LA LEGGE MAFIOSA AL TOPO BEACH: “COMANDIAMO NOI”. MINACCE AGLI ALTRI CHIOSCHI, POLITICI E PAURA

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Primo chiosco sul lungomare di Latina, oggi l’operazione di Antimafia e Squadra Mobile: tutti i dettagli di una vicenda iniziata nel 2016. Al centro dell’indagine il primo chiosco, lato Rio Martino, denominato ex Topo Beach

Un clima pesante quello che emerge dall’inchiesta portata a termine dalla Squadra Mobile di Latina, guidata dal vice questore Mattia Falso, e dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Roma per cui sono stati emesse otto misure cautelari. Paradossalmente, chi è finito in carcere, su richiesta del sostituto procuratore Luigia Spinelli e ordinanza del giudice per le indagini preliminari di Roma, Roberto Saulino – il 40enne Ahmed Jegurim e il 30enne Christian Ziroli – non ha fatto parte delle trame che si sono svolte dietro l’assegnazione del primo chiosco sul lungomare di Latina, lato B: vale a dire il noto “Topo Beach” che, nel 2016, con l’avvento dell’amministrazione Coletta, fu rimesso a gara.

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Ziroli e Jegurim vanno in carcere per episodi di spaccio in concorso con tre minorenni assoldati nello smercio della droga. La zona è la piazza di spaccio tra il centro Lestrella, la Q4 e Viale Nervi, dove peraltro i due arrestati si sono resi protagonisti, insieme ai minorenni, di un ipotizzato sequestro di persona, presso i Palazzoni di Viale Nervi, al fine di estorcere, malmenandolo, un giovane e costringerlo ad accendere un finanziamento da circa 20mila euro, per poi rigirarlo nei loro confronti. Un proposito che sfumò solo perché il giovane riuscì a scappare dal terrazzo dove era stato recluso.

Maurizio Zof, anche conosciuto come “il Topo Bestia”

Ad ogni modo, l’inchiesta dell’Antimafia ruota attorno all’aggiudicazione del primo chiosco sul lato B del lungomare di Latina. Indagando su questo episodio, emerge anche tutta la caratura di prepotenza della famiglia Zof, tanto che Alessandro Zof (destinatario della misura dei domiciliari), affiliato al clan Travali, il fratello Fabio Zof (obbligo di presentazione alla polizia giuduziaria), il padre Maurizio Zof (anche per lui i domiciliari), e persino la moglie di quest’ultimo e madre dei due figli, Simonetta Gonfiantini (solo indagata), si rendono protagonisti di più di un episodio di minacce nei confronti di chi aveva vinto la gara e si era aggiudicato la concessione del primo chiosco.

Un primo chiosco che per la famiglia Zof doveva rimanere a loro uso e consumo: nessuno doveva permettersi di gestire quella postazione che per anni, praticamente da sempre, era stata nel loro controllo.

Nell’aprile 2016, Alessandro Zof, detto “Il Topo”, – recentemente condannato in Appello nel processo “Scarface” (un’indagine dell’antimafia sul Clan Di Silvio, retto da Giuseppe “Romolo” Di Silvio) – a concessione scaduta del primo chiosco gestito da anni da suo padre e dalla sua famiglia, lanciava strali all’indirizzo di chi avrebbe voluto mettere a gara la postazione.

Zof, che all’epoca secondo gli inquirenti era intraneo al clan Travali (è imputato nel processo “Reset” che contesta l’associazione mafiosa al sodalizio) scriveva che “IL TOPO BEACH NN SE TOCCA…Era di mio nonno e dio mio padre e sarà mio e di mio fratello…IL MIO FUTURO LA MIA TRANQUILLITÀ È DATA DA TUTTO QUESTO ..SCOMBINATE STA CATENA E VI CREERÒ L INFERNO“. Che detto da uno condannato a sette anni in primo grado per duplice tentato omicidio, in ragione della vicenda degli spari a causa di un futile litigio all’interno dell’American Bar di San Felice Circeo, non era del tutto rassicurante.

