Chioschi sul lungomare di Latina, la mancata costituzione di parte civile causa una gazzarra nel consiglio comunale
Che la vicenda dei chioschi sul lungomare di Latina, per cui il 10 dicembre c’è stato un rinvio a giudizio per 11 imputati, tra cui la famiglia Zof, fosse un fatto politico ancorché giudiziario sembrava cosa nota a tutti. Succede che, come per il processo “Purosangue”, che vede alla sbarra diversi componenti del clan Ciarelli, accusati di reati con metodo mafioso, il Comune di Latina scordi o ometta completamente di costituirsi parte civile.
L’ente l’avrebbe potuto fare solo in udienza preliminare a causa della Legge Cartabia che ha posto questo paletto: o lo fai in quella sede, o è troppo tardi anche nel momento in cui inizierà il processo ordinario a Latina fissato per il 9 aprile davanti al I collegio del Tribunale di Latina. Tra i rinviati a giudizio dal giudice per l’udienza preliminare ci sono Maurizio, Alessandro e Fabio Zof, vale a dire la famiglia che per decenni ha gestito il primo chiosco sul lungomare di Latina. Al centro delle indagini, le minacce per il predominio dei chioschi sul lungomare di Latina e alcuni episodi di estorsioni e spaccio di droga consumatisi a Latina.

A novembre, i pubblici ministeri della DDA di Roma, Luigia Spinelli e Francesco Gualtieri, avevano depositato, per dimostrare il metodo mafioso, le carte dell’indagine “Assedio”, in cui è emersa la cosca di Aprilia che ha portato alla caduta dell’amministrazione comunale e alle dimissioni del Sindaco Lanfranco Principi, finito ai domiciliari con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. I sostituti procuratori antimafia hanno depositato anche tutta una serie di intercettazioni poiché, secondo il quadro accusatorio ipotizzato, vi fu un problema tra il sodalizio apriliano di Patrizio Forniti e il cosiddetto clan Travali di Latina, in particolare con Alessandro Zof.
Tra le accuse rivolte dalla DDA a Principi c’è anche quella di aver brigato affinché l’amministrazione del sindaco Antonio Terra non si costituisse parte civile nel processo che contestava l’estorsione col metodo mafioso a Sergio Gangemi, Patrizio Forniti, Giampiero Gangemi e Mirko Morgani. Un elemento non di poco conto e che potrebbe far capire perché oggi, nell’aula consiliare di Latina, il sindaco di Latina, Matilde Celentano, e un po’ tutti nel suo entourage e nella maggioranza, hanno palesato un certo nervosismo. Addirittura il consigliere comunale di Fratelli d’Italia, Dino Iavarone, ha interrotto più volte il collega d’opposizione Damiano Coletta, dando in escandescenze e subendo anche più richiami dal Presidente del Consiglio Comunale, Raimondo Tiero, peraltro anche lui del suo stesso partito.
“Quell’udienza – ha detto Coletta – era l’ultima occasione per l’amministrazione di costituirsi parte civile. Non lo ha fatto, inspiegabilmente e irresponsabilmente. Ora non può più farlo. Da cittadini, chiediamo spiegazioni alla sindaca e a questa maggioranza per una scelta che riteniamo irriguardosa nei confronti di tutta la comunità che si rappresenta. Io le pretendo anche da ex sindaco, perché nel 2017, per una serie di rinunce sospette che arrivavano nell’assegnazione del primo chiosco, presentai un esposto contro ignoti in questura. La situazione era molto opaca e ci misi la faccia, come deve fare qualsiasi amministratore. Mi aspettavo una solidarietà politica trasversale, che arrivò invece solo dall’allora maggioranza mentre qualcuno minimizzò accusandomi di psicosi. Ora, a distanza di anni, abbiamo un’indagine e un processo su un’organizzazione criminale che forse aveva davvero messo occhi e mani sulle concessioni dei chioschi”.
“Riteniamo che questa scelta – conclude Coletta – deve essere spiegata, perché si amministra non solo per tagliare nastri ma per rappresentare l’intera comunità, i suoi cittadini, gli imprenditori sani, la magistratura. Costituirsi parte civile è impegno etico ma anche amministrativo, ha bisogno di una delibera di giunta e certo non si improvvisa. Voi dove eravate? Quando si combattono i clan e la criminalità bisogna metterci la faccia. Le spiegazioni che ci sono state fornite dalla sindaca non sono sufficienti. E non abbiamo sentito la parola scusa rivolta alla cittadinanza. Le cose interne le risolverà l’amministrazione, ma la sindaca è responsabile di questa negligenza grave. La dirigente dell’avvocatura è la segretaria generale e questa rappresenta una scelta e una responsabilità precisa. Ora si cercherà un capro espiatorio, ma il fatto resta ed è gravissimo”.
