OMICIDIO MORO, LA FRATTURA NEL CLAN CIARELLI: “LA FAMIGLIA DI “FURT” RICATTAVA: O I SOLDI O CI PENTIAMO”

Al centro Carmine Ciarelli
Al centro Carmine Ciarelli (foto da profilo Facebook di qualche anno fa). Alla sua destra Ferdinando Ciarelli detto Macù e alla sua sinistra l'altro figlio Pasquale Ciarelli

Omicidio Moro: iniziate nel processo le testimonianze della difesa. E spuntano le rivelazioni sulla rottura nel clan Ciarelli

Si è svolta oggi, 12 settembre, a Latina, davanti alla Corte d’Assise presieduta dal Giudice Gian Luca Soana, una nuova udienza del processo in cui sono imputati, per l’omicidio di Massimiliano Moro con l’aggravante mafiosaFerdinando Ciarelli detto “Macù” (figlio del capo-famiglia Carmine detto Porchettone), Antoniogiorgio Ciarelli (fratello di Porchettone), Simone Grenga (legato al clan del Pantanaccio per aver sposato la figlia del numero tre del sodalizio, Luigi Ciarelli) e Ferdinando Di Silvio detto Pupetto, già condannato con sentenza passata in giudicato per reati aggravati dal 416 bis (processo Alba Pontina) e figlio del capo-famiglia Armando Di Silvio detto “Lallà”.

Nelle scorse udienze erano stati ascoltati tutti i testimoni citati dall’accusa, rappresentata in aula dalla Procura/DDA di Roma. A parlare anche i collaboratori di giustizia Agostino Riccardo, Renato Pugliese e Andrea Pradissitto, quest’ultimo già condannato per l’omicidio e reo confesso, ma soprattutto ex intraneo al clan Ciarelli avendo spostato la figlia di uno dei boss, Ferdinando Ciarelli detto “Furt”.

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Pradissitto aveva confermato la versione fornita anche da un altro collaboratore di giustizia, Renato Pugliese: a sparare materialmente contro “Massimo” Moro sarebbe stato Simone Grenga.

Come noto, l’omicidio Moro del 25 gennaio 2010 e quello seguente avvenuto il 26 gennaio dello stesso anno in cui fu ammazzato Fabio Buonamano detto “Bistecca” sono gli episodi centrali della cosiddetta guerra criminale pontina che videro scontrarsi due fazioni criminali: da una parte i clan rom uniti – Ciarelli e Di Silvio -, dall’altra la malavita non rom, ossia i gruppi di Moro, Nardone e Maricca. L’episodio che diede il là a una stagione di omicidi, gambizzazioni e violenze fu quello dell’attentato subito da Carmine Ciarelli detto Porchettone, presso il bar Sicuranza, nel quartiere roccaforte del clan Ciarelli “Pantanaccio.

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Quella che si presentava come una udienza abbastanza piana si è rivelato invece un esame piuttosto inaspettato dal punto di vista delle rilevazioni. Davanti alla Corte d’Assise, hanno iniziato a sfilare i testimoni della difesa composta dagli avvocati Montini, Nardecchia, Siviero e Farau.

Poco prima che iniziassero gli interrogatori, però, era previsto l’esame dei quattro imputati. In pochi però avrebbero saputo che, oltreché all’avvalersi della facoltà di non rispondere da parte di Grenga, Antoniogiorgio Ciarelli e “Pupetto” Di Silvio, vi sarebbe stata la volontà di rispondere alle domande da parte dell’imputato Ferdinando Ciarelli detto “Macù”, il quale, come figlio del boss Carmine Ciarelli, attinto dai colpi di arma da fuoco al bar Sicuranza nel quartiere “Pantanaccio”, è secondo l’accusa, il principale ispiratore dell’omicidio Moro. Al che, a cominciare ad interrogarlo, è stato il collegio difensivo, mente il Pm della DDA di Roma, Francesco Gualtieri, ha preferito esaminarlo successivamente.

“La mattina del 25 gennaio – ha spiega “Macù” video-collegato dal carcere – mi dissero che fu sparato mio padre e mi recai prima sul luogo dell’incidente e successivamente in ospedale. Vennero famigliari da tutta Italia, eravamo tantissimi, 600-700, e la Squadra Mobile presente sul luogo mi disse di invitare i famigliari ad andare via per ordine pubblico. Poi venne Moro e lui parlò solo con mio nonno, Antonio Ciarelli, e disse che avrebbe trovato i colpevoli“.

