I MISTERI IRRISOLTI DI ALBA PONTINA: MORO, IL BELLO E “MARCELLO”

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I funerali di Massimiliano Moro (foto da Leggo.it)
Anno 2010: i funerali di Massimiliano Moro (foto da Leggo.it)

Processo Alba Pontina: ci sono tre nomi che, durante le deposizioni dei pentiti Pugliese e Riccardo, tornano prepotentemente d’attualità. Misteri irrisolti

Tre le pieghe delle deposizioni andate in scena al Tribunale di Latina, nell’ambito del processo Alba Pontina che vede alla sbarra Armando “Lallà” Di Silvio e la sua famiglia, sono affiorati tre nomi su cui ruotano altrettanti misteri nell’economia criminale della vicenda trentennale dei clan zingari (e non) di Latina.

L'immagine tatuata di Ferdinando Il Bello
L’effige tatuata di Ferdinando Il Bello

Due di questi nomi fanno parte, ormai, dell’archeologia malavitosa pontina. Il riferimento è a Massimiliano Moro, ucciso il 25 gennaio 2010 senza che si arrivasse a celebrare un processo per stabilire chi lo avesse freddato, e Ferdinando “Il Bello” Di Silvio, padre di Costantino “Patatone” Di Silvio e Antonio “Sapurò” Di Silvio, nonché figlio di uno dei due capostipiti della famiglia nomade Antonio “Baffone” Di Silvio, fatto saltare in aria il 9 luglio 2003 a Capoportiere, Lido di Latina.
Il terzo “uomo del mistero”, in vita rispetto agli altri due deceduti, è Antonio Fusco detto Marcello, indagato nell’inchiesta Alba Pontina, ma per ora non rinviato a giudizio. Secondo la ricostruzioni degli investigatori di Latina, Marcello fornì un aiuto decisivo ai Di Silvio relativamente all’estorsione ai danni del ristoratore di Sermoneta Scalo che, poi, diede il là all’operazione più composita, conosciuta come Alba Pontina. Per tale estorsione furono condannati con l’aggravante mafiosa, nel gennaio 2019, due figli di Lallà, Samuele Di Silvio  a 8 anni e Ferdinando Pupetto a 9 anni; una pena che, successivamente, a novembre 2019, fu ridimensionata fino a 5 anni di reclusione per entrambi, senza l’aggravante mafiosa. Un aspetto, quest’ultimo, che potrebbe essere fatto valere dal collegio difensivo anche nel processo principale, ossia Alba Pontina.

Ma al di là di condanne e pene, i tre nomi di cui accennavamo – Moro, Il Bello e Fusco – rappresentano, seppur differentemente, spaccati da non sottovalutare.

Agostino Riccardo
Agostino Riccardo

MORO – Sia Riccardo che Pugliese ne hanno parlato, sia a verbale sia nell’Aula di Tribunale. Lo hanno descritto così come veniva ricordato: un personaggio temuto nell’ambito criminale, un capo, non un vero e proprio boss non avendo alle spalle tradizione criminale, ma sicuramente carismatico e deciso. Una decisione, la sua, che lo portò a non pensarci due volte e a gambizzare Agostino Riccardo, nell’agosto 2006, davanti al locale “I Gufi”, a Latina, poiché responsabile di un furto estorsivo di un computer nel negozio di suo nipote. Negli spari che coinvolsero Riccardo, furono colpiti persino due malcapitati, entrambi amici del pentito all’epoca, che si trovavano lì come migliaia di giovani che frequentavano il luogo più alla moda in quell’epoca latinense.

Di poche parole, Moro, almeno per quell’occasione: qualche ora prima aveva stretto la mano ad Agostino di fronte al pub “Le Streghe”, e successivamente, con casco e moto, gli scagliò addosso la sua rabbia di proiettili per lo sgarbo ricevuto dal nipote. Era stato in Venezuela per anni e dopo un po’ di tempo decise che ai Ciarelli e ai Di Silvio non si doveva portare più rispetto. Ecco perché, nel gennaio 2010, fu ucciso a casa, in Q5, dopo aver aperto la porta di casa, sicuro di farlo con un amico stretto. Tre suoni di citofono: così si doveva fare perché Moro rispondesse, e a saperlo, dei tre rintocchi, erano solo le persone più fidate. È plausibile, dunque, che nella sua storia ci sia qualcuno che lo ha venduto al nemico

Renato Pugliese
Renato Pugliese, uno dei due collaboratori di giustizia nel processo Alba Pontina

