Clan Ciarelli: dietro le estorsioni contestate dalla magistratura, anche gli elementi che spiegano la caratura della famiglia rom
36 sono i capi di imputazione contestati, a vario titolo, ai 21 indagati (il ventiduesimo sarebbe stato il figlio di “Lallà”, Samuele Di Silvio, deceduto in carcere lo scorso febbraio) nell’ambito dell’operazione della DDA di Roma e della Squadra Mobile di Latina che stamattina, 15 giugno, ha portato a 15 arresti (14 in carcere e 1 ai domiciliari). Per lo più si tratta di estorsioni, recenti e anche datate nel tempo tanto da risalire alla guerra criminale del 2010 (tra le vittime uno degli imprenditori citati nel processo Caronte).
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Estorsioni che la DDA e la Polizia ricostruiscono sarebbero state compiute anche dai giovani rampolli della famiglia Ciarelli, in forza della caratura criminale conquistata sin dai tempi, e anche prima, dell’ammazzamento di Massimiliano Moro. Il 24enne Ferdinando Ciarelli (ai domiciliari), cugino di Marco Ciarelli (figlio del narcotrafficante Luigi Ciarelli) – peraltro citato negli arresti di poche settimane fa a carico dei Casamonica che spesero il suo nome e quello del più grande Ferdinando Ciarelli detto Furt per razziare due locali del capoluogo – si sarebbe recato, a giugno 2020, anche a Terracina, presso lo stabilimento “Rive di Traiano”, minacciando un addetto alla vigilanza e intimando di farlo rimanere all’interno del locale, la cui sicurezza lo aveva allontanato: “Tu non sai chi sono io…vado a prendere il fucile e gli sparo…mi devi chiedere scusa in ginocchio perché se non lo fai ti sparo con il fucile…la tua famiglia piangerà un morto“. I fatti non sono stati denunciati dalle vittime, evidentemente assoggettate dalla fama criminale del nome Ciarelli.
Episodi che si reiterano nel tempo e che fanno parte anche del bagaglio della sottocultura mafiosa dei più giovani del clan. Ma da cosa deriva la caratura criminale dei Ciarelli? A spiegarlo è anche questa indagine che prende le mosse dai fatti criminali avvenuti nel 2010 dopo gli spari a Carmine Ciarelli detto “Porchettone” da cui scaturì una mattanza fatta di ritorsioni trasversali tra omicidi (due, Moro e Buonamano) e gambizzazioni. Come noto, i Di Silvio e i Ciarelli erano uniti all’epoca e lo erano in nome di una vendetta mai realmente consumata: quella per il delitto di Ferdinando Di Silvio detto “Il Bello”, fatto saltare con un’autobomba sul lungomare di Latina. Un omicidio attribuito dai rom e dalla DDA a Carlo Maricca (per i Di Silvio fu Fabio “Bistecca” Buonamano a posizionare materialmente l’eplosivo) e al suo gruppo ma per cui non c’è stata né rivalsa in stile mafiosa né giustizia (l’anno scorso l’indagine dell’Antimafia fu bloccata dal Riesame di Roma).
Oggi, anche grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Agostino Riccardo e Renato Pugliese e, soprattutto, all’ex affiliato Andrea Pradissitto, si può iniziare a conoscere ancor di più perché i Ciarelli sono temuti negli ambienti della malavita a tal punto da aver respinto un tentativo di collaborazione con il Clan dei Casalesi sponda Francesco Schiavone detto Sandokan.
A raccontarlo ai magistrati e agli investigatori è stato proprio Andrea Pradissitto, genero di Ferdinando Ciarelli detto Furt, poiché marito della figlia Valentina.
L’ex affiliato, ora collaboratore di giustizia in seguito agli arresti per l’omicidio di Massimiliano Moro avvenuti in due tornate nel 2021, si concentra dapprima su Carmine Ciarelli detto “Porchettone” o “Titti”, ma anche “il professore di diritto” così come ricordato dall’altro collaboratore di giustizia Renato Pugliese, il quale lo definisce un uomo colto ma spietato.
