OMICIDIO MORO: AL PROCESSO ANCHE L’UOMO A CUI DIEDERO LA CACCIA I CLAN ROM

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Massimiliano Moro (foto da latina24)

Omicidio Moro: nuova udienza del processo che contesta ad appartenenti del clan Ciarelli e Di Silvio l’aggravante mafiosa

Si è svolta oggi, 4 ottobre, davanti alla Corte d’Assise presieduta dal Giudice Gian Luca Soana, una nuova udienza del processo in cui sono imputati, per omicidio con l’aggravante mafiosaFerdinando Ciarelli detto “Macù” (figlio del capo-famiglia Carmine detto Porchettone), Antoniogiorgio Ciarelli (fratello di Porchettone), Simone Grenga (legato al clan del Pantanaccio per aver sposato la figlia del numero tre del sodalizio, Luigi Ciarelli) e Ferdinando Di Silvio detto Pupetto, già condannato con sentenza passata in giudicato per reati aggravati dal 416 bis (processo Alba Pontina) e figlio del capo-famiglia Armando Di Silvio detto “Lallà”.

Ad essere ascoltati come testimoni, esaminati dal Pm Luigia Spinelli e contro-esaminati dal collegio difensivo composto dagli avvocati Siviero, Farau e Nardecchia, un Commissario della Questura di Latina che, all’epoca dell’omicidio, in servizio alla Squadra Mobile di Latina, svolse le indagini, senza contare il suo contributo quando le indagini furono riaperte dieci anni più tardi per le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia: Renato Pugliese, Agostino Riccardo e soprattutto Andrea Pradissitto, legato al clan Ciarelli avendo spostato la figlia del numero 2 del clan Ciarelli, Ferdinando detto “Furt”.

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A luglio, nella scorsa udienza, il medico legale che aveva svolto gli esami sul cadavere di Moro aveva ripercorso le fasi degli accertamenti scientifici effettuati. Contattata il 25 gennaio 2010, ossia il giorno in cui Moro fu freddato a Latina nel suo appartamento ubicato a Largo Cesti in Q5, il medico legale ha spiegato come, dagli esami compiuti, fu ucciso colui che, secondo l’accusa, è stato bersaglio dei Ciarelli/Di Silvio in quanto individuato come mandante del tentato omicidio di Carmine Ciarelli, detto Porchettone, attinto da sette colpi d’arma da fuoco davanti al bar Sicuranza, nel quartiere Pantanaccio, esattamente la mattina del giorno stesso dell’omicidio di Moro: per l’appunto, il 25 gennaio 2010.

Come noto, l’ipotesi degli inquirenti, da sempre, è che l’episodio dell’attentato contro Carmine Ciarelli scatenò la mattanza della guerra criminale pontina tra clan rom – Di Silvio e Ciarelli uniti per l’occasione – e malavita latinense guidata da Moro e Mario Nardone. 24 ore dopo, il 26 gennaio 2010, fu ucciso Fabio “Bistecca” Buonamano per mano di Giuseppe “Romolo” Di Silvio e Costantino Di Silvio detto “Patatone” (entrambi condannati per quell’omicidio). Successivamente, nel corso del 2010, una lunga scia di regolamenti di conti, estorsioni e richiesta di pizzo a tutta una serie di pregiudicati non rom e gambizzazioni nell’ambito di una strategia stragista che, tuttavia, non concretizzò tutti gli omicidi che i clan rom si erano messi in testa di compiere. Una escalation ripercorsa in Aula, per cenni, da parte dell’investigatore della Polizia, esaminato dal Pm Luigi Spinelli.

Il commissario di Polizia ha spiegato di come le prime indagini dopo l’omicidio non portarono a nessuna ordinanza di custodia cautelare. Come noto, infatti, ci sono voluti 12 anni dai fatti prima che sull’assassinio di Moro vi fosse un processo a Latina, quello che per l’appunto si sta celebrando davanti alla Corte e alla giuria popolare.

Nella deposizione del commissario, sono state raccontate tutte le fasi di quell’omicidio e le ipotesi che quella guerra avesse radici nell’uccisione, risalente a sette anni prima, di Ferdinando Di Silvio detto il Bello. Era luglio 2003 quando l’autobomba sul lungomare di Latina esplose. I clan rom ritennero sin da subito che il responsabile fosse Carlo Maricca e il suo gruppo: una tesi che è tornata anche nelle convinzioni della Direzione Distrettuale Antimafia la quale, nel 2021, si vide respingere dal Riesame l’impianto delle proprie accuse.