Celentano è intervenuta in aula, dopo le parole del consigliere comunale di minoranza, Damiano Coletta il quale, quando era sindaco, nel 2017, segnalò alla Questura di Latina il clima di intimidazioni intorno alle nuove gare predisposte per dare in gestioni le aree dei chioschi sul lungomare: “Oggi mi sento offeso come cittadino – ha spiegato il leader di LBC.
C’è da dire che Coletta e Latina Bene Comune indissero una conferenza stampa dopo gli arresti del 30 gennaio 2024 nei confronti di Zof e gli altri indagati eseguiti dalla Squadra Mobile. Il gruppo di opposizione annunciò che avrebbe chiesto all’amministrazione Celentano la costituzione di parte civile del Comune per la vicenda chioschi, oltreché a invocare spiegazioni in question time al vice sindaco Massimiliano Carnevale. Dopo l’annuncio, però, non seguirono atti pubblici presentati in Comune: né per chiedere la costituzione di parte civile, né per chiedere chiarezza a Carnevale rispetto a una frase intercettata dalla Polizia e pronunciata da Maurizio Zof sul suo conto (di seguito ci si tornerà). Un’opposizione timida (LBC ci ha provato, PD, M5S e il resto della minoranza manco quello), anche se la responsabilità unica è della Giunta Celentano che, se vuole costituirsi parte civile, deve riunirsi e deliberare l’atto così da incaricare uno dei cinque avvocati dell’Ente. Per quanto riguarda il segretario generale Alessandra Macrì, che ha la competenza per l’avvocatura, c’è un grande “non pervenuta”. A dire il vero, è probabile che nessuno dello staff del sindaco abbia ricordato a Celentano di provvedere alla costituzione di parte civile. In questi casi: tutti colpevoli, nessuno colpevole. È probabile che finisca così, a meno di sviluppi impensabili o di omissioni acclarate.
Ad ogni modo, il sindaco di Latina ha detto che farà una istruttoria per capire chi è il responsabile di quella che al momento può essere definita, senza possibilità di smentita, una svista grave e clamorosa (non era da meno quella per il processo “Purosangue”): “Anche io ho appreso dalla stampa di questa vicenda. Sono profondamente rammaricata e anche arrabbiata per quello che ho letto e ancora di più per quello che è accaduto, sopratutto perché questa amministrazione si è costituita parte civile in tutti i procedimenti in cui è parte interessata, oltre che parte lesa. Vi assicuro sin da ora che non è stata una scelta politica dell’amministrazione. Ho già dato disposizioni per accertare cosa sia accaduto, per quali ragioni non ci sia stata la costituzione di parte civile del Comune di Latina. Se saranno ravvisate responsabilità ed eventuali omissioni, l’amministrazione prenderà i provvedimenti conseguenti. Acquisite le dovute informazioni ed effettuati gli accertamenti, prendo l’impegno di riferire prontamente al Consiglio comunale”.

Prima e dopo l’intervento del Sindaco era stato il consigliere comunale Damiano Coletta a ribadire che il primo responsabile è l’amministrazione. È, infatti, la Giunta a doversi riunire per costituirsi parte civile. Peraltro è un atto che fa per molti processi, anche minori, come anche minuscole vicende giudiziarie di abusi edilizi che vi sono in città. Le dichiarazioni della Sindaca, però, assomigliano molto a un voler prendere le distanze da un caso che può diventare esplosivo, anche dal punto di vista giudiziario. Aprilia docet.
Senza contare che c’è un passaggio nell’inchiesta sui chioschi che non può che far drizzare le antenne a investigatori e politica. Emerge infatti uno spaccato di intimidazioni sui chioschi e, nell’ombra, una possibile copertura politica almeno all’epoca dell’amministrazione Di Giorgi/Maietta.
