Omicidio mafioso di Massimiliano Moro e i racconti del collaboratore di giustizia Andrea Pradissitto: i desideri stragisti dei gruppi rom
Il contesto è quello ormai acclarato dai processi Caronte, Andromeda, dalle dichiarazioni dei collaboratori Renato Pugliese e Agostino Riccardo, dai riscontri sulle celle telefoniche che ripercorrono il tragitto omicida dei killer che dovevano far fuori Massimo Moro, l’uomo dei due mondi, colui che per fuggire dai sospetti per l’uccisione di Raffaele Micillo scappò prima in Romania e poi in Venezuela (leggi link di approfondimento di seguito) cambiando persino nome anagrafico.
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Al suo ritorno – siamo ai primi del secolo – Moro iniziò a riaffermare il suo profilo criminale, costituì una batteria di giovani in erba tra cui Angelo Travali, Renato Pugliese, Francesco Viola ecc. più i futuri “nemici” Andrea Pradissitto e Simone Grenga. Estorsioni e recupero crediti, gambizzazioni e spedizioni punitive: Moro era sempre lui, forse più di prima, e non temeva nessuno perché – dice chi lo ha conosciuto bene come Pugliese, il figlio di “Cha Cha” Di Silvio – “lui diceva che tutti avevano paura di lui, ma lui non aveva paura di nessuno“. Questa sua convinzione gli è costata la morte e, ora, a confermarlo anche il collaboratore di giustizia, da aprile 2021, Andrea Pradissitto, sposo di Valentina Ciarelli e genero del boss del Clan di Pantanaccio Ferdinando “Furt” Di Silvio il quale, a dispetto delle fughe di notizie, non risulta essere un collaboratore di giustizia. Forse ci ha pensato, forse lo farà, ma per ora no.
E da cornice all’omicidio mafioso di Massimiliano Moro c’è la guerra criminale pontina, anzi l’ammazzamento di Via Largo Cesti è il secondo rilevante episodio dopo il tentato omicidio di Carmine Ciarelli e poco prima dell’uccisione di Fabio “Bistecca” Buonamano. Tutto tra il 25 gennaio e il 26 gennaio del 2010; solo i casi più efferati di una lunga scia di gambizzazioni e tentati omicidi che insanguinarono Latina undici anni fa.
L’OFFENSIVA STRAGISTA DEI CLAN CIARELLI E DI SILVIO – È dopo l’omicidio di “Bistecca”, considerato intraneo al gruppo non rom di Moro e Nardone, e persino indagato dal sostituto procuratore Marco Giancristofaro per l’omicidio di Ferdinando Di Silvio detto “Il Bello”, che i gruppi rom si uniscono e vogliono, per una volta per tutte, prendersi Latina e le fette di mercato illegali: estorsioni, spaccio, recupero crediti, rapporti con politica e società civile. Peraltro, è lo stesso Giancristofaro ad aver aperto la prima indagine per l’omicidio Moro che fu sì archiviata nel 2015 ma che ritorna prepotentemente oggi con l’arresto del quarto fratello dei Ciarelli, Antoniogiorgio. Quell’inchiesta è servita agli investigatori di oggi per arrivare a dirimere il rebus dell’omicidio Moro.
Eppure, al di là dell’uccisione del boss che voleva far fuori i Ciarelli, è il nuovo collaboratore di giustizia Pradissitto a rendere ancor di più evidente che a Latina c’erano e ci sono sodalizi che si fronteggiano. Una mappa del crimine che serve a comprendere la portata degli eventi passati così da leggere il presente e, chissà, anche il futuro nella stagione sempre in evoluzione della lotta alla mafia rom. Che traballa infiacchita.
“In quella riunione (dopo l’omicidio di Fabio Buonamano) – ha dichiarato alla DDA Pradissitto – venne delineata una linea stragista, vuol dire che dovevano essere eliminiate tutte le persone che potevano impedire che noi tutti prendessimo il potere su Latina e provincia in modo incontrastato”.
Chi erano i rivali da eliminare per i clan rom? – “Il primo nome che fu fatto – ha proseguito Pradissitto spiegandolo agli inquirenti – fu quello di Fabrizio Marchetto, il secondo nome fu di Carlo Maricca, il terzo nome fu quello di Mario Nardone, il cognato Maurizio Santucci e i due fratelli Antonio e Pietro Mazzucco. Queste ultime persone erano meno di rilievo ma legate da vincoli di parentela con quelle più rilevanti che erano Fabrizio Marchetto, Carlo Maricca e Mario Nardone”.
