Omicidio Moro: verso la sentenza il processo su uno dei “cold case” più noti della provincia di Latina. Grenga rilascia dichiarazioni spontanee
Si è svolta oggi, 9 gennaio, a Latina, davanti alla Corte d’Assise presieduta dal giudice Gian Luca Soana, una nuova udienza del processo in cui sono imputati, per l’omicidio di Massimiliano Moro con l’aggravante mafiosa, Ferdinando Ciarelli detto “Macù” (figlio del capo-famiglia Carmine detto Porchettone), Antoniogiorgio Ciarelli (fratello di Porchettone), Simone Grenga (legato al clan del Pantanaccio per aver sposato la figlia del numero tre del sodalizio, Luigi Ciarelli) e Ferdinando Di Silvio detto Pupetto, già condannato con sentenza passata in giudicato per reati aggravati dal 416 bis (processo Alba Pontina) e figlio del capo-famiglia Armando Di Silvio detto “Lallà”.
Il processo sta arrivando a grandi passi alle battute finali e, il prossimo 11 marzo, i Pubblici Ministeri della Procura/DDA Roma, Luigia Spinelli e Francesco Gualtieri, svolgeranno la loro requisitoria con le richieste di condanna. Previste anche le arringhe difensive del collegio composto dagli avvocati Montini, Farau, Nardecchia e Siviero. Successivamente, in data 25 marzo, ci sarà una udienza per le eventuali repliche dell’accusa, dopodiché la Corte d’Assise si riunirà in camera di consiglio per emettere la sentenza di primo grado.
L’udienza odierna ha visto le escussioni di tre testimoni, il primo dei quai, Raffaele Russo (al momento agli arresti domiciliari), era stato chiamato in ballo in almeno altre due occasioni nel processo da due testimoni: un Carabiniere e l’ex capo della Squadra Mobile di Latina, Cristiano Tatarelli.
“C’erano più contatti con Raffaele Russo da parte di Moro, facemmo accertamenti ma non ci furono risultanze. Ci fu una indagine: fu sentito lui e altri personaggi a lui vicini”, aveva spiegato Tatarelli. Lo stesso Tatarelli aveva raccontato, su richiesta dell’avvocato Farau, di una telefonata tra Raffaele Russo e Michele Monaco, un uomo che, all’età di 24 anni, fu gambizzato nel 2008 sul lungomare di Latina all’altezza del parco Vasco de Gama. “Secondo fonti confidenziali il fatto della gambizzazione (nda: per cui non vi fu nessun processo) sarebbe stato riconducibile a Moro”, ha spiegato Tatarelli. Un aspetto sicuramente suggestivo per cui era chiamato a fornire chiarimenti lo stesso Russo. La tesi difensiva che emerge era evidente: e se Moro fosse stato ucciso da altra mente e altra mano diversa dal clan Ciarelli-Di Silvio?
Solo che Russo, in evidente stato nervoso, si è presentato in aula spiegando di essere in cura psichiatrica e sotto psicofarmaci, asserendo vieppiù, abbastanza clamorosamente, di aver considerato, ad oggi, ancora vivo Moro. Russo, che muoveva compulsivamente le mani, ha dichiarato di non ricordare niente, neanche il numero del suo cellulare, nonostante avesse spiegato, tredici anni fa, quando fu ascoltato a sommarie informazioni dalla Squadra Mobile, di aver visto Moro il 24 gennaio 2010, ossia a 24 ore dal suo omicidio.
Eppure, Russo ha implorato la Corte di farlo andare via: “Non c’entro niente, non ricordo neanche chi sono io. Moro al massimo l’ho visto in discoteca”. E per quanto riguarda Michele Monaco, il ragazzo gambizzato anni fa: “Non conosco nemmeno lui”.
A seguire è arrivata la testimonianza di Ferdinando Di Silvio detto Gianni, fratello del boss di Campo Boario, Armando Di Silvio detto “Lallà”. Gianni Di Silvio, al momento indagato (ma non imputato) anche lui per l’omicidio Moro, ha spiegato di conoscere gli imputati, tra cui il nipote “Pupetto” Di Silvio, ma di non aver mai avuto frequentazioni con loro, né di aver mai preso ordini.