Sia Pugliese che Riccardo, durante gli interrogatori in Aula, lo hanno ricordato. Renato Pugliese, che faceva parte della batteria Moro fino alla sua uccisione, nella prima deposizione a novembre, ad un certo punto, mentre rispondeva alle domande del pm Luigia Spinelli, lo ha anche detto: “Se volete vi parlo di chi ha ucciso Moro“. Talché gli è stato risposto di no, proponendo immediatamente un’altra domanda. Ora, ciò non significa che ci sia interesse o poca trasparenza dei magistrati. Il fatto di non volersi soffermare può dipendere da tante cose – archiviazione del caso, indagine in corso (è un omicidio, il reato non si prescrive) – ma più semplicemente è probabile che sia una ragione tecnica: nel dibattimento qualsiasi pm ha bisogno di dimostrare gli stessi fatti descritti in istruttoria, ecco perché molte vicende, necessariamente marginali rispetto al fatto centrale (l’associazione mafiosa e i reati fine connessi al clan di Lallà Di Silvio), devono altrettanto necessariamente essere sorvolati dai magistrati.
È chiaro che un fatto così decisivo per la storia del crimine pontino, sopratutto per comprendere alcune connessioni e altre (e celate) ragioni all’origine della mattanza del 2010 (cosiddetta Guerra Criminale, da cui il processo Caronte), non passerebbe inosservato se a parlarne, anche brevemente, fosse un pentito del clan. L’ultima occasione è per Agostino Riccardo, nella seconda parte della sua deposizione che si terrà a fine marzo.

IL BELLO – Ragione tecnica, quella appena suggerita, che può valere anche per l’omicidio dinamitardo ai danni di Ferdinando Il Bello Di Silvio. Sia Pugliese che Riccardo lo hanno menzionato. Pugliese, peraltro, era anche legato affettivamente a Ferdinando Di Silvio, poiché parenti. Ed è lo stesso figlio di Cha Cha ad aver fatto trasparire tristezza per quell’episodio ma sopratutto paura. Ha dichiarato, infatti, che quella vicenda gli aveva sempre creato insicurezza, e per tale motivo si era spinto a chiedere perché mai non si fosse fatto nulla per vendicarne la morte. Nei verbali resi alla DDA nel 2017-18, Pugliese racconta che chiese al boss Armando Lallà Di Silvio sulla morte de Il Bello: “Domandai perché nessuno aveva fatto nulla nonostante l’uccisione di Ferdinando all’epoca. Armando e Ferdinando “Pupetto” mi hanno detto che nel 2010 (ndr: Renato Pugliese era in carcere durante la guerra criminale) cercarono il mandante per ucciderlo e lui si nascose“. 

Renato Pugliese e Agostino Riccardo, i collaboratori di giustizia derivanti dall’operazione coordinata dalla DDA di Roma “Alba Pontina”

Per quella morte, Pugliese ha ammesso di aver avuto sempre inquietudine, temendo di fare la stessa fine, poiché sapeva che in città, o nel territorio, c’era qualcuno che l’aveva fatta franca uccidendo un Di Silvio. La storia di Ferdinando Il Bello è stata oggetto di una ricostruzione di Latina Tu che ha messo insieme tante vicende ma sopratutto tante domande (leggi prima e seconda parte). Irrisolte.

FUSCO – Questa è la storia, tra le tre, che pur non presentando morti ammazzati preoccupa sicuramente di più perché ha a che fare con un personaggio che gli stessi inquirenti inquadrano così: “L’aiuto fornito al gruppo (ndr: ai Di Silvio nell’ambito dell’estorsione di Sermoneta Scalo) da Antonio Fusco detto Marcello, evidentemente in possesso di informazioni riservate, ha avuto carattere dirimente per sviare le investigazioni e ritardare l’accertamento del reato e l’esatta individuazione dei partecipi“.

Ferdinando Pupetto Di Silvio e Samuele Di silvio
Ferdinando Pupetto Di Silvio e Samuele Di Silvio

Nelle carte di Alba Pontina, Antonio Fusco (accusato di favoreggiamento) viene lumeggiato in maniera inequivocabile: aveva (ha?), secondo investigatori e collaboratori di giustizia, delle concrete aderenze nelle Forze dell’Ordine. Il signore in questione conosceva i due “pentiti” e i Di Silvio. E li conosceva talmente bene da averli messi in guardia, nel 2016, dalle attività della Polizia, di cui era venuto a sapere, che di lì a poco avrebbe voluto intervenire per arrestarli in flagranza dell’estorsione di Sermoneta Scalo (a cui parteciparono anche Pugliese e Riccardo, insieme ai due già condannati per l’episodio, Samuele e Pupetto Di Silvio).

Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Latina
Dal Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Latina sono partite alcune strane telefonate nell’ambito dell’inchiesta Alba Pontina che ha coinvolto appartenenti alla famiglia Di Silvio

Antonio Fusco, per salvarli, provava a contattare al telefono gli affiliati al clan di Campo Boario. E Il luogo da dove Fusco telefonava era un centralino di Palazzo M, al centro della città di Latina, che altro non è che il Comando Provinciale della Guardia di Finanza. Era il 20 settembre del 2016, e sull’utenza in uso a Gianluca Di Silvio (altro figlio di Lallà) pervenivano tre chiamate provenienti dal centralino; poco dopo Agostino Riccardo provava a contattare il numero del centralino, salvo poi capire, dopo un paio d’ore, che la persona che aveva chiamato dalla GdF era, per l’appunto, Antonio Fusco, detto Marcello. Riccardo chiama “Marcello” sul suo numero privato e gli chiede: “Tutto a posto Zi’ Marce’, ma io ho una chiamata dall’Argentina, eri te?”, ricevendo da “Marcello” Fusco tale risposta: “Chiamo anche dall’Argentina” – nel loro gergo l’Argentina è la Guardia di Finanza. “Marcello” lo avverte esplicitamente di non presentarsi all’appuntamento che lo stesso Riccardo, Pugliese, Pupetto e Samuele Di Silvio avevano per dare seguito ai propositi criminali in danno del ristoratore di Sermoneta. “Alle sei e mezza non anda’ da nessuna parte, dai retta a Marcello”.

Il “centralinista di Palazzo M” viene definito dai sinti come un uomo dalle copiose disponibilità economiche; al contempo Armando “Lallà” Di Silvio, parlando di lui con i figli, lo dipinge come uno che, anni prima, era un “disgraziato”, persino sottomesso alle estorsioni del “grande Carmine” (Carmine Ciarelli, così lo appella Lallà) a cui avrebbe dato svariate centinaia di milioni di lire. Un episodio confermato da Pugliese nella sua deposizione a novembre scorso.

Via Muzio Scevola, Campo Boario
In Via Muzio Scevola (nella foto), c’era il quartier generale dei balordi di Campo Boario. Qui, la famigghia e i sottopanza (gli affiliati) si vedevano per progettare estorsioni e traffico di droga. La stessa casa di Lallà nella via era adibita a centro di spaccio dove si recavano, giorno e notte, i consumatori.

Antonio “Marcello” Fusco dà prova non solo di conoscere le attività del clan di Campo Boario, per di più le tutela togliendoli di impaccio poiché, attraverso le sue entrature nella polizia giudiziaria, aveva saputo della retata delle forze dell’ordine. E lo avrebbe comunicato, se Gianluca Di Silvio avesse risposto subito, direttamente dal centralino della GdF. Cosa ci facesse Fusco al Comando Provinciale della Finanza non è dato sapere; per di più, telefonare da quel centralino denota un rapporto quantomeno di familiarità con la sede della GdF. Gli inquirenti non hanno approfondito, lasciando alcune questioni aperte. Come Fusco sapesse, invece, delle attività di indagine della Polizia di Stato, coordinate dalla DDA di Roma, resta un mistero. O forse no.

I quattro, Riccardo, Pugliese, Pupetto e Samuele Di Silvio, in seguito furono effettivamente arrestati per questa stessa estorsione del ristoratore di Sermoneta, anche se la soffiata avrebbe potuto compromettere l’operazione, dirimente a tal punto che da qui sono iniziati Alba Pontina e il pentimento di Renatino Pugliese. Nelle intercettazioni di Alba Pontina si capisce che lo spiffero di Fusco, riguardante le attività della Polizia, ha almeno un probabile responsabile (volontario o meno, non è chiaro).

