CLAN CIARELLI, TESTIMONE RITRATTA TUTTO. PM: “È STATO CONTATTATO E INDOTTO A CAMBIARE VERSIONE”

Da destra Ferdinando Ciarelli, Carmine Ciarelli e Pasquale Ciarelli
Da destra Ferdinando Ciarelli, Carmine Ciarelli e Pasquale Ciarelli

Clan Ciarelli: sono riprese le testimonianze in Tribunale, ad essere ascoltati altre vittime del sodalizio di origine rom

Davanti al collegio presieduto dal Giudice Gian Luca Soana – a latere i giudici Velardi e Paolini -, è ripreso il processo che vede sul banco degli imputati quasi tutti i maggiori appartenenti del clan del Pantanaccio.

Il processo, come noto, è quello derivante dall’operazione “Puro Sangue” della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma e della Squadra Mobile di Latina finalizzata a giugno 2022, che contesta al clan Ciarelli (e ad altri soggetti slegati dal sodalizio rom o comunque membri di altre congreghe mafiose) reati aggravati dall’associazione mafiosa. Sul banco degli imputati, ci sono personaggi di rilevante caratura criminale come Carmine Ciarelli detto “Porchettone” e suo fratello Ferdinando Ciarelli detto “Furt”. Tra i reati più rilevanti varie vicende di estorsione, violenza privata, danneggiamento, usura. Dieci in tutto gli episodi estorsivi raccolti dagli investigatori e finiti nel processo.

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Nel processo con rito ordinario, alla sbarra ci sono dieci degli arrestati, inclusi Carmine e Ferdinando “Furt” Ciarelli. Gli altri sono Manuel Agresti, Matteo Ciaravino, Antoniogiorgio Ciarelli, Ferdinando “Furt” Ciarelli, il 25enne Ferdinando Ciarelli, Ferdinando Ciarelli detto “Macu”, Pasquale Ciarelli e Rosaria Di Silvio. Macu e Antoniogiorgio Ciarelli sono imputati anche nel processo che contesta l’omicidio mafioso di Massimiliano Moro.

I dieci imputati del processo odierno sono difesi dagli avvocati Montini, Carradori, Vittori, Vasaturo, Farau, Nardecchia, Coronella e Palmiero.

Oggi, 26 settembre, a sostenere l’accusa era presente il Pubblico Ministero della Procura/Direzione Distrettuale Antimafia Luigia Spinelli che ha interrogato la madre di Paolo Dalla Libera, personaggio noto alle cronache giudiziarie per indagini su droga e truffe.

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La donna è stata interrogata in quanto, a giugno 2020, di fronte casa sua, tra Borgo Santa Maria e Borgo Sabotino, qualcuno sparò dei colpi d’arma da fuoco. Secondo gli inquirenti si è trattato di una vera e propria ritorsione messa in pratica da Manuel Agresti, imputato nel processo odierno. Gli investigatori, valorizzando anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Andrea Pradissitto, ex affiliato al clan di orgine nomade, poiché marito della figlia del boss Ferdinando Ciarelli detto “Furt”, ritengono che si tratti di una minaccia di fuoco derivante da una denuncia per estorsione che Dalla Libera aveva presentato anni prima, nel 2008, nei confronti di Agresti stesso, dell’attuale collaboratore di giustizia Renato Pugliese, di Paolo Peruzzi e del medesimo Pradissitto.

La donna ha confermato di avere sentito degli spari nella notte e, il giorno dopo, accompagnata dalla figlia, andò a denunciare tutto alle forze dell’ordine. Fuori dall’ingresso, la testimone aveva trovato bossoli e calcinacci caduti. “Mio figlio Paolo aveva avuto problemi con la droga…quando avevamo l’attività mi dicevano che qualcuno avanzava dei soldi perché lui prometteva senza potere dare nulla in cambio. Il negozio fu dato a fuoco e sia io che i miei figli abbiamo chiuso con lui per via dei suoi comportamenti e per le brutte compagnie”. Al che l’avvocato delle difesa, Simone Vittori, ha chiesto alla donna riguardo ad alcune diatribe in ambito famigliare rispetto all’eredità, puntando sul fatto che il fratello della donna e un nipote sono cacciatori (quindi, la tesi difensiva sottesa è che quegli spari possano provenire da chi possiede armi in casa). Una circostanza, quella dei parenti cacciatori, confermata dalla donna, sebbene la stessa non abbia potuto indicare chi fossero gli effettivi responsabili dei colpi di pistola all’indirizzo di casa sua.

