci arrestarono per l’estorsione al negozio di bici Dalla Libera, insieme a me anche Pugliese e Peruzzi. Stetti in carcere fino a luglio 2009. Alla fine diventai amico della famiglia Di Silvio con Giuseppe Pasquale, e pure se di meno, anche con Pupetto e Samuele. Nel novembre 2009, conobbi Valentina Ciarelli e lì parlai con Pasquale Di Silvio che mi disse cosa dovevo fare”.

Nel mondo rom, infatti, esiste una prassi per il fidanzamento e così Pradissitto, istruito dall’amico, a settembre 2009 fece la fuitina con Valentina Ciarelli.

“Conoscevo già la famiglia Ciarelli poiché con Carmine (nda: detto Porchettone) si frequentava anche Massimiliano Moro, si vedevano al bar Di Russo. Con la fuitina, dopo un mese che eravamo nascosti in albergo, Furt, che divenne poi mio suocero, contattò mia moglie e ci invitò a cena. Significava che avevano accettato la nostra relazione. Facemmo un pranzo e quel giorno c’erano sia Ciarelli che i Di Silvio, perché la moglie di Furt è Rosaria Di Silvio, sorella di Armando “Lallà” Di Silvio. Fu Giuseppe Pasquale Di Silvio a fare da garante per me perché spiegò chi ero e mio suocero capì che ero una persona dell’ambiente, tanto da mettermi in mano parte del giro dei prestiti che aveva, dandomi anche 10mila euro“.

Di lì a breve “decisi di far parte del suo mondo e mi fece incontrare con Paolo Celani, padre di Valentina Travali, che era persona vicino a Furt e spacciava con la sua protezione. Cominciai l’attività con Celani nello spaccio, mio suocero mi diede la casa a Santa Maria Goretti, poi il giro di spaccio si è allargato e vendevo all’ingrosso”. Paolo Celani, in seguito, fu gambizzato nell’ambito della guerra criminale pontina (2010) e morì dopo poche settimane in ospedale.

Simone-Grenga
Simone Grenga

“Quando sono uscito dal carcere nel 2009 – spiega Pradissitto – incrociai Moro e avemmo una discussione perché mi aspettavo che pagasse gli avvocati, invece non fece niente. La mattina del 25 gennaio, alle 10,30, mia suocera ci avvertì che avevano sparato Carmine Ciarelli e andammo al Goretti dove era ricoverato dopo gli spari al bar Sicuranza nel quartiere Pantanaccio. All’ospedale c’erano sia i Di Silvio che i Ciarelli. C’erano Romoletto Di Silvio e il papà Antonio, Baffone, del clan del Gionchetto. C’era l’altra famiglia dei Di Silvio a Campo Boario, Armando, i figli Pupetto e Samuele e il fratello Ferdinando “Gianni” Di Silvio. C’erano tutti tranne Luigi Ciarelli che si trovava in comunità e Roberto che era stato estromesso dalla famiglia. C’era anche Ferdinando Ciarelli detto “Macu”, Antoniogiorgio Ciarelli, Simone Grenga, che aveva sposato la figlia di Luigi Ciarelli, Veronica. E poi c’era anche il padre dei fratelli, Antonio Ciarelli”.

Mentre Carmine Ciarelli lottava per rimanere in vita, sin da subito, nella tromba delle scale dell’ospedale, Ferdinando Ciarelli detto “Furt”, Andrea Pradissitto, Ferdinando detto “Macu” (figlio di Carmine), Pupetto Di Silvio e Simone Grenga si riunirono per capire chi aveva sparato a “Porchettone”, dentro la roccaforte dei Ciarelli. C’erano due linee: da un lato Furt che credeva fossero stati Casalesi, dall’altro Macu che era convinto che l’attentato fosse stato concepito da ambienti latinensi (leggi di seguito l’apporofondimento di Latina Tu).

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Il primo conciliabolo non arrivò a nessuna decisione. Poi, all’ora di pranzo, arrivò in ospedale Massimiliano Moro e, senza salutare nessuno, iniziò a parlare con il capostipite, ormai anziano, Antonio Ciarelli e il figlio di quest’ultimo, Antoniogiorgio Ciarelli.

“Moro si disse disponibile a trovare i responsabili degli spari a Carmine. Antonio Ciarelli lo abbracciò dicendogli di dargli una mano, era anziano e non capiva che non si doveva parlare con gli esterni. Disse a Moro “figlio mio dammi una mano a risolvere” e Moro acconsenti. Poi Moro andò via. Fu lì che Macu disse che, proprio perché era arrivato in quel modo e andato via senza salutare nessuno dall’ospedale, era Moro il mandante degli spari. La sua era sceneggiata, una farsa, anche perché Moro era un serpente”.

