OMICIDIO MORO: “A SPARARE FU GRENGA”. IL RACCONTO DEL “PUPILLO”

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Renato Pugliese
Renato Pugliese, uno dei due collaboratori di giustizia nel processo Alba Pontina

Omicidio Moro: nuova udienza del processo che contesta ad appartenenti del clan Ciarelli e Di Silvio l’aggravante mafiosa

Si è svolta oggi, 19 dicembre, davanti alla Corte d’Assise presieduta dal Giudice Gian Luca Soana, una nuova udienza del processo in cui sono imputati, per l’omicidio di Massimiliano Moro con l’aggravante mafiosaFerdinando Ciarelli detto “Macù” (figlio del capo-famiglia Carmine detto Porchettone), Antoniogiorgio Ciarelli (fratello di Porchettone), Simone Grenga (legato al clan del Pantanaccio per aver sposato la figlia del numero tre del sodalizio, Luigi Ciarelli) e Ferdinando Di Silvio detto Pupetto, già condannato con sentenza passata in giudicato per reati aggravati dal 416 bis (processo Alba Pontina) e figlio del capo-famiglia Armando Di Silvio detto “Lallà”.

Ad essere ascoltati due testimoni: l’imprenditrice Donatella Amistà che subì un attentato a maggio 2008 presumibilmente commissionato da Massimilano Morro e il collaboratore di giustizia, ex affiliato ai clan rom, Renato Pugliese, che di Moro fu “pupillo” e componente della sua batteria. Il collegio difensivo, composto dagli avvocati Farau, Nardecchia, Siviero e Diddi ha contro-esaminato il collaboratore, dopo l’esame svolto dal Pm Luigia Spinelli, sebbene alla prossima udienza, fissata per il 7 febbraio 2023, ci sarà un supplemento: Pugliese verrà contro-esaminato dall’avvocato Diddi, che difende “Macù” Ciarelli, vista l’assenza odierna del legale scelto dall’imputato che ha revocato l’incarico all’avvocato Cardillo Cupo.

Massimiliano-Moro-foto-da-latina24
Massimiliano Moro (foto da latina24)

Le indagini che hanno portato a questo processo, che si sta svolgendo a dodici anni dall’omicidio avvenuto il 25 gennaio 2010 a Largo Cesti, nel quartiere Q5 di Latina, all’interno dell’appartamento dove Moro viveva contro la volontà del legittimo proprietario, sono state riaperte nel 2020 per le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia: Renato Pugliese, Agostino Riccardo e Andrea Pradissitto, legato al clan Ciarelli avendo spostato la figlia del numero 2 del clan Ciarelli, Ferdinando detto “Furt”.

Come noto, l’ipotesi degli inquirenti, da sempre, è che l’episodio dell’attentato contro Carmine Ciarelli, avvenuto la mattina dello stesso giorno in cui fu ucciso Moro, scatenò la mattanza della guerra criminale pontina tra clan rom – Di Silvio e Ciarelli uniti per l’occasione – e malavita latinense guidata dal medesimo Moro e Mario Nardone. 24 ore dopo, il 26 gennaio 2010, fu ucciso anche Fabio “Bistecca” Buonamano per mano di Giuseppe “Romolo” Di Silvio e Costantino Di Silvio detto “Patatone” (entrambi condannati per quell’omicidio). Successivamente, nel corso del 2010, una lunga scia di regolamenti di conti, estorsioni e richiesta di pizzo a tutta una serie di pregiudicati non rom e gambizzazioni nell’ambito di una strategia stragista che, tuttavia, non concretizzò tutti gli omicidi che i clan rom si erano messi in testa di compiere.

Una escalation ripercorsa in Aula da Pugliese sollecitato dalle domande del Pm Luigi Spinelli. Il figlio di Costantino “Cha Cha” Di Silvio, rispondendo ai quesiti, ha fornito anche l’ennesimo affresco di un clima di violenza, tra armi, pistolettate e clan, che a Latina si viveva fino al culmine di violenza della suddetta guerra criminale del 2010.

