Questo articolo è uno stralcio dell’inchiesta/reportage “Bastarda Pontina” pubblicata su Latina Tu e divisa in tre parti: prima parte – seconda parte – terza parte. Il presente articolo è stato estrapolato, nello specifico, dalla seconda parte di “Bastarda Pontina”.
Pare che l’unica cosa che i balordi di Campo Boario invidiassero agli immigrati era di avere la migliore tecnica di occultamento della cocaina nelle fasi del trasporto: “bisogna ingerirla a grandi quantità, come fanno i negri” dicevano.
Samuele Di Silvio, forse il più agguerrito dei figli di Lallà, protagonista di seconda fila della guerra criminale del 2010, rispettato dall’altra ala dei Di Silvio, e in linea con i curriculum criminali dei suoi parenti dalla pubertà in poi (fu lui nel 2014 a brutalizzare con una mazza da baseball, insieme ad altri compari, la testa di un ragazzo albanese che con coraggio denunciò l’accaduto) e suo fratello “Pupetto” Di Silvio, colui che si vantava della sua caratura criminale con un estorto di un esercizio di ristorazione di Monticchio (Sermoneta) nell’estorsione madre da cui prende spunto Alba Pontina, avevano imposto la primazia anche su altre zone di spaccio della città oltre al quartier generale di Via Muzio Scevola.
Al Nicolosi, il quartiere popolare di Latina, dove passa la storia della città pontina, c’erano loro a gestire la compravendita, nascondendosi dietro lo spaccio maghrebino che finiva sui giornali, scatenando le ire dei cittadini che inveivano contro migranti e barconi, portatori di crimine e droga. In Via Corridoni, dentro il Nicolosi, c’era (c’è) il centro dello spaccio del quartiere. A condurlo, prima che Don’t Touch mettesse fuori gioco il gruppo dei Travali, Valentina Travali, sorellastra di Angelo e Salvatore, che disponeva di diversi spacciatori nordafricani.
Dopo gli arresti di Don’t Touch, i Di Silvio di Via Muzio Scevola imposero alla Travali e ai nordafricani di acquistare la droga da loro, in modo da colonizzare il quartiere Nicolosi e la zona delle autolinee adiacente.
Samuele Di Silvio convinse un gruppo di nordafricani a rifornirsi da lui, non prima di averli minacciati e messi a tacere perché con l’hascisc inquinavano il mercato dei Di Silvio.
Il convivente di Valentina Travali, indagato in Alba Pontina, acquistava dai 50 ai 70 grammi di cocaina per volta. 70 euro al grammo.
Nelle dichiarazioni fornite dal collaboratore di giustizia, Renato Pugliese, si evince che al Nicolosi gira anche l’eroina, ma non sa chi la passi agli spacciatori nordafricani i quali, probabilmente, hanno un canale di approvvigionamento diverso dai balordi di Campo Boario.
Prima che i Di Silvio mettessero piede nello spaccio del Nicolosi, una zona ormai tristemente nota per questo tipo di traffici, Pupetto Di Silvio, uscito di galera, si recò da un certo Joseph, un nordafricano domiciliato a Latina, e gestore dello spaccio di hascisc al Nicolosi, dicendogli che doveva acquistare da lui: 5 o 10 kg a volta, ogni 15 giorni, che poi venivano suddivisi (mezzo kg a testa) per i vari spacciatori del Nicolosi.
Gli indagati dell’area Nicolosi, nell’ambito di Alba Pontina, sono Valentina Travali, Mohammed Jandoubi (operante pure nella zona di Piazza del Quadrato), Hacene Ounissi detto Hassan e Tiziano Cesari.
Come i rumeni – Lallà Di Silvio, in una intercettazione di Alba Pontina, in merito a un problema intervenuto, esclama “famo costituì due rumeni” -, utilizzati più volte dai clan rom per attività criminali, anche gli immigrati del Maghreb vengono sfruttati per la manovalanza.
Il pericolo, in molti casi, è che la parte più debole ed emarginata della società, fatta per lo più di immigrati che difficilmente realizzano il proprio inserimento in un territorio che offre poco dal punto di vista lavorativo e produttivo, finiscano in questi circoli di illegalità in cui, spesso, diventano solo schermo da cronaca nera per i veri interessi malavitosi di clan strutturati come, ad esempio, i Di Silvio o i Travali (che finirono coinvolti anni fa nell’omicidio di un uomo di nazionalità rumena a Borgo Sabotino, Nicolas Adrian Giuroiu).
Alieno dalle ansie razziste che non hanno nulla a che fare con il seguente ragionamento, e con i dovuti distinguo (esistono tantissimi cittadini stranieri che vivono e lavorano onestamente), le comunità di nazionalità diverse da quella italiana, se ghettizzate o comunque indotte a vivere negli stessi ambienti, tendono a formare piccole banlieu (a Sezze, purtroppo, proprio per questo ammassamento in un’unica zona, esistono problemi di ordine pubblico provocati da uomini di nazionalità rumena) o bande del crimine (lo hanno fatto anche gruppi di italiani dal primo Novecento in poi, in America, Australia ecc.).