Appena va via Moro, dunque, Macu dice che era stato lui anche in ragione del fatto che i rapporti tra Carmine Ciarelli e Moro, nei mesi precedenti al 25 gennaio, si erano rovinati. “Moro aveva preso dei soldi e gioielli da una donna di nome Donatella (ascoltata nel processo come testimone, si tratta di Donatella Amistà) e Carmine voleva la sua parte. Mi dissero che aveva anche dato uno schiaffo a Moro. Riandiamo nella tromba delle scale e c’eravamo io, Grenga, Furt, Antiniogiorgio e Macu. Macu disse che il colpevole era Moro, soprattutto per quella farsa. Moro era un falso. Fu allora che Macu propose che si doveva eliminare Moro immediatamente, ma Furt ci chiese di limitarci a sapere chi era stato perché dovevamo essere sicuri. Furt ci diceva che serviva calma. Tutti dicevamo che se non rispondevamo subito sarebbe stata una debolezza e poteva crearsi una catena di omicidi, che poi sarebbe toccato agli altri fratelli di peso nel clan: lo stesso Furt e Luigi Ciarelli”.

“Furt, però, ci disse che noi dovevamo sapere con esattezza chi era il responsabile e portarlo a lui e ci avrebbe fatto vedere cosa era la malavita“.

La riunione finì con un nulla di fatto. Tuttavia la sera stessa, senza mettere al corrente “Furt” Ciarelli, “a orario di cena venne Gianni Di Silvio e gli chiesi di accompagnarmi in giro. Siamo usciti con la sua Bmw e al 24mila baci incrociamo Antoniogiorgio Ciarelli e Pupetto e mi dissero che a Piazza Moro mi aspettavano Macu e Simone Grenga. Andammo in una traversa di piazza Moro e Macu diceva che Moro andava eliminato e che Furt e Porchettone da giovani avrebbero fatto lo stesso. Chi si fosse reso disponibile sarebbe stato membro per sempre della famiglia: noi dovevamo riprenderci cosa era stato tolto alla famiglia Ciarelli. Macu disse che dopo aver ucciso Moro saremmo diventati i padroni di Latina e onnipotenti. Anche se eravamo già i padroni, se non vendicavamo l’affronto a Carmine passavamo da persone deboli”.

Da destra Ferdinando Ciarelli, Carmine Ciarelli e Pasquale Ciarelli
Da destra Ferdinando Ciarelli, Carmine Ciarelli e Pasquale Ciarelli

“Quella sera eravamo io, Macu, Grenga, Pupetto, Gianni Di Silvio e Antoniogiorgio”. Su Gianni Di Silvio, fratello di Armando Di Silvio detto “Lallà”, Pradissitto specifica che non c’entrava niente però con l’omicidio: “Era uno che si metteva paura e non era fatto per queste cose”. Una tesi a cui i magistrati hanno sempre creduto, tanto che Gianni Di Silvio non è imputato pur avendo accompagnato il commando sino a Largo Cavalli.

La cosa andava fatta anche se non era volontà di mio suocero. In quel momento noi rappresentavamo i nostri territori e le nostre famiglie: c’era la famiglia di Carmine con Macu, poi c’erano i Di Silvio di Campo Boario con Pupetto e poi c’ero io per mio suocero, che era il più temuto di tutti. Il clan Di Silvio del Gionchetto (nda: il clan capeggiato da Romolo Di Silvio) non veniva calcolato all’epoca. Ciarelli era l’Élite dell’etnia gitana a Latina”.

Su Moro, Pradissitto specifica che il suo peso criminale era piuttosto noto a Latina: “Aveva partecipato alla guerra agli inizi degli anni 90, uccise Raffaele Micillo insieme a Lello Gallo. Nel 2007 ho tastato la sua persona: quando tornò dalla latitanza in Venezuela sparò ad Agostino Riccardo per un torto fatto al nipote”.

Fu per uccidere Moro che i Ciarelli e i Di Silvio, i quali fino ad allora facevano finta di essere amici ma non si sopportavano, strinsero l’alleanza.

Il 25 gennaio 2010, prima fu fatta una telefonata alla casa di Moro per vedere se si trovasse a casa, poi partì il commando da Piazza Moro fino a Largo Cavalli. “Andavamo a passo d’uomo“. Come fosse un macabro corteo, Pradissitto racconta che, giunti in Q5, l’azione omicida durò poco. Due auto e uno scooter: in una vettura Pradissitto e Gianni Di Silvio, in un’altra vettura Antoniogiorgio Ciarelli e Pupetto Di Slvio, sullo scooterone Simone Grenga e Ferdinando Ciarelli detto “Macu”.