Prima di Pugliese, però, è stata accorata la testimonianza dell’imprenditrice Donatella Amistà, vittima a maggio del 2008 di un attento sotto casa, in via Pierluigi Nervi, in cui rimase ferita insieme a un uomo di origine albanese, Etmond Collaku. Quest’ultimo, che l’accompagnava a casa, considerato che la donna si sentiva minaccia e ne aveva parlato anche alla Polizia di Stato, fu gambizzato, mentre l’imprenditrice, impegnata nel settore della pulizia e del facchinaggio, con un passato anche come candidata alle Comunali con la lista Catani nel 2007, fu colpita con il calcio della pistola in testa: entrambi finirono a terra. “Porto ancora i segni in testa e devo fare i drenaggi”, ha detto l’imprenditrice.

La donna ha raccontato di aver visto un uomo con un cappello “bellissimo” che spuntava da chissà dove e che probabilmente l’aspettava sotto casa. Furono attimi, tanto che a ricordare la vicenda e il suo antefatto, la donna è scoppiata a piangere. Un momento sicuramente difficile vissuto dalla donna in Aula di fronte alla Corte d’assise e alla giuria popolare.

Carmine Ciarelli
Carmine Ciarelli, detto Porchettone o Titti. Dopo l’attentato che il reuccio del Pantanaccio (quartiere del capoluogo pontino) subì a gennaio del 2010, iniziò la faida tra bande criminali latinensi in cui persero la vita Massimiliano Moro e Fabio Buonamano

La donna – la cui figlia è Francesca De Santis, al momento sotto processo nel procedimento denominato “Reset”, in cui si contesta l’associazione mafiosa al clan Travali – ha spiegato che in quei mesi aveva prestato dei soldi a Massimiliano Moro il quale le aveva prospettato una sponsorizzazione per un calendario di moda a cui stava lavorando. Ovviamente, dopo che il calendario fu un flop totale, Moro – che conosceva sin dai tempi della giovinezza e considerava un uomo perbene – non gli restituì nulla di ciò che aveva ottenuto: più soldi in più tranche, una da 11mila euro, un’altra da 34mila euro.

La donna ha sostenuto di non essere mai stata innamorata di Moro, eppure si sentiva plagiata: l’ex criminale pontino aveva il potere di raggirarla, praticamente di soggiogarla ogni qual volta le parlava. Eppure, quelle continue chiamate di Moro erano diventate un incubo. La donna ha specificato che, anche se solo vedeva il suo numero di cellulare, entrava in ansia. Era finita in un vero e proprio raggiro, strozzata dalle continue richieste di denaro di Moro.

Truffata da Moro, la donna, sempre nello stesso periodo, le prestò un gommone che Moro diceva alle altre persone essere suo. Insomma, in tutto e per tutto, una prepotenza dietro l’altra, senza che la donna potesse reagire. Tanto più che anche l’azienda si trovò in grossa difficoltà: come ha ricordato la donna, l’impresa fu chiusa e per un periodo l’imprenditrice dovette andare via da Latina. “Ero stata plagiata, era convincente con le parole, non ero innamorata ma mentalmente riusciva a raggirarti. Feci una brutta estate avendo sottratto questi soldi all’azienda. Ero in un vortice tra assegni e soldi non restituiti, al massimo gli chiedevo conto del calendario che non è mai stato comprato da nessuno. Gli scrissi una lettera dicendo a lui che avrei stampato manifesti e li avrei affissi su tutta Latina”. Una minaccia che evidentemente fu l’antipasto alla reazione di Moro.

La mattina dell’aggressione, infatti, la donna inviò un messaggio a Moro appellandolo a “uomo di merda” e scrivendogli di avere “tutti i messaggi con cui mi definisci bacarozza”, e marcando una distanza: “io non sono una delinquente come te, per colpa tua mi sono rovinata, infame”. In serata l’incontro violento sotto casa per mano misteriosa, sebbene la stessa donna si aspettasse una reazione brutale e tutto porti ancora a credere che sia stato un attentato intimidatorio da parte di Moro. Un episodio su cui è tornato anche Pugliese nel suo interrogatorio celebratosi, come sempre, da una località protetta.