Per Pradissitto, che fino a poco tempo fa era intraneo al clan Ciarelli, il vero leader della famiglia è il più grande Ferdinando Ciarelli detto “Furt” (suo suocero e fratello di Carmine) sebbene “la fortuna di Carmine dal 2002 in poi è stata di incontrare Pietro Canori”. Canori, originario di Priverno, è uno dei broker del narcotraffico pontino più in vista, recentemente arrestato e a processo per spaccio di sostanze stupefacenti, in affari con cosche sicule.
Carmine Ciarelli, secondo Pradissitto, “prestò 300mila euro” a Canori “in cambio di 50mila euro al mese per sei mesi”. “Carmine – continua Pradissitto – aveva prestato soldi al figlioccio di Canori, Luca Finocchiaro“. Si tratta di un narcotrafficante latinense piuttosto conosciuto, arrestato a giugno 2020 in una maxi operazione internazionale a Santo Domingo. Al che, non riuscendo a pagare, Finocchiaro si nascose e Carmine Ciarelli, non potendo riscuotere il credito, cercò di impossessarsi del suo ristorante, nonostante l’intervento di Costantino Di Silvio detto Cha Cha il quale tentò di ricucire invano lo strappo. Fu Canori, secondo Pradissitto, a placare la sete di soldi di Carmine Ciarelli al quale “portò 100mila euro”.
“Carmine – ha dichiarato ancora Pradissitto – prestò 300mila euro a Canori e Canorì investì i soldi in cocaina. Arrivavano macchine piene di cocaina all’officina che sta vicino alla palestra di Mirko Parisi e che era ed è di Mirko Parisi e che era ed è di Mirko Parisi (nda: esponente della Democrazia Cristiana a Latina). Lì smontavano la macchina e partecipava anche Luca Finocchiaro che era l’erede di Canori”.
E, ancora, Pradissitto parla di alcun imprenditori estorti da Carmine Ciarelli, tra cui un gioielliere di Latina e un imprenditore attivo nel comparto tessile a cui “il professore di diritto” avrebbe sottratto ad usura la cifra di 250mila euro.
Tuttavia, uno degli aspetti più illuminanti delle dichiarazioni di Pradissitto è rappresentato dal racconto riferibile alla vicenda che fu menzionata nel processo “Anni 90” a carico del Clan di Ettore Mendico, la cui cellula legata ai Casalesi era ed è di stanza tra Castelforte e Santi Cosma e Damiano.
A cavallo tra il 1996 e il 1997, Ettore Mendico, descritto da Pradissitto (e non solo) come esponente dei Clan dei Casalesi, si presentò a casa di Carmine Ciarelli, tramite Matteo Baldascini, altro noto personaggio legato ai clan di Caserta.
“L’obiettivo – spiega Pradissitto – era che la famiglia Ciarelli si alleasse con il clan dei Casalesi di Francesco Schiavone (nda: Sandokan)…erano presenti altri esponenti per conto della famiglia Schiavone di cui non ricordo il nome. Dopo avere occupato il sud pontino tramite la cellula di Mendico, i Casalesi volevano una percentuale sui profitti illeciti e un appoggio militare in caso di una guerra criminale“. La proposta non fu accettata, per quanto sostiene Pradissitto, dagli altri due fratelli, Ferdinando detto Furt e Luigi Ciarelli, che si sarebbero recati a Borgo Carso da Baldascini minacciandolo e sparando un intero caricatore di un’arma con l’obiettivo di ucciderlo. Il tentativo di omicidio rimase un tentativo e, allora, i Ciarelli, temendo una reazione da parte dei Casalesi, “si organizzarono per una risposta insieme a Pino Pes, Alessandro Artusa e Tozzi (nda: condannati per l’omicidio di Saccone)“. Una guerra mai nata perché, come noto, Carmine Ciarelli e il capostipite della famiglia, Antonio Ciarelli, denunciarono i tentativi di Mendico ai Carabinieri. Anni dopo, nel processo a Ettore Mendico, Antonio Ciarelli ritrattò di aver mai subito intimidazioni dai Casalesi. Un’altra storia, anche perché ciò che diventa ancor più inquietante è il seguito del narrato di Pradissitto.