Due casi degni di nota
1) Alcuni racket come quello delle rapine alle slot machine negli esercizi commerciali sono ormai appannaggio delle bande di rumeni o, comunque, di affiliati dei clan rom. Quando, a maggio 2018, arrestarono per spaccio l’avvocato Ugo Pernigotti a Latina, che ha interessi nella zona Pub dove gestisce un locale, trovarono nell’abitazione droga da vendere e, nella sua cantina, apparecchiature per ostacolare le frequenze mobili o gli anti-furti, stecche di sigarette, chili e chili di monete da 1 e 2 Euro, senza dubbio provento dei succitati racket (le stecche di sigarette furono rubate dopo che erano stati messi i sigilli alla cantina dalla magistratura). È impensabile che l’avvocato si adoperasse da solo con quella “santabarbara”, tenuto conto inoltre delle sue frequentazioni con appartenenti ai clan zingari (esibiti pubblicamente sui social) e cittadini di nazionalità rumena. Qui, a differenza degli altri casi già menzionati, non è lo straniero ad essere sfruttato ma, persino, un individuo proveniente dalla classe media che, in un ribaltamento di contesto, diviene lo sfruttato. A quanto risulta fino a oggi, l’avvocato non ha spiegato da dove provenissero gli “ammennicoli” trovati nella sua cantina.
2) L’omicidio efferato di un rumeno aggredito da altri rumeni, nel settembre del 2016, al Felix, la celeberrima discoteca del Piccarello, alla porta sud-est di Latina, tutto aveva tranne che i tratti di una causalità violenta (per cui, a settembre 2018, sono stati condannati in primo grado i due autori). La dinamica dell’omicidio e la violenza della ritorsione suggeriscono un’azione che può avvenire solo in ambienti dove è connaturato il crimine che, a sua volta, può essere utilizzato da consorterie radicate e smaliziate che agiscono da diverso tempo nel territorio.
Scorpioni sulla schiena delle rane
Nel 2017, vi furono alcuni rumor latinensi che indicavano la volontà dell’amministrazione Coletta di utilizzare il campo sportivo del fu As Campoboario, in Via Coriolano, come centro di accoglienza per migranti. Non è dato sapere quale sarà la destinazione di quella struttura sportiva dove i Di Silvio continuavano a mettere i cavalli, anche dopo che era tornata a disposizione dell’ente comunale grazie ai provvedimenti dell’operazione Don’t Touch. Per anni, con la complicità colpevole della politica latinense (i partiti di centro-destra su tutti, poiché classe dirigente al potere), la società sportiva fondata da Tuma e Cha Cha ha operato lì senza neanche avere un contratto di concessione, con utenze e manutenzione in carico al Comune di Latina, talvolta persino pretesa come nell’episodio evidenziato dall’inchiesta Olimpia in cui Cha Cha pressava il funzionario comunale Nicola Deodato per una caldaia da cambiare.
È ovvio, però, che pensare di stabilire lì dei migranti sarebbe una grave cantonata, non in ragione di proteste alimentate dalla propaganda in voga, ma perché costituirebbe un errore di calcolo sociale: come mettere degli agnelli nella bocca di un leone. Con il rischio di trasformare Campo Boario in una novella e piccola Castelvolturno, la località campana dove, nel 2008, i Casalesi sfruttavano gli spacciatori nigeriani che, dopo aver minacciato di mettersi in proprio, furono sterminati in una delle più violente stragi ad opera del boss sanguinario Giuseppe “O Pazz” Setola (ad oggi, ridimensionata la potenza di fuoco casalese, la mafia nigeriana è riuscita a occupare la stessa zona).
Faraoni come schiavi del crimine
Per comprendere quanto queste dinamiche sono radicate nel nostro territorio, è di aiuto la storia di due egiziani, uno dei quali titolare di uno degli autolavaggi gestiti dai medesimi egiziani a Latina (più di una decina), che sono stati utilizzati da un malavitoso di Nettuno per un attentato alla Guardia di Finanza della città del baseball.
Come è emerso dalle indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Velletri, l’incendio fu commissionato da un noto pregiudicato, Pasquale Iovinella, come ritorsione per l’arresto effettuato nei suoi confronti dai militari della Compagnia di Nettuno il 13 settembre 2017.
Iovinella, con la collaborazione di una guardia giurata, commissionò, per poche centinaia di euro, l’atto intimidatorio ai due cittadini egiziani (uno dei due è minorenne) i quali danneggiarono un’autovettura di servizio della Compagnia di Nettuno, data alle fiamme proprio nel parcheggio antistante la caserma, in Piazza Mazzini (al centro di Nettuno). Il fuoco fu appiccato dal minorenne, residente, all’epoca dei fatti, presso una casa famiglia della provincia pontina.
Iovinella non è uno qualunque. Nel mese di marzo del 2018 è stato di nuovo arrestato dal Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Roma nell’ambito dell’operazione “Gallardo”, quale componente di un’associazione a delinquere dedita al traffico di sostanze stupefacenti, operante nel quartiere San Basilio di Roma e nella città di Nettuno, e diretta dai figli di un boss storico del clan camorristico dei Licciardi (i fratelli Salvatore e Genny Esposito, figli di Luigi detto ‘Nacchella’), reucci del Rione Berlingieri (Napoli), componenti dell’Alleanza di Secondigliano insieme alla famiglia Mallardo di Giugliano in Campania e in grado di gestire i flussi di droga direttamente con i narcos messicani.
Nell’operazione condotta dalla DDA di Roma, è stata individuata un’altra cosca, parimenti armata e dedita al narcotraffico, che lavorava in stretta sinergia con gli Esposito, e con a capo Vincenzo Polito, che si avvaleva della collaborazione di esponenti dei clan di ‘ndrangheta della provincia di Reggio Calabria, le famiglie Filippone e Gallico.
L’approfondimento conoscitivo di questo tipo di legami tra clan radicati e consorterie derivanti da comunità di un’unica nazionalità è, sicuramente, la nuova sfida di tutti coloro che hanno a cuore la lotta al crimine organizzato.