E proprio il figlio di “Cha Cha”, ormai lontano dal mondo della malavita pontina, ha chiarito alcuni punti dell’omicidio del gennaio 2010, confermando la tesi dell’accusa. “Moro – ha detto Renato Pugliese – lo conobbi nel 2005 con mio padre. Era tornato dal Venezuela per via della latitanza in seguito all’omicidio Micillo (nda: avvenuto nel,1994). Nel 2007, sono uscito dai domiciliari per via dell’omicidio Bruzzese di cui ero accusato, e Moro mi fermò in Piazza del Popolo dicendomi che gli era stata rubata una barca da un certo Alessandro e mi disse di andarci a parlare. La barca fu restituita e non aveva danni. Moro sapeva tutto di me e mi disse di salutare mio padre Cha Cha, all’epoca finito dentro con l’operazione “Lazial Fresco, e se mi fosse servita qualsiasi cosa di chiamarlo. Spesso lo incontravo al bar di Maietta al Piccarello e poi mi aiutò con un debito che avevo con Carmine Ciarelli (nda: detto Porchettone), che in realtà avevo con il figlio”.

Costantino "Cha Cha" Di Silvio
Costantino “Cha Cha” Di Silvio

Pugliese ha raccontato la sua amicizia con Moro, praticamente un affiliazione criminale. “Io e Moro eravamo legati nel 2008: aveva soldi e aveva a che fare con tante persone, spendeva 40, 50mila euro al mese. Facevamo serate, mi dava soldi, andavamo al Rosso Rubino, spendeva 1000, 2000 euro al giorno. Ero il pupillo di Moro pur essendo lui malfidato, evidentemente gli avevo ispirato fiducia. Quando Moro dava un appuntamento alle persone spesso non si faceva trovare e scrutava da lontano col binocolo per essere sicuro che all’appuntamento non c’era nessun altro”. Un modo che sembrerebbe bizzarro ma che, invece, denota di come Moro avesse paura di cadere vittima di un agguato, come poi fu il destino finale della sua vita.

Ero come un figlio per lui – ha proseguito Pugliese – Moro metteva parrucche, metteva pancieri, si trasformava in altro perché non voleva farsi riconoscere. Era criminale nell’animo e conosceva tutti nell’ambito della malavita, ma aveva rapporti anche con imprenditori importanti della città come Corica, Gatti, Barboni”.

Quando Pugliese si ritrovò ad avere un debito con Pasquale Ciarelli, figlio di Carmine Ciarelli detto “Porchettone”, le cose si misero male, ma fu Moro a intervenire. “Giocammo a carte con Pasquale e avevo perso 24mila euro. Il giorno dopo, al bar Sicuranza, il padre, Carmine Ciarelli, mi disse che dovevo dare i soldi. Feci un pagamento dilazionato ma questo a un certo punto non andò più bene”.

“I Ciarelli volevano i soldi. Carmine Ciarelli mi raggiunse al bar Di Russo (nda: nel centro di Latina, a due passi da Prefettura e Caserma dei Carabinieri), era con altre persone. Mi offese, mi diede uno schiaffo, dicendomi: “ti sborro in bocca, ti violento, mi spaventò minacciandomi con una pistola”. Fu allora che, in altro momento, intervenne Moro per sedare la lite: “Diedi i soldi e una mini per ripianare il debito”.

D’altra parte, come ha spiegato Pugliese, Carmine Ciarelli era temuto, faceva paura: lo chiamavano professore di diritto perché sapeva argomentare con le parole, ma la sua indole era quello dello spietato boss del più potente clan cittadino, i Ciarelli.

Al netto della vicenda, però, Pugliese ha raccontato un altro particolare che la dice lunga su quel clima di violenza e equilibri criminali della Latina di appena 14 anni fa. “Moro intervenne per farmi da garante ma, prima, mi disse: o paghi o se vuoi mettiamo le bombe al Pantanccio e li facciamo saltare uno a uno. Io gli dissi che non mi interessava e che volevo pagare”.