Dalle carte di Alba Pontina, si scopre, infatti, che un poliziotto di servizio a Roma e in rapporti con l’imprenditore Davide Lemma, candidato sindaco per una formazione civica alle amministrative di Latina nel 2016, era desideroso di proteggere l’estorto gestore del ristorante di Sermoneta (il quale, a sua volta, aveva contattato anche un individuo che si auto-definiva “dei Casalesi” con i Di Silvio). Pugliese, dopo aver appreso della soffiata di Fusco, dice: “no perché ce sta, è la guardia (ndr: il poliziotto di servizio a Roma) che sta con Davide Lemma (ndr: candidato sindaco alle amministrative latinensi del 2016)…viene proprio lui…si è voluto mettere in mezzo per lui (ndr.: il ristoratore di Sermoneta) ha detto, voglio vede che…”. Non si comprende bene chi sia il poliziotto di servizio a Roma, citato da Pugliese, che si sarebbe “messo in mezzo per difendere l’estorto”, fatto sta che l’episodio rimane oscuro dal momento che nell’atto grave di un’estorsione si inseriscono diversi protagonisti estranei al contesto, ma coinvolti più o meno direttamente dalla vittima, che rischiano di far saltare un’operazione centrale per il proseguo dell’inchiesta Alba Pontina. Nel mese di settembre in cui le vicende dell’estorsione si dipanavano, Davide Lemma subì un’intimidazione e si ritrovò l’auto bruciata sotto casa; pochi mesi dopo, a gennaio del 2017, un’altra auto dell’imprenditore parcheggiata sotto l’abitazione fu colpita da due colpi di arma da fuoco. I fatti sono rimasti anonimi e impuniti, e il Lemma ha negato di avere qualsiasi problema con chicchessia.

Sergio Gangemi
Sergio Gangemi

Sia Riccardo che Pugliese non hanno parlato in grandi termini di Fusco. Per Pugliese: “Fusco stava spesso in Kenya per rilassarsi, è un imprenditore, possiede un benzinaio sulla Pontina, ha diversi capannoni…sta nel ramo nelle concessionarie“. Sopratutto, come ha sostenuto Pugliese, è vicino a Patrizio Forniti, il cognato di Nino Montenero, e Sergio Gangemi, il pezzo grosso legato alla ndrangheta. Due uomini, Forniti e Gangemi, con cui non si scherza in ragione del fatto che “si sa chi hanno dietro“. 
Ecco perché quando Fusco entra in gioco per dirimere un’estorsione che Pugliese e i Di Silvio stavano portando a termine ai danni di un commerciante di fiori di Nettuno, quest’ultimo pagò ma poi fu lasciato in pace proprio perché conosceva Zi Marcello. Se avessero continuato a dargli fastidio, “le cose si sarebbero messe male” perché con Fusco c’erano Forniti e Gangemi.

Riccardo, invece, parlando di lui in deposizione, in riferimento all’estorsione del ristoratore di Sermoneta Scalo (un ex dipendente del Latina Calcio, molto vicino a Davide Lemma), lo ha definito un “truffatore” dalle molte possibilità economiche. Senza ragioni a noi conosciute, i pm non hanno chiesto di lui, Antonio Fusco, all’imprenditore nel ramo floro-vivaistico quando questo è stato audito lo scorso 7 gennaio in Aula. Eppure, Pugliese, tra novembre e dicembre, si era riferito a lui, Marcello, per spiegare l’estorsione ai danni dell’imprenditore che vive a Nettuno ma ha l’impresa ad Aprilia.

Gianluca Di Silvio
Gianluca Di Silvio, uno dei figli di Armando detto Lallà e fratello di Pupetto e Samuele

Sta di fatto che ciò che rimane in effige di Antonio Fusco è quanto scrive di lui il Gip dell’ordinanza di custodia cautelare a carico degli indagati di “Alba Pontina” (giugno 2018): “Fusco Antonio, detto Marcello, è soggetto che, pur partecipando esclusivamente ad un solo episodio delittuoso (favoreggiamento), ha mostrato spiccate doti delinquenziali nel fornire a Riccardo Agostino e, indirettamente, ai suoi concorrenti, la notizia del programmato intervento da parte della Squadra Mobile di Latina in occasione dell’incontro che gli indagati avrebbero dovuto avere con la vittima Malfetta (ndr: ristoratore di Sermoneta, in rapporti con Lemma). L’uomo ha palesato aderenze nelle Forze dell’Ordine, che gli hanno consentito di contattare tramite il centralino della Guardia di Finanza del Comando Provinciale dì Latina Di Silvio Gianluca al fine di parlare con Riccardo Agostino. Fusco ha mostrato di conoscere bene anche Pugliese Renato, interessandosi anche con quest’ultimo al fine di preservare Riccardo da provvedimenti precautelari della Polizia Giudiziaria, evidenziando in tal modo rapporti confidenziali con entrambi ì pregiudicati. La rilevanza del contributo fornito dall’indagato, in uno all’intensità dello stesso al fine di preservare gli appartenenti al clan dal pericolo di essere arrestati, qualifica particolarmente la pericolosità del Fusco e il connesso pericolo di reiterazione di reati della stessa indole di quelli per cui si procede“.

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