PIAZZA CRAXI IN PROVINCIA PONTINA, COSA ABBIAMO FATTO DI MALE?

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Craxi a Bassiano

Chissà cosa direbbe Giacomo Matteotti se sapesse che nella piazza a lui dedicata in un Comune della provincia pontina oggi, 26 ottobre 2018, si è celebrato l’evento che ha visto l’intitolazione di una piazza a Bettino Craxi. Un’opera, si legge nella locandina, “finanziata dalla Regione Lazio 1995-2000” in onore dello “Statista italiano” che non è il titolo di un nuovo gioco da tavola ma è proprio rivolto al fu leader del PSI.

Il Comune è Bassiano, il promotore è il sindaco Guidi, e Piazza Craxi, da oggi pomeriggio, si trova vicino alla piazza intitolata al socialista antifascista ucciso per aver denunciato i brogli elettorali e le malefatte del fascismo nel 1924. Da socialista a socialista, tutto sommato, il passo è breve, al netto di dolorose coliti che colgono chi riesce ancora a distinguere tra un uomo che ha visto finire la sua vita per le sue denunce pubbliche, e un altro che, invece di pagare i suoi sbagli, si prenotò per sempre un delizioso pied-à-terre lontano dalle patrie galere.

A un primo sguardo e a leggere le dichiarazioni del sindaco Domenico Guidi di Bassiano pare di trovarci in un altro emisfero, quello dove la memoria, quella sì, è martire sull’altare del relativismo storico.

domenico guidi
Domenico Guidi

Dice Guidi che Craxi “è stato anche, molto semplicemente, un uomo. E il Psi un partito…” , e su questo non ci piove, dal momento che nessuno nell’agro pontino ha mai pensato che fosse stato un cavallo, e il PSI una bocciofila dopolavoristica. “Bassiano è socialista da sempre e l’intitolazione a Bettino Craxi – ha ribadito Guidi – è una forma di rispetto verso una personalità che ha dato tanto al Paese, una persona di spessore politico”, elencando presunti meriti sull’immigrazione di colui che veniva definito dalla satira il Cinghialone e che in politica estera, nonostante si faccia passare da politico decisionista, aperto e forte, ha fatto tanti danni che un Angelino Alfano, di questo passo, rischierà di vedersi intitolata, in futuro, una piazza al centro di Roma.

Forse i pensosi dialoganti di oggi pomeriggio che hanno discettato del verbo socialista non ricorderanno che gli emissari politici di Craxi – dalla Boniver a Pillitteri passando per Francesco Forte – all’epoca del garofano rosso facevano la spola con la Somalia per conto del Governo italiano a guida Bettino, riempiendo di denaro il dittatore criminale Siad Barre, uno che la storia la scriveva a colpi di carne al sangue. 310 miliardi di lire con la cooperazione italiana, in pancia a uno dei peggiori governanti africani del Novecento.

Ma la “cooperazione internazionale” del craxismo non si fermò solo ai generali africani dal mitra facile. Durante la crisi tra Gran Bretagna e Argentina, dopo il conflitto delle isole Falkland/Malvinas (1982), il Nostro decise di stare dalla parte dei generali della dittatura argentina, proprio quelli che sterminavano gli oppositori lanciando loro dagli aerei quando andava bene, o facendoli proprio sparire, desaparecidos per l’appunto.

L’acume per le politiche estere di Craxi continuò con altre perle preziosissime che, a ripensarci Alfanobene, Alfano rischia di somigliare a De Gasperi ed Einaudi messi insieme. Tra l’appoggio dei servizi segreti a Ben Ali per il colpo di Stato in Tunisia e il capolavoro di aver ospitato Arafat con la pistola nel cinturone nel Parlamento italiano, c’è la gemma più lucente: l’affaire Sigonella.