Moro già allora aveva l’interesse a prendere il posto dei Ciarelli nel ruolo di supremazia criminale a Latina, eppure anche lui incappò nella violenza dei Ciarelli. “Anche lui aveva un debito di oltre 100mila euro con Carmine – ha sostenuto Pugliese – Quello che voglio dire è che la guerra criminale del 2010 poteva succedere prima”. Dopo varie richieste per il debito, Moro fu schiaffeggiato da Carmine Ciarelli al bar Di Russo ed è proprio in seguito a quell’episodio cha avrebbe mandato Gianfranco Fiori per sparargli di fronte al bar Sicuranza la mattina del 25 gennaio 2010. Un attentato nei suoi luoghi a colui che si definiva il “reuccio del Pantanaccio”. Va detto che per quei fatti Fiori, ascoltato anche in questo processo, è stato assolto.

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COSÌ PUGLIESE SEPPE CHI AVEVA UCCISO MORO E PERCHÈ “Da novembre 2008 a giugno 2010 ero in carcere e fu Giuseppe Pasquale Di Silvio, il figlio di Armando Di Silvio detto “Lallà” a spiegarmi le cose. Vidi Moro l’ultima volta, nel luglio 2009, in una udienza di un processo con mio padre. Durante il carcere, Moro mi inviava vestiti e soldi, mi rassicurò. Ero a Cassino e fu in carcere che seppi tutto: rimasi male dell’omicidio di Moro”.

“Poi, quando stavo ai domiciliari, da giugno 2010, mio cugino Giuseppe Pasquale Di Silvio mi venne a trovare. Io avevo paura di essere ucciso visto che tutti a Latina sapevano che ero il pupillo di Moro, ma mio cugino mi rassicurò. Giuseppe Pasquale Di Silvio, con cui sono cresciuto, mi disse non preoccuparmi e che non mi sarebbe successo niente. Chiesi allora chi era stato e mi disse chi aveva ucciso Moro: mi fece i nomi e mi raccontò tutto. Moro fece la finta di dover trovare il responsabile dell’attentato a Carmine, andandolo a trovare in ospedale. Solo che Carmine Ciarelli era già riuscito a dire ai suoi famigliari che a sparare era stato Fiori, appellandolo come “il ciccione”. Moro simulava perché la sua intenzione era di uccidere Carmine Ciarelli e i fratelli Ferdinando Ciarelli detto Furt e Luigi Ciarelli”.

“Per Giuseppe Pasquale Di Silvio erano andati in sei da Moro: Grenga gli aveva sparato materialmente e con lui era salito nell’appartamento Macù Ciarelli, il figlio di Carmine. Poi c’erano Andrea Pradissitto, Antoniogiorgio Ciarelli, più “Furt” che aspettava sotto casa di Moro e un’altra persona di cui Giuseppe Pasquale Di Silvio non volle rivelarmi il nome. Non me lo disse mai”.

Simone-Grenga
Simone Grenga

Come noto, Grenga è genero di Luigi Ciarelli, mentre Pradissitto è genero di “Furt” Ciarelli: due ragazzi definiti normali da Pugliese che fecero il salto di qualità con i matrimoni, affiliandosi al clan del Pantanaccio. “Moro voleva prendere il posto di comando a Latina sterminando i Ciarelli che avevano il comando su tutto quanto. Per andare da Moro bisognava citofonare 3 volte. Giuseppe Pasquale Di Silvio mi disse che fu Pradissitto a suonare 3 volte. Di lui Moro si fidava perché stava con me, ma dopo il matrimonio era diventato un un affiliato dei Ciarelli. Sentivo il peso di questo perché glielo feci conoscere io. Entrano in appartamento e, con la scusa del caffè, Grenga sparò alle spalle di Moro colpendolo alla nuca. Moro cadde a terra tremante e allora Grenga gli sparò il secondo colpo. Macù gli diede tre calci per poi dirgli che non era degno di sparare a mio padre, mente Massimo fece a tempo a dire di non essere stato lui”.