Alessandro Zof sotto il chiosco del Topo Beach

Sempre Zof, nell’aprile 2016, faceva partire su Facebook una sorta di campagna pubblicitaria, ribadendo che quel posto era suo e della sua famiglia: “Ricordate – scriveva – che questa non è una guerra personale…Il mare e il topo BEACH e di tutti noi… Ci siamo cresciuti tutti da tutte le parti del Lazio…I nostri ricordi più belli sono racchiusi lì dentro e la mia famiglia li ha custoditi ad uno ad uno per tutti noi….NN LASCEREMO MAI CHE GENTE CHE NN appartiene A NOI DEBBA ROVINARE TUTTA QUESTA MAGIA. Aiutateci e sosteneteci perché ragazzi ne abbiamo veramente bisogno. IL TOPO BEACH È UNA ISTITUZIONE E DOVRÀ RIMANERE TALE…Mio padre NN caccerà mai una lacrima per quei sporchi politici….ma si leverà ogni goccia di sangue insieme alla mia famiglia per vincere questa ingiustizia“.

Parole minacciose per cui il 39enne rimedia la contestazione dell’aggravante mafiosa in quanto, secondo gli inquirenti, si fa forza del fatto di appartenere al clan retto dai fratelli Angelo e Salvatore Travali.

Fabio Zof

Non è da meno il padre, Maurizio Zof, noto anche lui negli ambienti della destra giovanile illo tempore e conosciuto per i modi spicci. Insieme alla moglie, dopo che nel 2016 fu aggiudicato il primo chiosco a una società, disse alla titolare della stessa: “Non dovevate osare a partecipare a questo bando, questo chiosco è nostro perché siamo qui da 40 anni“. Minacce che per Zof senior valgono anche l’aggravante mafiosa. Eppure, Maurizio Zof era fuori di sé tanto da andare dal socio della titolare minacciata e profferire nei suoi riguardi insulti di stampo omofobico, dicendogli che se non avessero rinunciato al chiosco gi avrebbe mandato dei rumeni a rompergli gli ombrelloni.

Ma la famiglia Zof, a cui è contestata la turbata libertà degli incanti con l’aggravante mafiosa, non si limitava solo al primo chiosco. Sono due gli episodi circoscritti dalla Polizia di Latina: in uno di essi, Alessandro e il fratello più giovane Fabio si recano al quarto chiosco gestito da un privato e dopo aver chiesto a un dipendente, con fare minaccioso, informazioni sul titolare del chiosco stesso, buttarono sdegnosamente per terra un bicchiere di amaro contenuto in un bicchiere di plastica. Per inciso, il quarto chiosco era stato controllato per anni (insieme ad un’altra persona), prima del nuovo titolare, dal pregiudicato Gianluca Tuma, vicino al clan Travali e a Costantino “Cha Cha” Di Silvio (l’altro del boss del sodalizio dei Travali) con i quali è finito a giudizio nel processo “Don’t Touch”.

Destinatario di minacce anche il secondo chiosco, gestito dall’ex assessore provinciale in quota UDC, Giuseppe Pastore. Alessandro e Fabio Zof andarono nel settembre 2018 presso il chiosco “APPEAL” e spiegarono a un dipendente di dover portare a Pastore un messaggio eloquente. “Riferisci al tuo capo – disse Alessandro Zof – che sono uscito dal carcere e non può più fare come cazzo gli pare…qua comandiamo noi“. Peraltro, la società riconducibile a Pastore arrivò seconda nel bando di gara del 2016. Alla rinuncia della prima classificata avrebbe dovuto subentrare proprio la società di Pastore: il problema è che il Comune fece solo una richiesta formale e Pastore stesso, ascoltato dagli investigatori, spiegò che il non subentrare ai primi classificati gli andava comunque bene. L’ex politico aveva saputo delle minacce social di Alessandro Zof e non voleva problemi, avendone avuti in passato con la nota vicenda che vide uno dei suoi stabilimenti bruciati. Una circostanza che portò alla sbarra Gianluca Tuma, Costantino “Cha Cha” Di Silvio e l’attuale vice sindaco del Comune di Latina, Massimiliano Carnevale. Alla fine tra prescrizioni e assoluzioni, il processo si concluse in un nulla di fatto. Fatto sta che è lo stesso Pastore a notare, il 5 maggio 2021, che sul cartello stradale posto di fronte al suo secondo chiosco che ancora gestisce erano stati esplosi due colpi d’arma da fuoco. Ignoto l’autore del gesto, Pastore, ascoltato dagli inquirenti, rivelò che: “Ho cercato in tutti i modi di tenere la notizia nascosta per non fare allarmare i dipendenti ma purtroppo qualche voce è circolata tanto che qualcuno di loro mi ha detto di essere impaurito e perplesso…spero con tutto me stesso che non sia un avvertimento”. Un lato B del lungomare caldissimo, e non per il clima estivo: in sequenza, nel 2020, tre episodi degni di nota: a luglio 2020 l’incendio al furgone in sosta di Daniel Vinci; a settembre 2020, un incendio al quarto chiosco; sempre a settembre 2020, un altro incendio al quarto chiosco.

