SCARFACE, IL PUSHER CONTESO. PUGLIESE: “NON POTEVO OPPORMI A ROMOLO E ALLA SUA FAMIGLIA”

Processo Scarface, udienza veloce per il processo che vede alla sbarra diversi componenti del clan capeggiato da Giuseppe Di Silvio detto Romolo. A Latina, sono processati gli imputati che hanno scelto il rito ordinario

Udienza agile quella che doveva vedere contro-esaminato il collaboratore di giustizia, ex affiliato ai clan Travali e Di Silvio, Renato Pugliese. A fare le domande al figlio di Cha Cha Di Silvio, davanti al collegio II presieduto dal giudice Francesca Coculo, solo l’avvocato Benedetta Manasseri, che rappresenta la parte civile dell’Associazione “Antonino Caponnetto”. Tutto il collegio difensivo composto dagli avvocati Marcheselli, Melegari, Forte e Anzeloni ha deciso di non sottoporre a Pugliese nessun quesito. Una strategia difensiva che ha fatto sì che l’udienza si concludesse presto, non prima del rinvio al prossimo 11 luglio quando verranno ascoltati i due collaboratori di giustizia Emilio Pietrobono e Agostino Riccardo.

A Pugliese, l’avvocato della “Caponnetto” ha chiesto qualche precisazione sul ruolo di Michele Petillo, pusher prima alle dipendenze di Pugliese stesso e poi “ceduto” al clan capeggiato da Giuseppe “Romolo” Di Silvio. “Se avessi detto no – ha ribadito Pugliese riguardo al fatto di aver lasciato andare uno spacciatore così bravo a piazzare la merce in zona pub – avrei avuto dei problemi, non potevo oppormi a Romolo e alla sua famiglia. Avevo altri pusher con me, tipo Fabrizio Fargnoli e De Bellis, ma Petillo era il più continuo perché si dedicava h24 allo spaccio. Avevo puntato tutto su di lui. Petillo non voleva lavorare con Romolo ma gli dissi di andare e non si è opposto più. Romolo gli metteva i figli dietro per controllare. Con lui era stipendiato e non poteva più guadagnare come faceva con me”.

Per questo procedimento, a Roma, giudicati col rito abbreviato, sono stati già condannati in primo grado i membri del clan più in vista nei confronti dei quali è stata riconosciuta l’associazione mafiosa; in seconda battuta è stata chieste sempre dal Pm Luigia Spinelli della DDA di Roma, oggi presente in Aula, una condanna a 20 anni di reclusione per il boss Giuseppe Di Silvio detto “Romolo”.

A Latina, invece, sono processati le seconde file del clan del Gionchetto: Ferdinando Di Silvio detto Pescio (l’unico a cui sono contestati reati associativi), figlio di Costantino “Patatone” Di Silvio; Casemiro CioppiDaniel De NinnoGiulia De Rosa detta “Peppina”; Domenico Renzi e Marco Maddaloni.

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Come noto, l’operazione anticrimine risalente all’ottobre 2021, coordinata dal Procuratore aggiunto della DDA romana Ilaria Calò e portata a compimento dalla Squadra Mobile di Latina, fece eseguire 33 misure cautelari, nei confronti di soggetti, a vario titolo gravemente indiziati di aver commesso reati di associazione di tipo mafioso, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, estorsione, sequestro di persona, spaccio di droga, furto, detenzione e porto abusivo di armi, reati aggravati dal metodo mafioso e da finalità di agevolazione mafiosa.

Diverse le parti offese che si sono costituite parti civili tra cui il Comune di Latina, la sunnominata Associazione antimafia Antonino Caponnetto, l’ex affiliato al clan Di Silvo e ora collaboratore di giustizia Emilio Pietrobono e, infine, un uomo titolare di un locale a Latina che, secondo l’accusa, fu estorto da Antonio “Patatino”, Ferdinando “Prosciutto” e Ferdinando “Pescio” Di Silvio

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