L’inchiesta dell’Antimafia ruota attorno all’aggiudicazione del primo chiosco sul lato B del lungomare di Latina. Indagando su questo episodio, emerge anche tutta la caratura di prepotenza della famiglia Zof, tanto che Alessandro Zof, affiliato al clan Travali (è imputato nel processo “Reset” per associazione mafiosa), il fratello Fabio Zof, il padre Maurizio Zof, e persino la moglie di quest’ultimo e madre dei due figli (solo indagata), si rendono protagonisti di più di un episodio di minacce nei confronti di chi aveva vinto la gara e si era aggiudicato la concessione del primo chiosco, per tutti a Latina conosciuto per anni come “Topo Beach”.
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Un primo chiosco che per la famiglia Zof doveva rimanere a loro uso e consumo: nessuno doveva permettersi di gestire quella postazione che per anni, praticamente da sempre, era stata nel loro controllo. Nell’aprile 2016, Alessandro Zof, detto “Il Topo”, lanciava strali all’indirizzo di chi avrebbe voluto mettere a gara la postazione. Zof, che all’epoca secondo gli inquirenti era intraneo al clan Travali, scriveva che “IL TOPO BEACH NN SE TOCCA…Era di mio nonno e dio mio padre e sarà mio e di mio fratello…IL MIO FUTURO LA MIA TRANQUILLITÀ È DATA DA TUTTO QUESTO ..SCOMBINATE STA CATENA E VI CREERÒ L INFERNO“. Parole minacciose per cui il 40enne rimedia la contestazione dell’aggravante mafiosa in quanto, secondo gli inquirenti, si fa forza del fatto di appartenere al clan retto dai fratelli Angelo e Salvatore Travali. Non è da meno il padre, Maurizio Zof, noto anche lui negli ambienti della destra giovanile illo tempore e conosciuto per i modi spicci. Insieme alla moglie, dopo che nel 2016 fu aggiudicato il primo chiosco a una società, disse alla titolare della stessa: “Non dovevate osare a partecipare a questo bando, questo chiosco è nostro perché siamo qui da 40 anni“. Minacce che per Zof senior valgono anche l’aggravante mafiosa. Eppure, Maurizio Zof era fuori di sé tanto da andare dal socio della titolare minacciata e profferire nei suoi riguardi insulti di stampo omofobico, dicendogli che se non avessero rinunciato al chiosco gi avrebbe mandato dei rumeni a rompergli gli ombrelloni.
Ma la famiglia Zof, a cui è contestata la turbata libertà degli incanti con l’aggravante mafiosa, non si limitava solo al primo chiosco. Sono due gli episodi circoscritti dalla Polizia di Latina: in uno di essi, Alessandro e il fratello più giovane Fabio si recano al quarto chiosco gestito da un privato e dopo aver chiesto a un dipendente, con fare minaccioso, informazioni sul titolare del chiosco stesso, buttarono sdegnosamente per terra un bicchiere di amaro contenuto in un bicchiere di plastica. Per inciso, il quarto chiosco era stato controllato per anni (insieme ad un’altra persona), prima del nuovo titolare, dal pregiudicato Gianluca Tuma, vicino al clan Travali e a Costantino “Cha Cha” Di Silvio (l’altro del boss del sodalizio dei Travali) con i quali è finito a giudizio nel processo “Don’t Touch”.
Destinatario di minacce anche il secondo chiosco, gestito dall’ex assessore provinciale in quota UDC, Giuseppe Pastore. Alessandro e Fabio Zof andarono nel settembre 2018 presso il chiosco “APPEAL” e spiegarono a un dipendente di dover portare a Pastore un messaggio eloquente. “Riferisci al tuo capo – disse Alessandro Zof – che sono uscito dal carcere e non può più fare come cazzo gli pare…qua comandiamo noi“. Peraltro, la società riconducibile a Pastore arrivò seconda nel bando di gara del 2016. Alla rinuncia della prima classificata avrebbe dovuto subentrare proprio la società di Pastore: il problema è che il Comune fece solo una richiesta formale e Pastore stesso, ascoltato dagli investigatori, spiegò che il non subentrare ai primi classificati gli andava comunque bene. L’ex politico aveva saputo delle minacce social di Alessandro Zof e non voleva problemi, avendone avuti in passato con la nota vicenda che vide uno dei suoi stabilimenti bruciati. Una circostanza che portò alla sbarra Gianluca Tuma, Costantino “Cha Cha” Di Silvio e l’attuale vice sindaco del Comune di Latina, Massimiliano Carnevale. Alla fine tra prescrizioni e assoluzioni, il processo si concluse in un nulla di fatto. Fatto sta che è lo stesso Pastore a notare, il 5 maggio 2021, che sul cartello stradale posto di fronte al suo secondo chiosco che ancora gestisce erano stati esplosi due colpi d’arma da fuoco. Ignoto l’autore del gesto, Pastore, ascoltato dagli inquirenti, rivelò che: “Ho cercato in tutti i modi di tenere la notizia nascosta per non fare allarmare i dipendenti ma purtroppo qualche voce è circolata tanto che qualcuno di loro mi ha detto di essere impaurito e perplesso…spero con tutto me stesso che non sia un avvertimento”. Un lato B del lungomare caldissimo, e non per il clima estivo: in sequenza, nel 2020, tre episodi degni di nota: a luglio 2020 l’incendio al furgone in sosta di Daniel Vinci; a settembre 2020, un incendio al quarto chiosco; sempre a settembre 2020, un altro incendio al quarto chiosco.