Totalmente refrattaria, invece, la testimonianza di Massimiliano Tartaglia, recentemente arrestato e condannato per un giro di spaccio di droga al Nicolosi e interrogato in video collegamento dal carcere. Mai ha avuto minacce dai Ciarelli – ha sostenuto oggi – né sa di quali affari si occupino. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, il 40enne di Latina sarebbe stato raggiunto da Pasquale Ciarelli, imputato e figlio del boss Carmine detto “Porchettone”, il quale gli chiedeva soldi per via di un debito di una terza persona: Gianni Izzo. “Venne sotto casa mia Pasquale Ciarelli – ha confermato Tartaglia – ma non ho ricevuto minaccia. Dissi che non dovevo nulla, poi se ne andò e io salii sopra casa“. Eppure, a verbale, gli fa notare il Pm Lugia Spinelli, aveva detto che se i Ciarelli “vogliono i soldi ti mettono sotto”. Tuttavia, era una frase pronunciata “per sentito dire” e al massimo se proprio l’ha dichiarata lo avrebbe fatto perché “avevo il cervello bruciato dalla droga”.

Ma la testimonianza che più ha evidenziato di quanto il clan Ciarelli, presente con alcuni famigliari in aula, possa incutere ancora un certo timore è quella fornita da un 43enne di Latina, un tempo gestore con la famiglia di un noto negozio di cornici in Via Milazzo. L’uomo, sostanzialmente, ha ribaltato la sua testimonianza, asserendo che all’epoca delle dichiarazioni rese davanti alla Squadra Mobile e alla Direzione Distrettuale Antimafia – ossia nel 2021 -, si era sentito pressato in quanto temeva di essere accusato da chi lo interrogava di falsa testimonianza o favoreggiamento.

Tre gli episodi che hanno visto l’uomo vittima del clan Ciarelli e persino del clan Di Silvio, quello del ramo capeggiato da Armando Di Silvio detto “Lallà”. Eppure, oggi, 26 settembre, dalla sua testimonianza tutto sembra superato, fino a raggiungere paradossi grotteschi nel rendere le sue dichiarazioni davanti a una Corte d’Assise.

Tanto per cominciare, nell’aprile 2020, riceve un messaggio, via Facebook, da “Porchettone” Ciarelli (tramite il profilo che ha dato il nome all’operazione di polizia: “Puro Sangue), in cui il capo famiglia gli chiede 1000 euro: “Sto ai domiciliari, ho 3 milioni di euro e nessuno li va a prendere, ora mi servono 1000 euro e se puoi darmeli tramite postepay”. Al che il 43enne, oggi testimone, non risponde e chiede consiglio su come debba comportarsi a un poliziotto – che gli disse che se vi fossero state altre pretese avrebbe dovuto tenerlo informato -, e a Riccardo Mingozzi, all’epoca affilato al Clan Di Silvio (quello del ramo di Giuseppe Di Silvio detto “Romolo”), in quanto compagno di una donna del sodalizio rom. Lo stesso Mingozzi gli avrebbe detto di stare tranquillo perché Carmine Ciarelli stava chiedendo a “mezza Latina” i soldi per campare.

La testimonianza del 43enne è nervosa, sconnessa, a tratti anche surreale. L’accusa gli chiede conto di quando, nel 2003-2004, dovette pagare dei soldi persi al tavolo da poker. “All’epoca ero fuori di me per via dell’improvvisa morte di mio padre e giocavo a carte scommettendo soldi. Giocai anche con Pasquale e Ferdinando “Macù” Ciarelli e ho perso. Giocavamo a casa di Pasquale di fronte al Pontesilli. Persi 20mila euro con Pasquale e gli diedi un’Audi A3 e persi con Ferdinando30mila euro“. Però, a differenza di quanto ricostruito dall’accusa che ipotizza due estorsioni in seguito alle partite a carte, il testimone dice che “non fui mai minacciato da Pasquale Ciarelli”. Anzi, “fui proprio io a contattarlo per darli l’auto“.

E perché, allora, a verbale, nel 2021, disse che Pasquale Ciarelli lo aveva minacciato con la pistola? Alla domanda del Pm, l’uomo racconta una storia che non convince la Corte d’Assise: “Pasquale era solo un tipo esuberante e una volta, mentre si muoveva, sembrava come se avesse una pistola, ma non credo di aver visto la pistola, fu una mia interpretazione“. Non conta che, interrogato, il testimone aveva detto che “Pasquale era aggressivo e cattivo e che i Ciarelli ti picchiano e ti sparano”, ora è tutto diverso. “Con me – dice in aula – non è mai stato aggressivo“. E la frase di Ferdinando Ciarelli detto “Macù”, una volta che ricevette i 30mila euro frutto della partita a poker? Anche questa il 43enne la spiega con un placido, ma nervoso, “era una battuta, me lo avete chiesto già due volte“.