“Ciascuno – ha continuato Pradissitto – si prese un obiettivo: Carmine Di Silvio, detto Sale o Porcellino, si incaricò dell’omicidio di Carlo Maricca, di Mario Nardone e del cognato Maurizio Santucci perché li ritenevano in qualche modo coinvolti nell’omicidio del fratello Ferdinando detto Il Bello. Io e la frangia dei Ciarelli prendemmo l’incarico di uccidere Fabrizio Marchetto, i Di Silvio di Campo Boario presero l’incarico di uccidere i fratelli Mazzucco. Riguardo a Fabrizio Marchetto né io né mio suocero (ndr: Ferdinando Ciarelli detto Furt) avevamo all’epoca disponibilità di armi, per cui andammo da Peppe Corvino a casa sua e mio suocero fece la richiesta di trovare più armi disponibili di ogni genere. Dopo un paio di giorni Peppe richiamò mio suocero e a casa sua Corvino mi consegnò quattro pistole, una 38 special argentata, una 7,65 bifilare argentata, una 9 per 21 Glock di colore nero, e una 9 per 19 Glocher, complete di munizionamento. La casa di Peppe Corvino era sulla Nettunense dietro la sua concessionaria. Io portai a casa mia le pistole e poi infatti la polizia me le trovò. Nei giorni successivi ci incontravamo sempre a Campo Boario sia con la famiglia del Gionchetto (ndr: facente capo a Giuseppe “Romolo” Di Silvio) che con quella di Campo Boario (ndr: controllata da Armando “Lallà” Di Silvio) e dissi che avevo disponibilità di armi. La famiglia del Gionchetto disse che loro avevano disponibilità di armi. Mio suocero disse che avremmo fatto terra bruciata a Latina. La casa di Armando Di Silvio era adatta agli incontri in quanto in quel periodo andavamo a trovare la nonna di mia moglie in ospedale e poi potevamo dire alle forze dell’ordine che ci ritrovavamo da Armando per tenere compagnia al nonno che abitava lì vicino”.
Lallà, infatti, è lo zio di Valentina Ciarelli, moglie di Andrea Pradissitto, poiché la sorella del primo, Rosaria Di Silvio, ha sposato il numero due di Pantanaccio, Ferdinando “Furt” Ciarelli. Simbolo della loro unione, la casa di Via dei Sabini in zona San Francesco al Piccarello, in seguito confiscata dallo Stato.
“A queste riunioni – continua Pradissitto – nel mese di febbraio 2010 erano presenti: Carmine Di Silvio, il genero di Giuseppe Di Silvio, cioè Fabio Di Stefano, noi della famiglia Ciarelli (io e mio suocero), Giuseppe Pasquale Di Silvio detto Pasqualino e Ferdinando Pupetto Di Silvio. Quando abbiamo saputo che era stato scarcerato Marchetto che era uno degli obiettivi principali, ho pensato che fosse il momento giusto di intervenire. Marchetto era un personaggio importante perché era il braccio armato di Maricca e della fazione a lui riconducibile (Nardone e Santucci).
Maricca, Marchetto, Nardone e Santucci erano molto legati e legati anche da rapporti di parentela (Nardone e Santucci erano cognati). Avevamo capito che se volevamo allargarci dal punto di vista criminale oltre il territorio nostro bisognava farli fuori. Io controllavo la zona di Santa Maria Goretti ma se avessimo eliminato Marchetto ci saremmo potuti allargare sul quartiere vicino di piazza Mentana dal quale ci divideva una strada. Controllare il quartiere significava controllare le attività criminali legate allo spaccio. In quel periodo il quartiere di Santa Maria Goretti era in mano e me e a Samuele Di Silvio (ndr: altro figlio di Lallà, condannato in due gradi di giudizio per associazione mafiosa nel processo “Alba Pontina”)”.
Zone di influenza, gruppi rivali, propositi di omicidi. Sono questi gli elementi che consentono alla DDA e al Tribunale di Roma di contestare l’aggravante mafiosa dell’omicidio Moro. Una vera e propria esecuzione come nella terra dei Casalesi o in un qualche mandamento siciliano. Questo è, al di là di sentenze e processi.