Ad ogni modo, tornando alla vicenda del primo chiosco, per la famiglia Zof il lungomare da Capoportiere a Rio Martino era “roba loro”. Tutti, secondo DDA e Squadra Mobile, dovevano essere assoggettati ai loro ordini: per 40 anni erano stati loro i gestori e così doveva essere per sempre. A spiegare ancora di più il quadro delle spiagge latinensi è il collaboratore di giustizia, Agostino Riccardo, ex affiliato proprio al clan Travali, di cui anche Alessandro Zof era parte integrante, nonché fornitore di droga, almeno secondo quanto ricostruito dagli inquirenti nell’inchiesta Reset.

“Io – ha spiegato nel marzo 2021 Agostino Riccardo agli inquirenti – parlavo con Alessandro che faceva parte del clan Travali e lui mi diceva che al padre non avrebbero mai tolto la gestione del chiosco, almeno fino a quando durava la vecchia gestione comunale facente capo a Di Giorgi e ai sindaci precedenti. Con l’elezione del sindaco Coletta, Zof non ha avuto più la gestione del chiosco. Maurizio Zof aveva un contatto con un politico che si chiamava Malvaso“. Si tratta di Vincenzo Malvaso, ex consigliere comunale di Forza Italia, il cui nipote, al momento, è assessore alle Attività Produttive nella Giunta Celentano. Entrambi, Malvaso e Antonio Cosentino (l’attuale assessore), sono completamente estranei all’indagine della DDA.

Tuttavia, Riccardo racconta che “più volte ho sentito io stesso parlare Maurizio Zof e Malvaso della gestione del chiosco e dei tempi di concessione. Questo è accaduto alcune volte in cui eravamo tutti al locale gestito da Zof vicino allo stadio (nda: si tratta de chiosco ormai chiuso alle spalle dello Stadio Francioni); il periodo era quello tre il 2013 e il 2015″.

Alessandro Zof

E ancora: “Alessandro Zof diceva in giro che se fosse stato dato il chiosco in gestione a qualcun altro, lui dopo cinque minuti lo avrebbe bruciato…Non so quanto potesse rendere la gestione del chiosco, credo 25.000 o 30.000…in ogni caso era una zona di spaccio. Io so che Zof ha acquistato un appartamento a piano terra cn giardino dietro il centro commerciale Giotto. L’ha comprato con i soldi della droga insieme a Cornici (nda: Valeriu Cornici, imputato anche lui nel processo Reset)”.