E allora, incalza il Pm, perché a verbale ha riferito che i Ciarelli ti sparano? “L’ho letto sui giornali, dottoressa“.

Ancora meno convincente per la Corte d’Assise e, soprattutto per il Pubblico Ministero, un altro episodio chiesto al testimone. Dieci anni dopo, nel 2013, il 43enne fu minacciato dai Di Silvio di “Lallà”. Prima ammette che fu Samuele Di Silvio a puntargli una pistola sulla fronte, chiedendogli 20mila euro, poi, però, dichiara che il fratello, Gianluca Di Silvio, lo ricorda presente all’incontro ma solo come un ragazzino. E Matteo Ciaravino, imputato odierno, il quale, secondo l’accusa, avrebbe detto, nel corso di quell’incontro, di desiderare di afferrare la pistola di Samuele Di Silvio e volere sparargli contro? “Mai visto in vita mia, non so nemmeno chi è. C’era una terza persona ma non ricordo chi era: aveva un occhio strano”. Anche quando glielo mostrano in aula, video collegato dal carcere, Ciaravino per il testimone non esiste: mai visto né sentito.

Dunque, per ricapitolare sull’episodio. Dei tre che lo minacciarono nel 2013: Ciaravino, imputato nel processo odierno, non l’ha mai visto; Gianluca Di Silvio, imputato per questo episodio davanti al Tribunale dei minori (all’epoca non aveva 18 anni e quindi viene processo per questi fatti non nel tribunale ordinario), era solo un ragazzino; l’unica ammissione è su Samuele Di Silvio. È Samuele ad avergli puntato una pistola dritto contro la fronte, solo che, sarà una coincidenza, il figlio di “Lallà”, condannato in vita per associazione mafiosa, è morto in un carcere siciliano il 15 febbraio 2022. L’unico colpevole della minaccia è morto.

E il testimone, quasi perdendo la pazienza, nega di anche di aver detto che un debito con Carmine Ciarelli significa averlo con tutti i figli perché fanno “causa comune”. Al che, il Presidente del collegio, Gian Luca Soana, gli spiega che delle due l’una, alla luce della ritrattazione pressoché totale su quanto dichiarato a verbale: o ha reso falsa testimonianza, oppure il poliziotto che ha scritto il verbale ha scritto il falso.

È il Pm Spinelli a intervenire successivamente e esplicitare, dopo ad aver chiesto al 43enne se fosse stato contattato da qualcuno prima di rendere testimonianza, che il il testimone – ci sono ragionevoli motivi per pensarlo, sostiene – è stato contattato e indotto a modificare la sua versione. Ecco perché chiede che sia sentito di nuovo l’ex capo della Squadra Mobile di Latina Giuseppe Pontecorvo, per riferire delle sommarie informazioni di segno opposto rese dal testimone nel 2021, oltreché all’acquisizione agli atti delle dichiarazioni del testimone in vista di una possibile imputazione per falsa testimonianza. Una proposta a cui il collegio difensivo si è opposto; in particolare, l’avvocato Vasaturo, che difende Ciaravino, ha sostenuto che il testimone non riconosce e non può riconoscere il suo assistito perché, nel 2013, quando si consumò la minaccia con la pistola da parte di Samuele Di Silvio, lo stesso era detenuto.

Il collegio della Corte d’Assise, dopo essersi ritirato per decidere, ha respinto la richiesta di una nuova testimonianza da parte dell’ex Capo della Squadra Mobile e si è riservato sull’acquisizione delle dichiarazioni del testimone.

Dopo un punto sicuramente cruciale dell’udienza, il processo è proseguito con altre due testimonianze: una da parte di un titolare di un autosalone e rivendita vetture e scooter a Pontina; l’altra da parte di un ex poliziotto della Questura di Latina.

Il primo testimone ha confermato quanto prospettato dall’accusa: fu minacciato e estorto da Pasquale Ciarelli che gli aveva venduto un T-Max. Costretto a ritirare soldi e a darli al figlio di Carmine Ciarelli, si sentì dire prima che “Sai chi sono io e a che famiglia appartengo”. Il testimone ha ammesso che “sì, ho avuto paura”.

L’ex poliziotto, invece, ha relazionato, seppur non proprio linearmente, su un’estorsione subita da un suo conoscente, che dovrà essere ascoltato nelle prossime udienze. “Lo accompagnai in Questura per denunciare ma non lo fece. Lui non vuole proprio più parlare di quell’episodio, era terrorizzato”.

Il processo riprenderà tra un mese, il 27 ottobre, con altri testimoni, quasi tutti vittime di estorsione da parte del clan rom.

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