Nonostante sia narrata spesso dai tifosi di Bettino come simbolo del carisma del Cinghialone, in realtà la storia è un po’ più complessa. La vicenda è nota: la nave da crociera italiana “Achille Lauro” fu sequestrata nel Mediterraneo, in acque egiziane, da un commando di terroristi facenti capo all’OLP, nello specifico dalla frangia estrema (o gruppo paramilitare) “Fronte Per la Liberazione della Palestina” di Abu Abbas. A sequestro avvenuto, vi fu una trattativa con la mediazione del presidente egiziano Mubarak (sì proprio lui, quello che venne utilizzato da Berlusconi e dal Parlamento, anni dopo, per coprire le cene “eleganti” con una prostituta minorenne), che convinse i terroristi a riconsegnare la nave e gli ostaggi in cambio della impunità per il loro capo, cioè Abu Abbas, il quale si era spacciato come mediatore ma, in realtà, era il capo della banda. Una banda che aveva ucciso, in quei giorni drammatici del sequestro, un americano paralizzato, ottuagenario e costretto sulla sedia a rotelle, Leon Klingoffer, preso e gettato in mare lasciando, ricordano le cronache, una bava di sangue sulla chiglia dell’Achille Lauro. Movente dell’omicidio? Ucciso in quanto ebreo e americano. Il Governo italiano a guida Craxi cosa fece quando si scoprì l’accaduto? I riformisti amanti della libertà e della memoria di Bettino forse avrebbero imbastito un tavolo di discussione per dire se quella bava di sangue fosse rossa come il garofano o come il rubino. L’Italia di Craxi, da loro evocata e mitizzata, optò invece per l’impunità di Abu Abass, il responsabile dell’omicidio.

A dire la verità l’allora Presidente degli Usa Ronald Reagan ce la mise tutta per agevolare il colpo da biliardo del Cinghialone: con un’azione che Montanelli definì una “cowboiata”, Reagan tentò di prelevare il commando, nel frattempo transitato nella base americana di Sigonella in Sicilia, al fine di processare i terroristi in America. Craxi disse giustamente di no, ribadendo che saremmo stati noi italiani a processare la banda. Poi, però, Abu Abass fu caricato dal servizio segreto italiano e messo su un aereo direzione Belgrado del maresciallo Tito che, in seguito, lo regalò in omaggio all’amico di Abass, l’ex dittatore iracheno Saddam Hussein il quale lo ospitò per trent’anni fino a quando, nel 2003, a seconda guerra irachena in corso, fu trovato morto in circostanze mai chiarite.

Eppure, in Italia, si sa che quando muori diventi per decreto divino un santo, ma una piazza a Craxi nella provincia pontina ancora mancava. D’altra parte, ad ascoltare quello che disse il Premio Strega Antonio Pennacchi solo un anno fa sul conto di Pasquale Maietta e Cha Cha Di Silvio, chissà, un domani, a qualcuno verrà lo sghiribizzo di dedicare anche a loro due una piazza a Latina.

Il giochino messo in campo dai tifosi affranti di Bettino Craxi è quello di utilizzare sempre termini come “riformismo”, “libertà” (la sua, Craxi la preservò piuttosto bene ad Hammamet in terra tunisina), “statista” ecc. Un uomo politico di tal statura, dicono i tifosi disperati e affranti, non va giudicato dilungandosi sulle condanne dei Tribunali o dei procedimenti giudiziari mai conclusi per decesso dell’imputato – anche perché, peraltro, non basterebbe un’enciclopedia per raccontarli.

I fan disperati, a dire il vero pochini ma che si sentono tanto intellettuali o anticonformisti, Bettino Craxinon comprendono che il giudizio politico su Craxi non può essere disgiunto dal giudizio morale e della sua vicenda giudiziaria poiché l’azione politica dell’ex Presidente del Consiglio ne fu profondamente influenzata.