Il rampollo di casa Ciarelli ha dovuto spiegare un particolare che, per l’accusa, costituisce un grimaldello appuntito. Perché tenne spento il cellulare per un mese intero dalla data dell’omicidio Moro in poi? “Decisi di spegnere il telefono perché ero dispiaciuto e non volevo ricevere telefonate, neanche dal mio costruttore di fisarmoniche. Mi vergognavo a dover spiegare ai miei colleghi musicisti rispetto agli spari che aveva ricevuto mio padre. Dopo gli spari, io mi occupai solo di mia madre e dei miei fratelli, erano l’unico mio pensiero”.

“Andai al bar Sicuranza e chiesi al barista cosa fosse successo e mi disse che sembravano fuochi d’artificio ma erano gli spari a mio padre, Carmine Ciarelli, che andò in coma”. Macù nega che ci siano mai state riunioni per concepire la morte di chi aveva sparato all’indirizzo del padre Carmine Ciarelli. “Poi andai da mio nonno e piansi con mia madre. Quel giorno (nda: il 25 gennaio) dormii fino a mezzanotte, poi andai nella stanza da mio padre e sentii l’odore dei suoi vestiti, ancora mi vengono i brividi”.

E sull’ammazzamento di Moro: “Ho appreso dell’omicidio solo la mattina dopo leggendolo sul giornale locale. All’ospedale c’erano anche Romolo e Patatone, quelli me li ricordo bene. Patatone mi disse che lui aveva subito la stessa cosa sette anni prima (nda: l’autobomba che uccise al Lido di Latina il padre Ferdinando “Il Bello” Di Silvio), ma che mio padre Carmine era forte e ce l’avrebbe fatta”.

Macù nega con forza la riunione raccontata da Pradissitto dove era stato progetto l’assassinio: “Solo un diavolo può pensare di vendicarsi con un padre in quelle condizioni, ero preoccupato solo per mia madre I miei fratelli. Quando vidi Moro non pensai nulla. Non avevo confidenza con Moro, una volta venne a casa mia e ci davamo del Lei. E poi io non solo non so dove abitava ma non sono proprio mai passato in vita mia nel quartiere Q5. Sapevo solo che mio padre, Carmine Ciarelli, stava in affari con Moro”.

La sera dell’omicidio, Macù rivela che “volevo litigare con l’ispettore di Polizia che conoscevo bene perché tolse mia madre dal corpo di mio padre ferito, sbattendola per terra”.

Nessun cedimento da parte di Macù nei riguardi di Pradissitto: “Ho avuto sempre antipatia per lui, non c’era confidenza neanche quando sposò mia cugina (nda: Valentina Ciarelli, figlia di Ferdinando “Furt” Ciarelli). Moro e Pradissitto erano legati ma si sentiva dire che si frequentavano ed erano come padre e figlio. Dopo il primo annullamento della custodia cautelare del febbraio 2021 per l’omicidio – ha detto Macù – ad aprile 2021 fui scarcerato. In famiglia fummo contenti ma, dopo qualche giorno, sentii mio padre e non mi sembrava tranquillo“.

Macù fa riferimento a un fatto inedito. Ciò che è noto è che, tolta la prima indagine, successivamente archiviata, sul caso Moro (anni 2010-2012), DDA e Squadra Mobile di Latina, a distanza di 10 anni, procedettero ad altri arresti per l’omicidio avvenuto il 25 gennaio 2010. La prima ordinanza cautelare, emessa a febbraio 2021, coinvolgeva lo stesso Macù, Andrea Pradissitto (prima della sua collaborazione con lo Stato), Simone Grenga e Ferdinando “Furt” Ciarelli. A luglio dello stesso anno, però, una nuova ordinanza cautelare coinvolse gli stessi più Antoniogiorgio Ciarelli e “Pupetto” Di Silvio, tranne “Furt” e Pradissitto nel frattempo diventato collaboratore di giustizia. In un primo momento, rumors in realtà smentiti dagli organi competenti e dal figlio di “Furt” (il pregiudicato Roberto Ciarelli), avevano dato per collaboratori di giustizia sia il sunnominato “Furt” che Pradissitto. Oggi, in aula, a sentire sia Macù che la moglie di Grenga, Veronica Ciarelli, si ha la conferma che, dopo gli arresti di febbraio, qualcosa si è rotto nella famiglia Ciarelli. Vedremo perché.