Quello di essere bruciato è stato, purtroppo, un destino che, in realtà, ha investito il primo chiosco nel maggio 2023, andato in fiamme, dopo che era stato carbonizzato anche il quinto chiosco: le due vicende, però, non rientrano nella maniera più assoluta nell’inchiesta odierna. Per il pentito, però, quel chiosco doveva rimanere alla famiglia Zof in quanto luogo frequentato da pregiudicati: “Era una questione di prestigio del suo nome e punti di riferimento dei criminali di Latina anche per la gestione dello spaccio di droga”. C’è solo un aspetto da non sottovalutare, intercettati dopo gli incendi del maggio 2023, Maurizio Zof auspica che il Comune possa riaprire i bandi, sopratutto per il primo chiosco. Ecco perché parlando in carcere con il figlio recluso, Alessandro, il “Topo Bestia” spiega che avrebbe potuto prendere per il cravattino il vice-sindaco di Latina Massimiliano Carnevale (Lega): “Ora devo parlare con Carnevale che devo prendere per il cravattino. Lo devo pigliare per il cravattino e ci devo dire ce ci sono i chioschi mancanti, prima che mi metto ad allucca, perché adesso allucco…ci sono i chioschi mancanti, so arrivati sti quattro aguzzini, hanno bruciato non so che cazzo eh, hanno fatto questa contestazione, per favore fate, rifate i bandi per le piazzole mancanti…”.

Passano anni da quel 2016, tanto che chi aveva vinto, proprio per il clima che si era venuto a creare, aveva rinunciato a gestire quel primo chiosco. Per l’aggiudicataria “la famiglia” da lei sostituita era “mafiosa” e, complice anche qualche impedimento burocratico, era meglio girare alla larga dai guai. Si arriva al 2020 quando con il progetto Latinadamare il Comune voleva riscattare quella gara di anni prima andata male per la rinuncia degli affidatari e le minacce della famiglia Zof (“il progetto di Latinadamare – si legge nella nota del Comune – anche l’obiettivo di promuovere un’azione simbolica di rinascita e rivalsa dell’intera comunità”) che si spinsero anche in Comune – Maurizio Zof e la moglie – per insultare e intimidire chi aveva legittimamente vinto. I soci della società vincitrice, nel 2016, si allontanarono dalla sala del Comune di Latina per evitare problemi: “Era l’intero sistema che minava la mia serenità – ha spiegato agli inquirenti al titolare della società che si era aggiudicata otto anni fa il primo chiosco – sia il clima che si era creato a causa degli interessi della famiglia Zof, sia l’aspetto burocratico, sia l’assegnazione che ritengo di aver vinto per meritocrazia ma che non sono sicura che dopi sei anni lo avremmo rivinto per meritocrazia, in relazione agli interessi della famiglia Zof o gente come loro”. La titolare non ci teneva, come dice lei stessa, nonostante i solleciti del Comune e del suo commercialista a fare la parte di “Giovanna d’Arco”. E a farle paura era soprattutto Alessandro, arrestato per gli spari all’American Bar a San Felice Circeo, avvenuti nel marzo 2016 e dove furono gambizzati due uomini.

È proprio il commercialista a riferire agli inquirenti che in più occasioni il socio della titolare vincitrice e rinunciante nel 2016 era stato minacciato da uno dei figli di Zof su Facebook, insieme alle ragazze che avevano partecipato al bando. Lo stesso socio sarebbe stato aggredito verbalmente sotto casa da Maurizio Zof e in una occasione spintonato (circostanza poi smentita dallo stesso commercialista). Aggressioni verbali e minacce che sarebbero avvenute anche davanti al sindaco di allora, Damiano Coletta. Alla fine, secondo il racconto del commercialista, al socio della titolare sarebbe stato proposto dallo stesso Zof padre di vendergli il primo chiosco, una volta aggiudicato. Una proposta rispedita al mittente.

Il socio della titolare, invece, ascoltato dagli investigatori, ha smentito ogni circostanza: dichiarazioni che il Gip del Tribunale di Roma considera reticenti. Lo stesso socio, intercettato dalla Squadra Mobile, disse al compagno, in riferimento alla convocazione per essere ascoltato a sommarie informazioni sulla vicenda: “Dirò quello che mi va dire”.