Ad ogni modo, tornando alla vicenda del primo chiosco, per la famiglia Zof il lungomare da Capoportiere a Rio Martino era “roba loro”. Tutti, secondo DDA e Squadra Mobile, dovevano essere assoggettati ai loro ordini: per 40 anni erano stati loro i gestori e così doveva essere per sempre. A spiegare ancora di più il quadro delle spiagge latinensi è il collaboratore di giustizia, Agostino Riccardo, ex affiliato proprio al clan Travali, di cui anche Alessandro Zof era parte integrante, nonché fornitore di droga, almeno secondo quanto ricostruito dagli inquirenti nell’inchiesta Reset.
“Io – ha spiegato nel marzo 2021 Agostino Riccardo agli inquirenti – parlavo con Alessandro che faceva parte del clan Travali e lui mi diceva che al padre non avrebbero mai tolto la gestione del chiosco, almeno fino a quando durava la vecchia gestione comunale facente capo a Di Giorgi e ai sindaci precedenti. Con l’elezione del sindaco Coletta, Zof non ha avuto più la gestione del chiosco. Maurizio Zof aveva un contatto con un politico che si chiamava Malvaso“. Si tratta di Vincenzo Malvaso, ex consigliere comunale di Forza Italia, il cui nipote, al momento, è assessore alle Attività Produttive nella Giunta Celentano. Entrambi, Malvaso e Antonio Cosentino (l’attuale assessore), sono completamente estranei all’indagine della DDA.
Tuttavia, Riccardo racconta che “più volte ho sentito io stesso parlare Maurizio Zof e Malvaso della gestione del chiosco e dei tempi di concessione. Questo è accaduto alcune volte in cui eravamo tutti al locale gestito da Zof vicino allo stadio (nda: si tratta de chiosco ormai chiuso alle spalle dello Stadio Francioni); il periodo era quello tre il 2013 e il 2015″.

E ancora: “Alessandro Zof diceva in giro che se fosse stato dato il chiosco in gestione a qualcun altro, lui dopo cinque minuti lo avrebbe bruciato…Non so quanto potesse rendere la gestione del chiosco, credo 25.000 o 30.000…in ogni caso era una zona di spaccio. Io so che Zof ha acquistato un appartamento a piano terra cn giardino dietro il centro commerciale Giotto. L’ha comprato con i soldi della droga insieme a Cornici (nda: Valeriu Cornici, imputato anche lui nel processo Reset)”.
Quello di essere bruciato è stato, purtroppo, un destino che, in realtà, ha investito il primo chiosco nel maggio 2023, andato in fiamme, dopo che era stato carbonizzato anche il quinto chiosco: le due vicende, però, non rientrano nella maniera più assoluta nell’inchiesta odierna. Per il pentito, però, quel chiosco doveva rimanere alla famiglia Zof in quanto luogo frequentato da pregiudicati: “Era una questione di prestigio del suo nome e punti di riferimento dei criminali di Latina anche per la gestione dello spaccio di droga”. C’è solo un aspetto da non sottovalutare, intercettati dopo gli incendi del maggio 2023, Maurizio Zof auspica che il Comune possa riaprire i bandi, sopratutto per il primo chiosco. Ecco perché parlando in carcere con il figlio recluso, Alessandro, il “Topo Bestia” spiega che avrebbe potuto prendere per il cravattino il vice-sindaco di Latina Massimiliano Carnevale (Lega): “Ora devo parlare con Carnevale che devo prendere per il cravattino. Lo devo pigliare per il cravattino e ci devo dire ce ci sono i chioschi mancanti, prima che mi metto ad allucca, perché adesso allucco…ci sono i chioschi mancanti, so arrivati sti quattro aguzzini, hanno bruciato non so che cazzo eh, hanno fatto questa contestazione, per favore fate, rifate i bandi per le piazzole mancanti…”.