“Mio padre (nda: Carmine Ciarelli) – ha sostenuto Macù – mi disse che “dopo tanti anni mi devono ricattare su mio figlio e dicono che i miei figli erano stati cacasotto a non vendicare il mio attentato”. Non ho capito bene a cosa si riferisse e quali lettere arrivavano a mio padre perché io nel 2021 non ero più interessato di Latina e mi occupavo solo della mia musica. Di certo c’era un ricatto nei confronti di mio padre”. Di che ricatto parla Macù, lo spiegherà successivamente la moglie di Grenga, Veronica Ciarelli, testimone oggi e figlia del numero tre del clan, il narcotrafficante Luigi Ciarelli.

“Mi mancano 4 esami per laurearmi in lettere e filosofia – ha aggiunto Macù – e ho fatto incontri parlando di legalità e stragi e ho insegnato musica ai bambini down. Io una persona l’ho uccisa: ho ucciso Ferdinando me steso ed è nato uno nuovo: ora la gente mi rispetta perché mi vuole bene e non più per paura. Al Pantanaccio, dopo gli spari a mio padre, venne pure l’esercito, c’era un massiccio controllo anche di fronte alle nostre abitazioni. Dal 2010 al 2014 sono stato in carcere. Per me Pradissitto non portava rispetto a mio padre che lo chiamava Carmine, ma mio padre disse di stare zitto e di portare rispetto a mio zio”.

Poi, interrogato dal Pm Gualtieri, Macù ha dovuto spiegare del perché aveva detto certe frasi rivolte al padre quando era ancora ricoverato all’ospedale. In una delle intercettazioni, l’imputato si riferisce a chi aveva sparato: “Loro non dormo più nel letto“. Al che Macù ha spiegato che quella frase, pur compromettente, avrebbe voluto solo tranquillizzare Carmine Ciarelli, il padre di cui lo stesso imputato ammette che ha avuto una vita criminale intensa e per tale ragione ricca di nemici.

Ad ogni modo, secondo Macu e Veronica Ciarelli, nessuno della famiglia si chiese della presenza di Moro all’ospedale “Santa Maria Goretti”, una volta che spararono a Carmine Ciarelli. E nessuno si domandò quale legame potesse avere l’omicidio con l’attentato di circa 12 ore prima.

E sulle possibili intenzioni di vendetta per gli spari a Carmine Ciarelli, Macù spiega che lo zio Furt “non sarebbe venuto da me perché sono contrario ai reati di sangue”. Lapidari i giudizi sui collaboratori di giustizia che lo indicano a capo del commando che uccise Moro: “Pasqualino Di Silvio (nda: figlio di Armando Di Silvio detto “Lallà”), che ha parlato con Renato Pugliese il quale ha riportato le accuse contor di me, è un tossico. Riccardo fa solo confusione. Pradissitto si è auto accusato scegliendo il male minore perché rischiava l’ergastolo. Mio padre mi disse che era stato colpito da un ragazzo che non sapeva nemmeno sparare: ha avuto una vita criminale e aveva molti nemici. E aveva paura che potesse succedere di nuovo”.

A testimoniare, dopo Macù, anche altri due personaggi noti del mondo criminale pontino: Costantino “Cha Cha” Di Silvio e Angelo Travali. Entrambi hanno negato di aver mai parlato dell’omicidio Moro. Per di più, Travali ha proprio negato di aver mai frequentato Moro e di averlo conosciuto a malapena: “Lo conoscevo di vista Moro. Mi venne contestato all’epoca un reato con lui. Riccardo, invece, lo conosco come il pagliaccio di Latina e non l’ho mai frequentato. Non avevo nulla a che fare con Moro e mai ho partecipato a riunioni in cui Moro diceva di voler uccidere gli zingari di Latina. Non ho mai raccontato niente a Riccardo di chi fossero gli assassini di Moro. Mi dispiace solo per quelli accusati in questo processo perché sono sicuramente innocenti: se l’hanno detto i collaboratori di giustizia, sicuramente lo sono, come lo sono io. Accusando ingiustamente me, lo avranno fatto anche con gli altri. Mi fecero pure l’esame stub all’epoca dell’omicidio Moro ed ero ai domiciliari”.