Il poliziotto, ad ogni modo, ha spiegato che Moro era noto alle forze di polizia e già anni addietro era stato indagato per diversi omicidi (ad esempio il caso Micillo), tentati omicidi (ai danni di Mario Zof), per la rapina alle Poste e negli uffici del Tribunale. Moro, a causa delle plurime indagini si era allontanato dall’Italia andando in Venezuela. Tornato, “Massimo”, come tutti lo chiamavano, fu indagato per aver compiuto le gambizzazioni di Agostino Riccardo nel 2006, del commerciante Roberto Rossi e di un altro personaggio di Aprilia. Per di più, fu interessato dalle indagini per aver lanciato una bomba a mano nella villa del trafficante di cocaina Maurizio De Bellis. Insomma, un quadro di un personaggio, Moro, assolutamente calzante con la malavita pontina.

Nel corso delle indagini – ha spiegato in aula il commissario di polizia – sono stati acquisiti i tabulati telefonici, successivamente utilizzati dalla polizia scientifica: tutte utenze intestate agli imputati oltreché a Pradissitto che, dopo aver deciso di collaborare con lo Stato, verrà processato separatamente per l’omicidio di Moro.

Gli investigatori localizzarono tutte le celle telefoniche degli odierni imputati, per poi chiedere alla Scientifica come si fossero mossi i telefoni cellulari e quindi le persone che li utilizzavano: si trattava di Simone Grenga, Andrea Pradissitto e Antoniogiorgio Ciarelli, tutti e tre indagati per l’omicidio già nel 2010. La minuziosa analisi d’indagine compì la rilevazione in base alla posizione delle celle e poi un ulteriore accertamento della copertura effettiva delle celle stesse. In aula, peraltro, è stato esibito un video con cui sono stati ricostruiti tutti i movimenti rispetto all’aggancio delle celle e quindi degli utilizzatori dei cellulari. Al tempo, la Polizia, pur avendo avuto la localizzazione della cella in prossimità del centro Morbella, a due passi dalla Q5 (dove c’era la casa di Moro), non prese in considerazione la posizione di Ferdinando Di Silvio detto Pupetto, oggi imputato e, insieme, a Ferdinando “Macù” Ciarelli, chiamato in causa dai collaboratori di giustizia.

Pupetto – ha spiegato il commissario – fu scartato come sospettato indagato perché all’epoca non era nota agli organi investigativi l’associazione tra i Ciarelli e Di Silvio, due famiglie che, prima del 2010, rimanevano distinte. Altro particolare interessante è che le utenze degli imputati non hanno mai agganciato la cella della zona dove abitava Massimiliano Moro prima del giorno dell’omicidio, o almeno nei giorni che andavano dal 7 al 24 gennaio 2010: segno, secondo gli inquirenti, che non erano frequentatori della casa di Moro e che vi si recarono solo per ucciderlo. Su Grenga e Pradissitto, inoltre, pesava ciò che successe dopo l’omicidio, ossia il 6 marzo 2010 (nel corso della guerra criminale pontina), quando attentarono alla vita di Fabrizio Marchetto, facente parte della batteria di Maricca: l’arma che ha ucciso Moro ha lo stesso calibro dell’attentato a Marchetto e fu sequestrata a Pradissitto.

Di spessore investigativo, e ricordate in aula, anche le conversazioni tra sodali dei clan rom in carcere dopo la scia di omicidi e gambizzazioni della guerra criminale pontina. Conversazioni in cui si rende evidente il legame tra i Ciarelli e i Di Silvio che ha permesso ai due clan di fare il salto di qualità criminale e diventare i padroni degli ambienti di malavita a Latina. Sono sempre altre conversazioni che inchioderebbero Pradissitto quando, dopo l’omicidio Moro per cui sapeva di essere indagato nel 2010, disse ai famigliari: “Faccio la fine di Pes“, riferendosi a Giuseppe Pes recentemente coinvolto nell’operazione dei Carabinieri denominata “I Pubblicani”, ma condannato definitivamente per l’omicidio di Saccucci avvenuto a fine anni novanta a Piazza Moro. “Non c’è la pistola sporca”, disse in carcere uno dei famigliari di Pradissitto al colloquio: ciò significa, secondo l’investigatore interrogato in aula, che esisteva un’arma che ha ammazzato Moro.

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Prima del commissario, nel corso di un’udienza durata dalla mattina fino al pomeriggio inoltrato, sono stati ascoltati anche i due famigliari – padre e figlia – che nel 2010 erano vicini di casa di Moro a Largo Cesti 32.