Passano anni da quel 2016, tanto che chi aveva vinto, proprio per il clima che si era venuto a creare, aveva rinunciato a gestire quel primo chiosco. Per l’aggiudicataria “la famiglia” da lei sostituita era “mafiosa” e, complice anche qualche impedimento burocratico, era meglio girare alla larga dai guai. Si arriva al 2020 quando con il progetto Latinadamare il Comune voleva riscattare quella gara di anni prima andata male per la rinuncia degli affidatari e le minacce della famiglia Zof (“il progetto di Latinadamare – si legge nella nota del Comune – anche l’obiettivo di promuovere un’azione simbolica di rinascita e rivalsa dell’intera comunità”) che si spinsero anche in Comune – Maurizio Zof e la moglie – per insultare e intimidire chi aveva legittimamente vinto. I soci della società vincitrice, nel 2016, si allontanarono dalla sala del Comune di Latina per evitare problemi: “Era l’intero sistema che minava la mia serenità – ha spiegato agli inquirenti al titolare della società che si era aggiudicata otto anni fa il primo chiosco – sia il clima che si era creato a causa degli interessi della famiglia Zof, sia l’aspetto burocratico, sia l’assegnazione che ritengo di aver vinto per meritocrazia ma che non sono sicura che dopi sei anni lo avremmo rivinto per meritocrazia, in relazione agli interessi della famiglia Zof o gente come loro”. La titolare non ci teneva, come dice lei stessa, nonostante i solleciti del Comune e del suo commercialista a fare la parte di “Giovanna d’Arco”. E a farle paura era soprattutto Alessandro, arrestato per gli spari all’American Bar a San Felice Circeo, avvenuti nel marzo 2016 e dove furono gambizzati due uomini.
È proprio il commercialista a riferire agli inquirenti che in più occasioni il socio della titolare vincitrice e rinunciante nel 2016 era stato minacciato da uno dei figli di Zof su Facebook, insieme alle ragazze che avevano partecipato al bando. Lo stesso socio sarebbe stato aggredito verbalmente sotto casa da Maurizio Zof e in una occasione spintonato (circostanza poi smentita dallo stesso commercialista). Aggressioni verbali e minacce che sarebbero avvenute anche davanti al sindaco di allora, Damiano Coletta. Alla fine, secondo il racconto del commercialista, al socio della titolare sarebbe stato proposto dallo stesso Zof padre di vendergli il primo chiosco, una volta aggiudicato. Una proposta rispedita al mittente.

problemi, ça va sans dire, furono per il primo chiosco. Infatti, ai tre aggiudicatari provvisori, Maurizio e Alessandro Zof, secondo gli investigatori, fecero pervenire tramite terze persone messaggi di minacce: in sostanza, se avessero gestito il chiosco, avrebbero corso seri rischi, ritorsioni e anche incendi dolosi. Alla fine fu più di una società a rinunciare al primo chiosco (leggi link di seguito), poi definitivamente assegnato alla Seaside Music Young Impresa Sociale srl, non senza qualche timore esplicitato dalla madre dei titolari della società, intercettata al telefono dagli investigatori: “Perché lo sai che c’hanno paura Vale’, c’hanno paura che ‘sto chiosco lo sa no, tutte le intimidazioni che ha fatto dice magari ci dà fuoco, capito?”.
Ascoltati a sommarie informazioni tre dei rinuncianti spiegano agli investigatori di non avere ricevuto minacce, pur ammettendo di aver chiesto in Comune chiarimenti e sopratutto di conoscere la storia del primo chiosco: “Era gestito da persone poco raccomandabili”, oppure: “In passato era gestito da un mafioso di Latina che non avrebbe gradito una diversa gestione…sinceramente temevamo potessero bruciarci il chiosco”.
Una sorta di sudditanza psicologica evidenziata dagli inquirenti: gli stessi dichiaranti, intercettati, si auto-giudicarono come “omertosi”.