Ad essere ascoltati come testimoni anche due investigatori: un ispettore di Polizia e un Carabiniere il quale ha rivelato che, all’epoca dell’omicidio Moro, una fonte gli avrebbe spiegato che a togliere di mezzo Moro fu un altro soggetto, peraltro citato come testimone nel processo odierno: Raffaele Russo.

Al di là dei particolari più o meno destabilizzanti, è stata la testimonianza di Veronica Ciarelli a entrare nel dettaglio sui presunti ricatti subiti da Carmine Ciarelli, all’indomani degli arresti di febbraio 2021.

“La sera dell’omicidio Moro – ha spiegato Veronica Ciarelli – andammo a casa della mamma di Simone (nda: Grenga), poi lui tornò a casa nostra perché era sorvegliato speciale e doveva rincasare alle 22. Di Moro l’ho saputo dal telegiornale. Non abbiamo avuta nessuna idea sull’omicidio e del perché avevano sparato a mio zio Carmine Ciarelli. Ci siamo chiesti cosa stava succedendo, non sapevamo nulla. Neanche Simone (nda: Grenga) sapeva o aveva idee sugli spari a Carmine e sull’omicidio di Moro. La Squadra Mobile perquisì la casa dopo l’omicidio Moro, l’ispettore mi chiedeva dove stavano le pistole. Conoscevo Moro solo tramite i giornali, mente conosco Pradissitto perché è marito di mia cugina ma non è mai venuto a casa”.

La Ciarelli ha sostenuto che Pradissitto non è mai stato benvoluto a casa sua, tanto più che aveva dei vizi, come la droga, e chiedeva in continuazione soldi, anche se: “non poteva contravvenire alle direttive famigliari, ossia del suocero, mio zio Ferdinando “Furt“. Che significa?, chiede il collegio del Tribunale. “Significa che da noi non può fare una estorsione senza chiedere il permesso. Pradissitto, invece, ho saputo che commetteva reati e mia cugina mi diceva che era pentita a stare con lui che aveva problemi con la droga. Lui e mia cugina si lasciarono e solo poi sono tornati insieme”.

Inoltre, “mi raccontò un’amica in comune che Pradissitto aveva sposato Valentina Ciarelli, mia cugina, solo perché aveva debiti e per prestigio”.

Al momento, però, “Furt non ha più rapporti con i fratelli, ossia mio padre e mio zio“. Un aspetto che delinea la frattura interna al sempre unito clan Ciarelli e Veronica spiega anche il perché: “Chiedevano soldi alla nostra famiglia e dicevano che se non avessero avuto niente, si sarebbero pentiti sia Furt che Pradissitto. Eravamo ricattati da Roberto Ciarell che fu mandato per dircelo: o ci date i soldi o ci pentiamo. Noi non ci piegammo perché non avevamo nulla da nascondere”. La tesi di Veronica e più confusamente di Macù è che la famiglia di Furt Ciarelli, dopo gli arresti del febbraio 2021 in merito all’omicidio Moro, avrebbe ricattato gli altri rami dei Ciarelli – a partire da quello retto da Carmine detto Porchettone e da quello capeggiato da Luigi – per avere denaro in quanto se la passavano male, senza più neanche una casa nel frattempo confiscata. Senza il denaro, vi sarebbe stata la collaborazione con lo Stato e quindi le accuse e gli arresti.

“Ho saputo che Pradissitto collaborava – ha spiegato Veronica Ciarelli – prima che uscisse sui giornali. Quando ho saputo della collaborazione di Pradissitto chiamai la madre, con cui avevo un bel rapporto, e mi disse che non sapeva nulla, poi però ammise”.

Uno degli ultimi testimoni di giornata, per un’udienza durata circa 4 ore e mezza, è l’uomo che, nel 2010, insieme all’allora fidanzata, ora moglie, si trovava nell’appartamento di fianco a quello in cui fu freddato Massimiliano Moro. Un punto di vista quasi surreale, in mezzo alle trame di un clan ormai diviso.

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