In una nota intervista su La Stampa del 1993, fatta da Augusto Minzolini (proprio lui, uno dei cantori del fu berlusconismo con i soldi del canone Rai), Fabrizio Cicchitto (trombettiere del berlusconismo nella Seconda Repubblica) disse che Craxi scalò il PSI con i soldi del famigerato “conto protezione” (il conto svizzero su cui erano indirizzati i soldi delle tangenti). Gli mancavano pochissimi voti a fine anni settanta per prendere il controllo interno del PSI e, a detta di Cicchitto (che poi negli anni si scordò di questa intervista, diventando a sua volta un tifoso disperato dopo la morte di Bettino), ce la fece perché quei voti se li era comprati con il denaro proveniente dall’Ambrosiano e grazie ai buoni uffici di Licio Gelli e Roberto Calvi.

“Ho capito – diceva Cicchitto a Minzolini – che Bettino Craxi e Claudio Martelli c’entrano dentro fino al collo con Gelli e Ortolani (ndr: numero due della P2). Ad esempio, la storia dei 30 milioni di dollari del conto Protezione non è mica uno scherzo. C’è da credere davvero che in quegli anni, con tutti quei soldi, si siano comprati il Psi. Io – sosteneva Cicchitto – ho sempre in testa quel comitato centrale del ‘79, che avremmo potuto vincere per tre voti. CicchittoSignorile, invece, non volle provarci e non se ne fece niente. In questi anni gli ho chiesto spesso il perché, gli ho chiesto se era ricattato, ma lui mi ha sempre detto che fu solo uno sbaglio…C’è da credergli, perché se Craxi avesse avuto in mano qualche dossier contro di lui lo avrebbe usato”

E d’altronde per Craxi, nel suo partito, non deve essere stato semplice relazionarsi con chi ambiva a conservare la sua dignità, considerata la sua propensione al cesarismo e all’abbattimento del dissenso interno. Complessi i rapporti con Pietro Nenni che ne chiese con una lettera, misteriosamente scomparsa, le dimissioni, o con Sandro Pertini che lo implorò, quasi alle lacrime, di andare in terra casalese a San Cipriano D’Aversa per far desistere il sindaco socialista Ernesto Bardellino, fratello del ferocissimo e famigerato boss Antonio, a candidarsi al Senato della Repubblica. Pertini e i vecchi del PSI avevano accettato la presenza di un sindaco socialista legato al capo dei capi casertani prima dell’avvento dei Casalesi di Schiavone, Zagaria, Iovine ecc., ma lo smacco di una candidatura al Senato no, sarebbe stato troppo.

Presidente del Consiglio dall’83 all’87, e parlamentare fino al ’94, Bettino Craxi non provò a ricandidarsi perché sepolto dalle vicende giudiziarie che affrontò come fanno i boss di quelle terre: scappò via, dandosi alla latitanza.

Stranamente si ricordano pochissimo di lui le uniche due battaglie degne di questo nome: la sua opposizione al nucleare, appoggiando politicamente il referendum che ne decretò la fine, e l’abolizione della scala mobile che, comunque la si pensi, fu un colpo ai salari dei lavoratori ma quantomeno una scelta politica senza doppie mire ma solo per abbattere un’inflazione che, negli anni ottanta, era al 20%.