Una volta che nel 2021 fu aggiudicato il primo chiosco, Maurizio Zof si presenta al chiosco gesticolando. Un atteggiamento che mette in apprensione il figlio Alessandro Zof, già ristretto in carcere per l’operazione “Reset”: “Mi padre invece de ritirasse, continua a fa’ le braciate”. E per “braciate” si intende allusivamente agli incendi dolosi. Un timore, quello di Alessandro Zof, ben consapevole, da dietro le sbarre, di essere particolarmente attenzionato dalle forze dell’ordine in riferimento al primo chiosco.
Maurizio Zof, il cosiddetto “Topo Bestia”, non accettava l’idea di perdere il chiosco: monitorato dagli inquirenti, lo trovano in diverse circostanze di fronte al primo chiosco quando questo era in fase di costruzione: in una occasione, si presentò con una vanga alla ricerca del contatore Enel, per poi essere allontanato dai Carabinieri in servizio al Parco Fogliano. Anche quando il 9 settembre 2021, il chiosco viene inaugurato, il Topo Bestia si presenta rivendicando la proprietà di un cavo elettrico e chiedendo a un uomo legato ai titolari del chiosco la cifra di 5mila euro per il medesimo cavo elettrico. Senza contare che, più volte, davanti al primo chiosco, si sono palesati diversi amici dei fratelli Zof. Un clima di velata intimidazione e ostruzionismo.
A margine, una nota del centrodestra di Latina: “Come forze di maggioranza abbiamo appreso anche noi dalle cronache giornalistiche della mancata costituzione del Comune di Latina nel processo a carico di alcune persone rinviate a giudizio con le accuse di turbativa d’asta aggravata dall’utilizzo del metodo mafioso per esercitare pressioni su alcuni gestori dei chioschi che si trovano sul lato B della marina di Latina.
Sin da subito abbiamo chiesto e richiediamo chiarimenti circa questa vicenda ed esternato il nostro disappunto. Per questo sosteniamo e condividiamo con forza la posizione espressa dal sindaco Celentano che ha comunicato di aver subito disposto accertamenti urgenti per acquisire gli elementi utili alla comprensione di ciò che è avvenuto. Così come apprezziamo l’impegno del sindaco di relazionare al Consiglio comunale non appena acquisite le dovute informazioni.
Questa amministrazione, giova ricordarlo, sin dal suo insediamento ha operato molte costituzioni di parte civile nei procedimenti che riguardano gli interessi del comune e della comunità. Per questo rigettiamo con forza le affermazioni di taluni dei componenti delle opposizioni che hanno accusato la maggioranza, senza aver alcun elemento a disposizione, della mancata costituzione. Posizione, come sempre, strumentale, priva di fondamento e falsa, giacché la costituzione di parte civile era ed è un atto dovuto”.
Anche il Partito Democratico è intervenuto sulla vicenda che ha infiammato la giornata. “Excusatio non petita, accusatio manifesta”: queste parole sintetizzano la grave responsabilità politica dell’amministrazione guidata dalla Sindaca Celentano. Presentandosi in aula con dichiarazioni scritte, la Sindaca ha confermato la consapevolezza della maggioranza sulla mancata costituzione di parte civile nel procedimento penale presso la sezione antimafia di Roma.
Il tentativo del Presidente del Consiglio comunale di interrompere il dibattito dimostra l’incapacità di affrontare le proprie responsabilità politiche, mentre le reazioni scomposte di alcuni consiglieri di centrodestra evidenziano l’imbarazzo per una scelta tanto grave.
La responsabilità politica è evidente: la costituzione di parte civile richiede una delibera di giunta, e questa non è stata adottata. È una chiara dimostrazione della scarsa attenzione dell’amministrazione ai temi della legalità. Ricordiamo che gli incendi presso i chioschi, avvenuti già dall’insediamento di questa amministrazione, rappresentano un segnale d’allarme. La Sindaca aveva promesso di affrontare con decisione tali fenomeni, ma questa scelta di non costituirsi in giudizio dimostra il contrario. Non si tratta di una svista, ma di una precisa decisione politica. Su questi temi non accettiamo superficialità e approssimazioni.
Sennò si corre il rischio di sottovalutare se non direttamente evitare il contatto con le organizzazioni criminali presenti sul territorio. Come Gruppo consiliare del Partito Democratico, manterremo alta l’attenzione su questa vicenda. Confidiamo nel lavoro del Pubblico Ministero, certi che porterà avanti con determinazione la tutela della giustizia e del nostro territorio”.