Il banner della campagna contro la nuova assegnazione del primo chiosco partita nel 2016. Come noto il primo chiosco è stato gestito per anni dalla famiglia Zof
Il banner della campagna contro la nuova assegnazione del primo chiosco partita nel 2016. Come noto il primo chiosco è stato gestito per anni dalla famiglia Zof. Nell’immagine la foto du copertina creata su Facebook dagli Zof: la pagina si chiamava “Salviamo il topo Beach”

Nel concreto, invece, l’avviso pubblico del Comune di Latina, nel 2020, a cui hanno partecipato cinque soggetti prevedeva di realizzare un Centro di Sosta, da svilupparsi in tre immobili funzionalmente collegati tra loro e con le altre realtà del territorio “capaci di offrire ai turisti giovani l’opportunità culturali e ricreative all’interno di una cornice musicale”. Si tratta della Casa Cantoniera di Borgo Sabotino, l’ex tipografia gestita per anni dalla coop Il Gabbiano e per l’appunto il primo chiosco

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Gli unici problemi, ça va sans dire, furono per il primo chiosco. Infatti, ai tre aggiudicatari provvisori, Maurizio e Alessandro Zof, secondo gli investigatori, fecero pervenire tramite terze persone messaggi di minacce: in sostanza, se avessero gestito il chiosco, avrebbero corso seri rischi, ritorsioni e anche incendi dolosi. Alla fine fu più di una società a rinunciare al primo chiosco (leggi link di seguito), poi definitivamente assegnato alla Seaside Music Young Impresa Sociale srl, non senza qualche timore esplicitato dalla madre dei titolari della società, intercettata al telefono dagli investigatori: “Perché lo sai che c’hanno paura Vale’, c’hanno paura che ‘sto chiosco lo sa no, tutte le intimidazioni che ha fatto dice magari ci dà fuoco, capito?”.

Ascoltati a sommarie informazioni tre dei rinuncianti spiegano agli investigatori di non avere ricevuto minacce, pur ammettendo di aver chiesto in Comune chiarimenti e sopratutto di conoscere la storia del primo chiosco: “Era gestito da persone poco raccomandabili”, oppure: “In passato era gestito da un mafioso di Latina che non avrebbe gradito una diversa gestione…sinceramente temevamo potessero bruciarci il chiosco”.

Una sorta di sudditanza psicologica evidenziata dagli inquirenti: gli stessi dichiaranti, intercettati, si auto-giudicarono come “omertosi”.

Una volta che nel 2021 fu aggiudicato il primo chiosco, Maurizio Zof si presenta al chiosco gesticolando. Un atteggiamento che mette in apprensione il figlio Alessandro Zof, già ristretto in carcere per l’operazione “Reset”: “Mi padre invece de ritirasse, continua a fa’ le braciate”. E per “braciate” si intende allusivamente agli incendi dolosi. Un timore, quello di Alessandro Zof, ben consapevole, da dietro le sbarre, di essere particolarmente attenzionato dalle forze dell’ordine in riferimento al primo chiosco.

Maurizio Zof, il cosiddetto “Topo Bestia”, non accettava l’idea di perdere il chiosco: monitorato dagli inquirenti, lo trovano in diverse circostanze di fronte al primo chiosco quando questo era in fase di costruzione: in una occasione, si presentò con una vanga alla ricerca del contatore Enel, per poi essere allontanato dai Carabinieri in servizio al Parco Fogliano. Anche quando il 9 settembre 2021, il chiosco viene inaugurato, il Topo Bestia si presenta rivendicando la proprietà di un cavo elettrico e chiedendo a un uomo legato ai titolari del chiosco la cifra di 5mila euro per il medesimo cavo elettrico. Senza contare che, più volte, davanti al primo chiosco, si sono palesati diversi amici dei fratelli Zof. Un clima di velata intimidazione e ostruzionismo.

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Nelle more di una indagine che serve a restituire un clima odioso, emergono altri vicende contestate, in particolare ad Alessandro Zof e al cognato Corrado Giuliani, entrambi alla sbarra nel processo Reset e considerati affiliati al clan Travali. Intimidazioni e un’estorsione di stampo mafioso sono contestati a entrambi per aver chiesto, nel 2019, con metodi spicci, soldi a un consumatore indietro con i pagamenti della droga. Lo stesso consumatore, nell’agosto 2021, fu raggiunto da Franco Di Stefano (raggiunto dalla misura degli obblighi di firma), della nota famiglia di origine siciliana legata al clan Di Silvio (anche lui è stato assolto in Appello nel processo Scarface), che lo spinse su una vetrata di un negozio al centro di Latina per farsi dare 200 euro, sempre derivanti da un debito di droga. E ad essere solo indagato c’è anche Giovanni Ciaravino, recentemente condannato in secondo grado nell’ambito del processo Reset, con l’esclusione dell’aggravante mafiosa, che sempre nei confronti dello stesso consumatore minacciò e picchiò, anche davanti a moglie e bambino piccolo, per un debito di droga.