Sulle qualità dello “Statista italiano” in fatto di economia, sono da scolpire in effige, in Piazza Craxi a Bassiano, le parole che un noto economista, Salvatore Bragantini, lontano dai sospetti di essere un manettaro ignorante e oscurantista, scrisse nel 2010, quando un altro sindaco illuminato come Letizia Moratti se ne uscì con il desiderio di intitolare qualcosa a Bettino: “Il caso Grecia tiene banco ma è solo l’inizio (ndr: si era nel bel mezzo della crisi greca e all’alba della crisi dello spread pre-Monti). I soldi vengono spesi per pagare gli interessi sui titoli e non si possono tagliare le tasse. Si può giostrare solo a parità di gettito e la manovra è limitata dalle norme dell’UE, ad esempio per l’IVA. Dobbiamo prendercela con noi stessi e con chi oggi celebra Craxi…Il risanamento morale, utile in sé, darebbe un robusto contributo a quello economico”, proprio perché l’immoralità pubblica, la corruzione – disco rotto degli oscurantisti contro la memoria del Bettino Statista italiano – portano agli aumenti di spesa e sono all’origine del boom del debito che ha cominciato a debordare dal 1980. “Se ci fosse ancora una classe dirigente degna del nome – continuava Bragantini – anziché assistere in un silenzio imbarazzante alla rivalutazione di Bettino Craxi, questa classe dirigente ricorderebbe al Sindaco di Milano che vuole dedicargli una via o un parco, alcuni fatti stranoti nelle metropoli straniere che ama frequentare la signora Moratti. Lasciamo stare i gravi reati per cui Craxi è stato condannato e che paiono divenuti trascurabili, c’è molto di più: sotto la guida politica sua e di De Mita, che oggi non a caso ne canta le gesta, il nostro debito pubblico è volato dal 60 al 120% dl Pil. Il macigno che tutt’ora grava sulle spalle del Paese e ne frena lo sviluppo. Nell’escalation del debito ebbe il suo bel peso l’aumento dei costi delle opere pubbliche dovuto alle tangenti, scoperte grazie a Mani Pulite: quei costi, in seguito alle indagini, crollarono di botto e chi allora accusò il colpo ce lo restituisce con gli interessi”. Nel 1992, infatti, un km di metropolitana a Milano (per cui Craxi subì una delle sue condanne definitive) costava 192 miliardi di lire, ad Amburgo 45 miliardi. In quel periodo il passante ferroviario di Milano costava 100 miliardi a chilometro ed è stato realizzato in 12 anni, Zurigo impiegò 50 miliardi a chilometro per un lavoro durato poco più della metà, 7 anni. Nell’80 il debito pubblico italiano era al 60% del Pil (proprio la soglia che richiede il famigerato Fiscal Compact e il cui scostamento non permette ai Governi attuali di operare con leggi di Bilancio espansive), nell’83 quando si insediò a Palazzo Chigi Craxi era al 70%; tra l’83 e l’87 il rapporto debito/Pil passò dal 70 al 92% e in termini liquidi da 400mila miliardi alla cifra stratosferica di un milione di miliardi. In soli 4 anni.

Sosteneva Bragantini, in quell’articolo del 2010, apparso a pagina 17 del Corriere della Sera, in pieno revisionismo storico sulla figura politica di Bettino che, a momenti, quasi quasi, non ce lo ritrovavamo a fianco di Bernadette di Lourdes: “Craxi politicamente ebbe ragione su diversi punti, per esempio, sulla scala mobile e chi era privo di paraocchi ideologici lo capì subito. Non uscì di scena solo per i reati, ma sopratutto perché ci stava trascinando nell’abisso. Non era il solo, ma la sua riabilitazione, oltre a reiterare il teorema per cui la magistratura rossa dà la caccia ai politici, sancisce anche ufficialmente l’inanità del tentativo di sfuggire a ruberie e mala gestione, è questa la cosa più grave e dà il senso di un Paese che ha smarrito con la memoria la bussola dell’interesse generale. Tutti quelli che nelle aziende esportatrici si dannano a recuperare la competitività perduta dovrebbero pensarci bene prima di avallare con il silenzio la restaurazione. Se poi Milano dovrà davvero scegliere una via da dedicare a Craxi, cambiamo nome a quella oggi intitolata a Giorgio Ambrosoli: daremmo icasticamente l’idea di come ci siamo ridotti e del futuro che ci stiamo preparando”.

Salvatore Bragantini
Salvatore Bragantini

Altro capitolo dello Statista italiano è sicuramente quello delle partecipazioni statali, come ad esempio il paragrafo denominato SME, l’azienda che produceva panettoni e pelati di Stato e che, sotto la cappella della fu IRI, aveva in pancia Motta, Cirio ecc. Le aziende dell’IRI, come noto, erano non solo pubbliche ma gestite dai partiti che, oltre a piazzare i propri uomini nei cda, ne spolpavano le risorse economiche facendosi finanziare con soldi che, secondo la legge sul finanziamento pubblico del 1974 approvata da tutti i partiti della Prima Repubblica, non potevano ricevere. I partiti si fecero una legge che, come spesso capita, infrangevano da soli sbranando le casse pubbliche in barba alle norme da loro stessi votate.