Secondo il racconto di Pugliese, che comunque è un de relato di un de relato, in quanto è una versione raccontatagli dal cugino Giuseppe Pasquale Di Silvo (a cui a sua volta gli fu riferita), al momento dell’omicidio di Moro, Pradissitto era sulle scale. La sesta persona non riferita è probabile fosse “Pupetto” Di Silvio, imputato in questo processo e celato dal fratello Giuseppe Pasquale Di Silvio.

“C’era un’altra persona di cui Pasquale non mi disse mai niente. Grenga lo conoscevo, era un insospettabile e ha fatto un salto di qualità. Giuseppe Pasquale mi disse che non era la prima volta che sparava. Mi raccontò che doveva essere presente un figlio di Carmine e allora venne Macù. Pasquale Ciarelli non era idoneo perché aveva bucato altri appuntamenti in cui si sarebbe sparato”.

“La decisione di uccidere Moro fu presa da Furt. All’epoca, nel 2010, Giuseppe Pasquale Di Silvio mi raccontava tutto e partecipava alle riunioni in cui i Di Silvio e i Ciarelli, uniti, mettevano a punto gli attentati da fare. C’era molta gente che a Latina doveva morire”. Pugliese ha ricordato, sempre riportando ciò che gli diceva Giuseppe Pasquale Di Silvio, della riunione per uccidere Fabrizio Marchetto e altri. A marzo 2010, infatti, Marchetto, vicino agli ambienti della malavita non rom di Maricca, Nardone ecc., fu destinatario di un agguato per cui furono condannati Grenga e Pradissitto. I due acquisiti al clan rom dei Ciarelli sarebbero stati utilizzati dal sodalizio, anche perché si facevano avanti mentre uno dei figli di Carmine Ciarelli, Pasquale, inventava scuse: per uno degli attentati di quella stagione violenta, avrebbe detto all’ultimo di non poter venire perché doveva portare il latte al figlio. Un comportamento che fu stigmatizzato dallo zio, Ferdinando Ciarelli detto “Furt”, che aveva preso in mano le redini del clan dopo gli spari a Carmine Ciarelli: “Ti pare che devono essere i gaggi (nda: Grenge e Pradissitto) a dover fare giustizia”.

Tornando all’omicidio Moro, Pugliese ha spiegato che al ferimento di Carmine Ciarelli doveva seguire una risposta immediata. “A maggio 2011 e fino a dicembre 2013 fui di nuovo in carcere – ha detto Pugliese – scontai la mia pena al carcere di Viterbo e lì arrivò Grenga. Riuscimmo a vederci perché lui era lo spesino dell’altro braccio del carcere e ci incontrammo per salutarci. Grenga mi sorrise e ci abbracciammo. Gli feci: “Qui mi ammazzo e fuori mi ammazzi?”. Lui mi disse: “No a te non ti farei mai niente“.

“Grenga – ha specificato Pugliese – era un ragazzo normale e poi si è messo nella malavita, ma la cosa mi ha stupito che abbia ucciso“. Pugliese, in uno dei verbali resi alla DDA, raccontò di aver chiesto a Grenga se doveva aspettarsi qualcosa, ma quest’ultimo gli disse di no, di non aspettarsi niente. Secondo Pugliese, in quell’abbraccio nel carcere “Mammagialla” di Viterbo, Grenga aveva capito tutto: sapeva che Pugliese era a conoscenza di come era andato l’omicidio Moro e lo rassicurò che lui non sarebbe stato un obiettivo. “Grenga – ha spiegato Pugliese – per prendere autorevolezza si è esposto in prima linea, mentre come io lo conoscevo come un buono. Quando avevamo 11 anni, lui addirittura subiva anche prepotenze da altri ragazzi. Non mi sarei mai aspettato il suo salto di qualità, ma Moro e i Ciarelli plasmavano le persone, facevano credere loro che non gli sarebbe mai capitato niente se stavano con loro”.