Secondo gli investigatori, però, quella sera dell’omicidio Moro, sarebbe stato proprio Gianni Di Silvio a guidare l’auto in cui c’era Andrea Pradissitto, già condannato per questo omicidio e, oggi, collaboratore di giustizia. Eppure, Gianni Di Silvio ha negato questa circostanza.
Il terzo testimone è stato Paolo Peruzzi, altro volto noto a forze dell’ordine e cronache giudiziarie. Peruzzi, considerato dai collaboratori di giustizia come vicino, all’epoca, a Massimiliano Moro, facente parte della sua batteria, ha negato in sostanza tutto quanto è stato detto di lui. Non conosceva così approfonditamente Moro, non ritiene di essere mai stato a casa sua, né tantomeno di essere tra i pochi ad aver potuto accedere nella casa di Largo Cavalli (dove risiedeva Moro) senza preavviso. “Quando fu ucciso Moro – ha detto Peruzzi – ero detenuto, non posso esservi d’aiuto”.
Dopo la testimonianza di un ingegnere elettronico Paolo Reale – tecnico già consulente di parte civile per il noto omicidio di Garlasco – chiamato dalla difesa, che ha redatto una corposa relazione sulle celle telefoniche degli imputati nella sera del 25 gennaio 2010, è stato il turno di Simone Grenga, video collegato dal carcere in cui si trova ristretto. Uno dei quattro imputati, per l’appunto Granga, con sorpresa ha voluto rilasciare le sue dichiarazioni spontanee, sostenendo di essere detenuto da 14 anni e che, in questo lasso di tempo, ha avuto un percorso carcerario ottimo. A dimostrarlo vi sarebbero i due diplomi conseguiti, gli studi in criminologia e i permessi premio che, fino agli arresti per l’omicidio Moro, aveva sempre ottenuto. “Non ho la coscienza sporca – ha detto Granga – sarei fuggito durante i permessi premio se fossi stato colpevole di questo omicidio. Con Pugliese ho fatto tante stupidaggini ma le sue dichiarazioni non sono vere su di me, l’ho visto solo 2 volte dopo essere uscito dal carcere”.
E sull’incontro, avvenuto nel 2012, presso il carcere Mammagialla di Viterbo dove, secondo la testimonianza del collaboratore di giustizia, il detenuto Renato Pugliese parlò brevemente con il detenuto Simone Grenga? Pugliese, molto legato a Moro, aveva paura di subire la stessa sorte del mentore criinale e ha sempre sostenuto che quell’incontro avvenne all’interno del carcere dove Grenga faceva lo spesino. Secondo i collaboratori di giustizia sarebbe stato proprio Grenga a premere il grilletto e a fare fuori Moro, ecco perché Pugliese dichiara che in carcere “riuscimmo a vederci perché lui era lo spesino dell’altro braccio del carcere e ci incontrammo per salutarci. Grenga mi sorrise e ci abbracciammo. Gli feci: “Qui mi abbracci e fuori mi ammazzi?”. Lui mi disse: “No a te non ti farei mai niente“.
Tuttavia, Grenga ha negato di aver abbracciato Pugliese, né di aver parlato con lui, poiché, in quel momento, era presente un agente della polizia penitenziaria. “Non si poteva proprio”, questa è la tesi di Grenga che ha aggiunto, in una dichiarazione durata 40 minuti, di avere sempre avuto brutti rapporti con Ferdinando Ciarelli detto “Furt”, zio di sua moglie. E ancora: “Non ho mai visto né conosciuto Agostino Riccardo. Pradissitto, invece, l’ho conosciuto nel 2007 e l’ho incontrato nel 2008 dopo il carcere…poi vengo a sapere che si è sposato con la cugina di mia moglie, Valentina Ciarelli, ma non ho mai avuto rapporti con lui, anche perché non andavo d’accordo con Furt”.
E per quanto riguarda Moro? Grenga spiega di non aver mai conosciuto direttamente Massimiliano Moro: “Lo conoscevo di vista, invece conoscevo il fratello che gestiva la discoteca”.
A margine, nel corso del processo, il Pm Luigia Spinelli ha chiesto e ottenuto l’acquisizione di alcune intercettazioni in lingua rom già trascritte e tradotte nel processo Caronte che, oltre 10 anni fa, certificò l’alleanza dei clan Di Silvio e Ciarelli contro la malavita latinense: nell’ambito di questa guerra criminale, come noto, avvenne l’omicidio di Massimiliano Moro.
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