Poco prima, in piazza Moro, spiega Pradissitto “vidi il calcio della pistola su Grenga che si era alzato il giubbotto. Macu e Grenga andarano al Pantanaccio a prendere la pistola, se lo dissero in sinti che io all’epoca non parlavo. Poi andammo verso casa di Moro”.

Quando arrivarono in Largo Cavalli, da due direzioni opposte, Pradissitto ricorda di aver visto uscire dal portone di casa di Moro sia Grenga che Macu Ciarelli. Solo Grenga si avvicinò al suo finestrino dell’auto e gli disse: “Tutto a posto e se ne andò. Poi ho visto che si allontanava e tutti ripartimmo via“.

Dopo il delitto “Gianni mi accompagnò a casa di mio suocero. L’altra macchina con Antoniogiorgio era lì. Arrivarono prima. Poi dentro casa, in Via dei Sabini, mio suocero mi disse se era vero quello che avevamo fatto. Io dissi di sì e dissi che andava fatto perché poteva toccare a lui. Furt ci disse che questa cosa l’avremmo pagata perché lo Stato ci sarebbe venuto addosso. Il giorno dopo andai all’ospedale da Carmine e nell’ospedale parlai con Simone e mi disse che la porta di Moro era aperta e quindi erano entrati subito per ammazzarlo. Mi disse anche aveva fatto una stupidaggine perché aveva il telefono con sé. È stato Simone a sparare, dopo neanche un minuto di chiacchiera. Grenga, dopo aver visto l’opportunità, gli sparò in testa. Salirono, entrarono, qualche chiacchiera, il tempo di avere l’opportunità di tirare fuori l’arma e spararono. Non ne parlammo più, per sempre”.

Luigi Ciarelli
Luigi Ciarelli in un’immagine di qualche anno fa

Dopo quell’omicidio, come noto, il 26 gennaio 2010, venne quello di Fabio Buonamano detto Bistecca. Da lì nacque l’alleanza Ciarelli-Di Silvio e la pianificazione della strategia stragista (avvenuti in due riunioni a casa di “Lallà” a febbraio 2010) che avrebbe dovuto far fuori tutti i personaggi della malavita considerati scomodi: da Carlo Maricca, considerato dai rom mandante dell’omicidio di Ferdinando Di Silvio detto Il Bello, a Fabrizio Marchetto considerato il più temuto in quanto impunito dopo aver gambizzato il cognato de “Il Bello”. “Sancimmo l’alleanza e furono pianificati i vari colpi di persone da uccidere e in parte responsabili di aver collaborato con Moro. Furono fatti i nomi di persone da eliminare perché scomode. Da eliminare Carlo Maricca, Mario Nardome, Maurizio Santucci, i fratelli Alessandro e Pietro Mazzucco e Fabrizio Marchetto il più pericoloso perché si era creato un’aria di intoccabilità perché aveva sparato al cognato de Il Bello e poi, dopo che fu fatto fuori Il Bello (nda: Marchetto era però in carcere), nessuno aveva pagato”.

I Ciarelli avrebbero dovuto far fuori Marchetto, i Di Silvio di Campo Boario i Mazzucco, i Di Silvio del Gionchetto Santucci, Nardone e Maricca. Per Marchetto, agirono Pradissitto e Grenga ma, dopo un tentativo andato a vuoto, furono arrestati dalla Polizia prima di sparare. Alla fine la linea stragista si risolse con una serie di gambizzazioni, ma nessuno degli obiettivi fu ucciso. Una mancanza che anche oggi fa storcere il naso a Pradissitto: da lì, secondo lui, l’alleanza rom si sfaldò e divennero ancora più tesi i rapporti. Senza contare che, ad oggi, il collaboratore di giustizia addossa la responsabilità al suocero Ferdinando “Furt” Ciarelli per la scarsa gestione del post spari a Carmine Ciarelli.

E sul perché ha deciso di collaborare, alla fine del controesame dell’avvocato Siviero, Pradissitto ammette: “Ero deluso dal fatto che io dovevo farmi il carcere e la famiglia Ciarelli mi copriva. Ero a conoscenza che ci sarebbe stato il mio arresto, avendolo appreso da qualche articolo. Dopo l’arresto di febbraio, decisi di collaborare con lo Stato“.

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