“Prima ancora che questa denuncia diventasse pubblica, Carmine chiese l’intercessione della famiglia Lo Piccolo di Palermo per bloccare il tentativo dei Casalesi di occupare la città di Latina. Questa mediazione andò a buon fine. Devo aggiungere che la famiglia Ciarelli diede ospitalità a Latina, per circa un anno, a due soggetti appartenenti alla famiglia Lo Piccolo latitanti. Credo fosse il 1994 o il 1995. Per questo fatto la mafia siciliana rimase riconoscente alla famiglia Ciarelli e si impegnò a impedire l’ascesa dei casalesi“. La famiglia Lo Piccolo fa parte della cosiddetta aristocrazia di Cosa Nostra siciliana, tanto da avere rapporti anche con l’erede del Capo dei Capi, il latitante Matteo Messina Denaro.
Salvatore Lo Piccolo, il boss di famiglia, era capomandamento di San Lorenzo, che comprendeva le cosche di San Lorenzo, Partanna-Mondello e Tommaso Natale. In poche parole, una famiglia che in Sicilia e nella malavita organizzata italiana conta. E tanto.
Pradissitto delinea la figura anche del suocero, Ferdinando Ciarelli detto “Furt”, considerato il vero fondatore del clan Ciarelli e comunque capo in coabitazione con Carmine “Porchettone”. Secondo il genero Pradissitto, “Furt” era molto legato a persone importanti a livello istituzionale di Roma, tanto che una volta, nel 2004, venne fermato all’aeroporto di Roma e lo trovarono con uno zainetto con 250mila euro“.
“Furt” venne rilasciato, secondo il collaboratore di giustizia, grazie all’intercessione di una persona di nome “Lorenzo” (un uomo originario di Milano di cui il collaboratore non ricorda il nome), con cui era in stretti rapporti e “che aveva la possibilità di disporre di una clinica sulla Portuense”.
E gli “agganci” istituzionali” sarebbero arrivati fino alla Suprema Corte. “A mio suocero era stato promesso pochi mesi prima dell’udienza in Cassazione per il processo Caronte che io sarei stato assolto. Rosaria Ciarelli, sorella di mio suocero (sposata con uno zingaro in Puglia), insieme al marito ci disse che aveva un contatto certo per far annullare i processi in Cassazione. Chiesero 80mila euro facendosi portavoce delle richieste della persona che avrebbe garantito il risultato dell’annullamento in Cassazione delle posizioni mie, di Grenga Simone e Ciarelli Antoniogiorgio, oltreché di mio suocero per il tentato omicidio Marchetto”.
Fu Pradissitto a recarsi a Milano da “Lorenzo”, in affari con Ferdinando “Furt” Ciarelli, per chiedere i soldi da dare in cambio di una sentenza di comodo in Cassazione. Alla fine, però, le condanne furono confermate. Tuttavia, l’insieme si fa ancora più opaco quando Pradissitto fa capire che dietro questo “Lorenzo” vi sarebbero state persone interessate ad avere informazioni sul territorio di Latina e quindi disposte a eleggere come loro referente Ferdinando “Furt” Ciarelli. “Lorenzo disse a mio suocero – spiega alla DDA, Pradissitto – che le persone che erano con lui appartenevano ai Servizi ed erano gli amici che fino a quel momento lo avevano sempre protetto. In effetti mio suocero non ha mai subito indagini…in cambio della pistola con cui era stato ucciso Massimiliano Moro mi avrebbero fatto uscire…la pistola serviva per creare false prove a carico di qualche altra persona…Mio suocero non accettò l’offerta e da quel momento sono iniziati i guai“.
D’altra parte, “Furt” non si ferma davanti a niente nei racconti del genero, in quanto viene descritto come capace di estorcere, in un episodio al carcere di Velletri datato 2020, un’auto ai Casamonica, per vendicare un precedente litigio di Pradissitto stesso con Marco Casamonica detto “Diego”, recentemente arrestato per le estorsioni compiute in due locali a Latina dove aveva speso, per avere via libera, proprio il nome di “Furt”.