Andrea-Pradissitto
Andrea Pradissitto

“Io parlai dell’omicidio di Moro con Agostino Riccardo, Angelo Travali, e Armando Di Silvio. Tutti sapevano dell’omicidio di Moro”. Per quanto sostenuto da Pugliese, ad Armando Di Silvio detto Lallà, boss di Campo Boario e condannato in primo grado a 24 anni per mafia, se il proposito di Moro di far fuori i Ciarelli fosse andato in porto non sarebbe stato un guaio. Tutt’altro. “Tra l’ala dei Di Silvio a Campo Boario e i Ciarelli non c’era buon sangue. A lui faceva comodo che fossero uccisi i Ciarelli, anche se la sorella (nda: Rosaria Di Silvio) aveva sposato “Furt”.

In quel momento, i Ciarelli erano all’apice e il nome dei Di Silvio, secondo il ragionamento di Pugliese, risalì in “carisma” criminale con con l’uccisione di Fabio “Bistecca” Buonamano.

Equilibri criminali che Moro tentò di mettere in discussione costituendo, negli anni, come ha ribadito Pugliese, una batteria di giovani. “C’eravamo io, Francesco Fanti, Pradissitto, Paolo Peruzzi. Moro fece mettere la bomba nella villa di De Bellis con l’aiuto di Federico Fanti. De Bellis era uno degli uomini d’oro, un criminale che vendeva droga, anche se veniva definito imprenditore. Fanti ebbe un incontro con Pasquale Ciarelli al Felix, e gli disse vattene che ti sparo. Moro gli aveva cambiato la testa, gli sistemò pure un debito con Ermanno D’Arienzo”.

“Moro era amico di Lello Gallo, che stava con Donatella Amistà a cui fece un’aggressione perché non voleva dargli i soldi. Celestino Usai, invece, era un conoscente di Moro e fu lui a commissionare la gambizzazione a un uomo di Aprilia (nda: Roberto Menegoni). Moro sparò al fratello del padre di Zof negli anni ’90, e fu spinto a farlo da mio padre Cha Cha. Lui godeva a raccontare quell’episodio e mi diceva che più spari e più ti piace. Nel 2006 sparò ad Agostino Riccardo mente lo festeggiavamo ai Gufi: fu gambizzato perché lui e Viola avevano picchiato il nipote di Moro che aveva un negozio di surf. Ma per Moro fu un pretesto: sparò a Riccardo per far vedere che era tornato”. Ad ogni modo, alla domanda su quale fosse la ragione per cui non si fosse rivolto al padre – Costantino Di Silvio detto “Cha Cha” – per rimediare ai problemi di debiti che aveva (anche con “Furt” Ciarelli per un ammontare di 18mila euro), Pugliese ha risposto senza tentennamenti: “Mi fidavo più di Moro che di mio padre: parlare con lui era difficile“.

Infine, nel 2011, “incontrai Carmine Ciarelli nel corso di un processo e mi disse che ce l’aveva con Angelo Travali e Francesco Viola perché secondo lui avevano fornito l’arma per ferirlo nel 2010 al bar Sicuranza. E ce l’aveva anche con Corrado Giuliani (nda: altro affiliato ai Travali): si doveva bere il loro sangue, fino all’ultima goccia, mi disse”. Tuttavia, il peso criminale di Carmine Ciarelli viene esplicitato nell’ultimo passaggio di una deposizione durata circa tre ore. “Io e Pradissitto picchiammo il compagno della figlia di Mario Nardone che successivamente ci minacciò dicendo che ci avrebbe spaccato le gambe. Io dissi questa cosa a Carmine Ciarelli che chiamò Nardone. Andammo da lui e si vedeva che Nardone, che non era l’ultimo degli arrivati nel crimine, aveva paura, tremava, se la fece sotto. Ciarelli gli disse che di lasciarci stare e Nardone si scusò”.

Ecco perché non poteva passare impunito l’affronto a Carmine Ciarelli di fronte al bar del suo quartiere. Recentemente arrestato con l’accusa di associazione mafiosa, “Porchettone” esce fuori come un personaggio spietato e di cui tutti avevano paura. Solo Moro non l’aveva, forte delle sue armi custodite in un garage sotto casa – tra pistole, fucili a pompa e a canne mozze – e probabilmente ritenendosi più scaltro di un uomo – Carmine Ciarelli – con cui i rapporti almeno apparentemente erano buoni, a tal punto di avere ricevuto in passato dei Rolex in prestito.

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