“Ero a casa col mio fidanzato e ho sentito uno sparo e un tonfo – ha spiegato in aula la donna interrogata dal Pm Spinelli -. La casa di Moro era confinante con la mia e una parete confinava con l’appartamento di Moro. Non ho sentito rumori di porte, guardavo la televisione e ho sentito uno sparo e un tonfo, intorno alle 9 di sera. Mi ricordo che era stato tolto il nome dal citofono e che Moro non riceveva persone se prima non citofonavano e non le riconosceva”.

“Trovavo spesso la porta aperta di casa come se stesse aspettando qualcuno”. Sebbene nel verbale avesse dichiarato di aver sentito due colpi, la donna ha raccontato che “dopo 8-10 minuti, da quando qualcuno era entrato in casa, ho sentito il colpo d’arma da fuoco e il tonfo sordo. Ho sentito poi la porta sbattere e sentito passi di persona scendere le scale. Ho telefonato alla Polizia e dissi che il mio vicino di casa era morto. Prima della polizia chiamai mio padre che si trovava a Borgo Sabotino, l’ho chiamato per dirgli che era successo qualcosa. Mio padre mi raggiunse dopo 20 minuti”.

L’immobile di Moro era di proprietà della sorella della testimone e la donna ha ricordato, così come suo padre ascoltato dopo di lei, che in quelle ore dell’avvenuto omicidio, quando era arrivata la Polizia, non poterono uscire dal loro appartamento confinante con quello dell’assassinato: “Alla fine ci aprirono i poliziotti. Avevo avuto paura, ansia e tensione, sapevo che era successo qualcosa“.

Successivamente, come detto, ha parlato il padre della donna che chiamò la polizia, peraltro noto calciatore degli anni settanta a Latina. L’uomo ha spiegato che, dopo aver comprato due appartamenti a Largo Cesti, consentì a un conoscente di poterci vivere fino all’arrivo della figlia all’epoca in Spagna. Poi, però, una mattina, si ritrovò come reale occupante dell’appartamento, non il conoscente, ma Massimiliano Moro. “Avevo acquistato due appartamenti, uno di fronte all’altro nel condominio di Largo Cesti: in uno ci abitavo io, nell’altro ci sarebbe dovuta andare mia figlia. Quando vidi Moro, sapendo dei suoi precedenti, gli chiesi che cosa ci stesse facendo. Avvertii la Questura che nel mio appartamento abitava Moro, pur io non avendoglielo mai dato“.

Moro non era idoneo, sapevo le frequentazioni e i movimenti. Mi dava fastidio la presenza di uno come lui, ma non mi ha mai creato problemi. Volevo stare tranquillo e ho avuto l’appartamento occupato per 2, o 3 anni da lui“. Il conoscente a cui aveva offerto per qualche mese l’appartamento non diede spiegazioni: “Mi arrabbiai con lui per la presenza di Moro, ma faceva spallucce. Ogni tanto la sorella di Moro mi dava l’affitto e mi chiedeva di avere pazienza. Ho fatto un esposto alla Questura ma Moro è rimasto lì, non ho ottenuto niente. Avevo paura per le mie figlie e infatti la ragazza si è trovata lì al momento dell’omicidio”.

“Ogni volta che Moro mi vedeva e io gli chiedevo quando sarebbe andato via, lui mi dava una pacca sulla spalla e mi diceva “Stai tranquillo professore”. Mi prometteva di pagare ma mi dava una pacca sulla spalla. Io sapevo che si era fatto dare gli arresti domiciliari a casa mia per qualcosa successo ad Aprilia”.

Il giorno dell’omicidio “ero a cena fuori e mia figlia mi chiama per dirmi degli spari. Io arrivai di corsa, vidi la tv accesa, rumori e andai a casa dell’altra mia figlia. Presi le chiavi, tornai e trovai la polizia. Ho visto casa mia dopo 7 mesi, era inaccessibile dopo l’omicidio. Moro mi prendeva in giro. 3,4 giorni prima dell’omicidio mi disse “Professo’, ti faccio contento perché vado a Roma“.

Da quel 2010, ricorda l’uomo, “c’è ancora una macchina parcheggiata”. Eppure il testimone non ricorda mai di aver visto movimenti sospetti o persone di etnia rom sotto casa. “Vedevo questo ragazzo che parcheggiava con la moto, era Viola (nda: Francesco Viola, noto pregiudicato)”. “Moro mi diceva che voleva fare il boss e che aveva ragazzi sotto di lui, si pavoneggiava. Moro diceva di far suonare al citofono e non al campanello di casa“.