La prepotenza di Maurizio Zof, invece, si esplicita anche in altri contesti come quando minaccia l’amministratore di condominio per 200 euro, in ragione di lavori peraltro non eseguiti da lui ma da un giardiniere: “Tu non sai chi sono io – si rivolge all’amministratore, Maurizio Zof- se vengo là ti butto di sotto. Io ce magno coi soldi e me li devi dare per forza“. O quando minaccia un carrozziere per lavori a un’autovettura per cui aveva messo a disposizione un’altra auto da cui prelevare i pezzi di ricambio. Un comportamento simile quando c’era da riverniciare un mezzo pick up: le minacce, secondo gli inquirenti aggravate dal metodo mafioso, sono compiute da Maurizio e Alessandro Zof: la famiglia non voleva pagare e nessuno doveva lamentarsi.

E altre richieste e minacce nei confronti di un uomo che si dichiarava, in quel momento senza redditi, avvengono da parte di Maurizio Zof e dell’altro figlio Fabio quando Alessandro, incarcerato nell’operazione antimafia Reset, aveva bisogno di soldi per il sostentamento dietro le patrie galere. Pretese indirizzate anche nei confronti dell’ex gestore di un noto pub, poi sequestrato perché nella disponibilità di Gianluca Tuma.

E, infine, slegato dagli episodi più crudi delle intimidazioni sui chioschi, c’è anche un episodio di trasferimento fraudolento dei valori, per cui è finito ai domiciliari il 53enne Pasquale Scalise, proprietario di fatto una società, la Mr Cash 2.0. srls (che si occupava della commercializzazione di materiale tecnologico anche usato), al cui interno operava, come testa di legno, Fabio Zof. Indagati per tale contestazione di reato, anche due fratelli: Alessio e Alfonso Attanasio. La presenza formale di Zof e di uno degli Attanasio sarebbe servita a Scalise per non figurare, in quanto condannato per bancarotta, insolvenza e truffa.

Ricapitolando, ad essere arrestati, in carcere, Ahmed Jegurim detto “Orso” (40 anni), volto noto a forze dell’ordine e cronache giudiziarie in merito a episodi di rapine e violenze, e Cristian Ziroli (29 anni), anche lui noto e coinvolto con lo stesso Jegurim almeno in un episodio di tentata estorsione nei confronti di un barbiere a Latina.

L’ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari è naturalmente a carico di Alessandro Zof (39 anni), del padre di quest’ultimo, Maurizio Zof (69 anni), storico gestore del primo chiosco denominato Topo Beach, prima che le concessioni fossero messe di nuovo a gara, e Pasquale Scalise (53 anni), considerato il proprietario di fatto di una società, la MR Cash, che risultava formalmente in capo a Fabio Zof, fratello di Alessandro e figlio di Maurizio.

Proprio Fabio Zof (35 anni), insieme al 50enne Corrado Giuliani (coinvolto nel maxi processo “Reset”, in cui viene contestata l’associazione mafiosa al clan Travali) e il 37enne Franco Di Stefano sono stati destinatari della misura dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Peraltro Franco Di Stefano, assolto in Appello nel processo al clan Di Silvio denominato “Scarface”, è il fratello dei più noti Fabio Di Stefano, esponente di spicco nel clan retto da “Romolo” Di Silvio, e figlio di Salvatore Di Stefano, ex contiguo a Cosa Nostra catanese e trapianto a Latina, recentemente arrestato dai Carabinieri per non aver rispettato l’obbligo di soggiorno. Franco Di Stefano fu coinvolto anche nella vicenda dei villini abusivi a Borgo San Michele: la sua famiglia è legata strettamente al clan Di Silvio, sponda Gionchetto (il cuoi capo è “Romolo” Di Silvio).

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