La “potenza” criminale di “Furt” viene esplicitata anche in presunti messaggi che avrebbe inviato al genero dalla email di Fabrizio Trotta in cui “nella parte finale c’è un messaggio indirizzato a Canori nel quale gli dice di dire a Vartolo, compare di Patrizio Forniti (nda: coinvolto nel processo per estorsione mafiosa in concorso con Gangemi e citato a più ripresi dai “pentiti), che i 230mila euro che li aveva preso non erano i suoi e che doveva rimandarli ai Ciarelli…mio suocero scriveva a Canori perché pensava fosse ancora in contatto con Patrizio Forniti”. È in queste stesse dichiarazioni che Pradissitto svela di come tra “Furt” e Angelo Travali sia tornato a scorrere buon sangue dopo i fatti degli spari ordinati dal medesimo “Furt” contro la villa della nonna dei Travali, Velia Casamoneco (anno 2010), così per vendicare la fuitina messa in pratica tra uno dei fratellastri dei Travali, Alessandro Anzovino, e una figlia del cognato di “Furt”, Armando “Lallà” Di Silvio.
E, infine, i figli di Carmine Ciarelli, anche loro destinatari oggi, 15 giugno, dell’ordinanza di custodia cautelare: Pasquale e Ferdinando detto Macù (a processo per l’omicidio Moro). Secondo Pradissitto, in particolare Pasquale ha sempre curato gli affari di usura ed estorsione del padre. Una “specializzazione” talmente marcata da aver compiuto con Pradissitto una estorsione in carcere a Rebibbia nei confronti del cognato di Ottavio Spada e imparentato con i Fasciani di Ostia, Fabrizio Ferreri: circa 30mila euro. Un personaggio, noto alle cronache romane che, secondo Pradissitto, li avrebbe anche coinvolti in affari di droga, tanto da menzionare anche Luigi Ciarelli, estraneo agli arresti odierni, ma narcotrafficante riconosciuto dalla magistratura toscana e a processo nel procedimento Reset come fornitore di droga del Clan Travali”.
La figura di Pasquale, erede di Carmine Ciarelli, è quella di un personaggio che per estorcere 20mila euro a un concessionario di Borgo San Michele lo avrebbe portato in giro con l’auto tutto il giorno, picchiandolo ripetutamente, fino alla consegna dei soldi. “Il concessionario non lo denunciò – spiega Pradissitto – Andò a casa di mo suocero che lo ha convinto a non denunciare”. E ancora l’episodio di un giovane di Latina, dalla ricca eredità, che fu spolpato nel 2006 da Pasquale Ciarelli dopo una partita a carte.
Insomma Pasquale Ciarelli, descritto “molto violento con i deboli”, pur non avendo partecipato a fatti di sangue, a differenza del fratello “Macù” implicato nell’omicidio Moro, sarebbe uno che tra violenze ed estorsioni sapeva dettare la sua “legge” anche in carcere. Come quando, per quanto sostiene Pradissitto, tramite una guardia carceraria riusciva a far trasferire nel penitenziario di Pescare le persone che voleva lui: “Antoniogiorgio Ciarelli, Furt, Pasquale Bruno, Marcello Capponi detto Michigan”. Oppure quando pretese la vicinanza nelle celle di Massimo Tartaglia, altro pontino noto alle cronache, riempito di botte in carcere per un prestito usurario non onorato.
Lo stesso Pradissitto, per quanto riguarda il carcere, racconta di un episodio molto grave: Salvatore Fragalà dell’omonimo clan siculo-romano di stanza sul litorale sud-capitolino avrebbe ricevuto 80mila euro da uno dei rom della famiglia Bevilacqua di Roma (parente della latinense “Cipolla” De Rosa) per pagare un funzionario del Tribunale di Roma che avrebbe fatto in modo che vi fosse “una scadenza termini della misura cautelare” dell’attuale collaboratore di giustizia. Poi, però, Fragalà non fece niente e intascò soldi tanto che Pasquale Ciarelli, per vendicarsi, si servì di un rumeno chiamato il “Ningia” che pestò a sangue un catanese vicino al clan siculo-romano. Era lo stesso picchiatore assoldato da Armando e Samuele Di Silvio per “fare la festa” a Salvatore Travali in carcere (anno 2016), il quale, nel 2016, disse di essere caduto nella doccia.