Come terzo testimone di giornata è stata la volta del 35enne Gianfranco Fiori. Fiori non è uno qualunque: è stato imputato per il tentato omicidio di Carmine Ciarelli, commesso il 25 gennaio 2010 alle ore 7,30. Un processo che lo ha visto assolto con formula piena e che lo stesso testimone ha definito più volte, oggi, in aula, “un incubo”.

E proprio perché il suo processo ha riguardato un fatto connesso, ossia il tentato omicidio di Carmine Ciarelli, cioè la scintilla che fece appiccare il fuoco del doppio omicidio Moro e Buonamano, oltreché a tutti gli episodi criminali della guerra pontina tra clan nel 2010, il testimone, per decisione della Corte, è stato assistito dal proprio avvocato. Fiori, peraltro, fu individuato dai Ciarelli e dai Di Silvio come l’esecutore materiale del tentato omicidio di Porchettone tanto che l’allora 23enne fu oggetto di due tentati omicidi. Per quegli attentati contro Fiori, insieme ad altri reati inseriti nel processo Caronte, Carmine Ciarelli è stato condannato in via definitiva (leggi al link di seguito tutta la storia che ha riguardato i tentati omicidi di Fiori).

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“Moro – ha detto oggi in aula, Fiori – lo conoscevo perché era zio di Alessandro Rigliaco, mio compagno di scuola. Posso dire che mi frequentavo con Moro, anche se ero amico in realtà dei due nipoti. Non ricordo, però, se prima del 25 gennaio 2010 ero insieme a Moro”. Il Pm Luigia Spinelli, citando un verbale del marzo 2010, ricorda al testimone che fu lui stesso a dire che sabato 23 gennaio 2010 i due erano stati insieme.

“Moro faceva finta di fare l’imprenditore dei diamati e io andai a prendere due modelle: era un suo modo di rimorchiare, vendeva gioielli e fotografava modelle. Le portai in albergo e poi andammo in un capannone a fare le foto alle modelle”. Nel corso della deposizione, Fiori non ricorda molte delle sue dichiarazioni ma le conferma tutte.

“Regalò un i-phone a una modella. Poi andarono all’hotel Garden e poi andammo al ristorante Fenice e alla discoteca Felix che apparteneva a suo fratello”.

“Si presentava come imprenditore di gioielli con un’attività chiamata Diamanti e Diamanti. Il 25 gennaio non ricordo di aver visto Moro”. Eppure, a verbale, Fiori aveva dichiarato di aver visto Moro la stessa sera dell’omicidio nel negozio di prodotti per il surf gestito dal nipote. Fu lo stesso Moro ad aver detto a Fiori che, la mattina del 25 gennaio, dopo l’attentato al Pantanaccio, era andato a trovare Carmine Ciarelli all’ospedale e che il padre di quest’ultimo, Antonio Ciarelli, gli avrebbe detto: “Trova chi è stato, vendicami”. Ma Fiori non ricorda, pur ribadendo che tutto ciò che ha dichiarato quasi 13 anni fa è da confermare.

“Moro era sempre tranquillo. Le persone per salire a casa sua lo chiamavano perché non c’era il nome sul citofono. Spesso mi chiamava per la spesa o per la madre malata all’ospedale. Frequentava i bar Friuli o Di Russo. Moro mi diceva che era amico di infanzia con Romolo Di Silvio o con il fratello Carmine detto Porcellino. L’ho accompagnato, una volta, a casa di Patatone o di Romolo”.

Il testimone, quasi 13 anni fa, dichiaro che “Romolo” Di Silvio e Moro si telefonavano. Di più: i Di Silvio lo chiamavano su un numero di cellulare ad hoc e Moro capiva che doveva recarsi alle loro abitazioni.

Sulla frequentazione tra Moro e Carmine Ciarelli, Fiori non ricorda. “Non ho mai accompagnato Moro da un Ciarelli”, mentre, nel verbale del 2010, aveva dichiarato che Moro si incontrava anche con Carmine Ciarelli e aveva rapporti con tutta la malavita rom e non rom di Latina. “Lo rispettavano – dice oggi Fiori –però – rivolto al Pm – non mi chieda il motivo“.

“Che ricordi io non aveva la macchina e nel garage mi disse che la polizia aveva probabilmente messo le cimici. Moro non avrebbe mai fatto entrare a casa persone che non conosceva. Non ricordo la conoscenza tra Moro e Pradissitto. Ho appreso della morte di Moro dalla tv e andai dalla sorella (nda: deceduta, per cui oggi il Pm ha chiesto di depositare le sue sommarie informazioni del 2010), c’era il nipote e il fratello. Il 25 gennaio – ha concluso Fiori – lo incontrai al negozio di surf del nipote. Si frequentava con Raffaele Russo“.

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