Quando Romano Prodi, a capo dell’IRI, decise di mettere sul mercato il colabrodo SME nell’84 si fece avanti la Buitoni di De Benedetti. Lo Statista italiano cosa fece? Incaricò Berlusconi, Barilla e Ferrero di presentare un’offerta e mandare a monte tutto. Infatti l’operazione di alleggerimento dei conti dello Stato voluta da Prodi andò in malora e la SME rimase nella pancia dell’IRI continuando a produrre pelati e panettoni di Stato e, sopratutto, a farsi mungere dai partiti, compreso quello di Craxi.

I suoi uomini erano ovunque nelle aziende di Stato, da Cagliari a Necci, da Bitetto a Di Donna, senza contare Mamma Rai completamente e ferocemente lottizzata (lo fu sempre e lo è tuttora). Amanti e portaborse nei programmi Rai a iosa, a cominciare dalla fu regina del porno Moana Pozzi che, come racconta Salvatore Minieri nel suo potente libro “Pascià”,  fu protagonista di una torrida storia di concubinato con Bettino il quale, da capo supremo dell’epoca, le regalò una programma chiamato “Tip Tap 2” andato in onda sulla socialista Rai Due (in ordine alla lottizzazione di cui sopra).

Moana Pozzi
Moana Pozzi

Troppo facile ricordare i decreti ad personam con cui Craxi salvò le televisioni private di Silvio Berlusconi dall’assurda pretesa di alcuni pretori che nell’Italia degli anni Ottanta si misero in testa di far rispettare la legge; o l’iter vergognoso della legge Mammì del 1990 che partì per garantire la concorrenza e finì per stabilire che sì, tre televisioni, Silvio poteva possederle, ponendo le basi per l’Impero politico-televisivo che ci siamo sorbiti fino al 2010. D’altra parte come resistere ai 21 miliardi di lire, estero su estero, che Berlusconi pagò al suo amico di decreti Bettino.

Quando Berlusconi si impossessò della Mondadori grazie ai magistrati romani corrotti, nel PSI imperversava l’avvocato e futuro sodale berlusconiano Cesare Previti, all’epoca consigliere di amministrazione del feudo socialista Alenia, l’ennesima azienda di Stato a favor di partito e di mazzetta. Tanto per capire, il giudice Squillante, quello che aveva 9 miliardi sui conti svizzeri, e che fu corrotto da Previti per conto di Berlusconi nell’affare Mondadori, era il consigliere giuridico di Craxi a Palazzo Chigi. Nella Roma degli anni Ottanta se il Tribunale veniva chiamato il porto delle nebbie non era perché lo smog la faceva da padrone, ma perché a capo dei Giudici per le indagini preliminari c’era proprio lui, Squillante.

Le idee malsane sul proibizionismo più retrivo (anche sulle droghe leggere) che hanno ingolfato le forze dell’ordine e fatto le fortune di cosche e consorterie; quelle altrettanto deleterie sul presidenzialismo a detrimento della Costituzione repubblicana; o le bislacche opinioni sulla magistratura che fu attaccata da Bettino quando arrestarono Roberto Calvi per aver compiuto il crack più tremebondo d’Italia, con soldi per conto di mafia, P2 ecc. Si scoprì, in seguito, che sul già menzionato conto protezione svizzero, Calvi gli aveva elargito nei primi anni ’80, con la benemerenza di Licio Gelli, una mazzetta di 10 miliardi di lire, e non proprio di garofani rossi.

Quanto alla libertà e alla tolleranza dell’uomo che tanto viene decantata, Craxi espelleva gli oppositori dal suo partito, reprimeva il dissenso, cacciando tanti uomini degni come Codignola, Enriquez Agnoletti, Leon, Veltri, rei di aver sollevato la questione morale dopo che nella lista P2 furono trovati molti socialisti. Troppi.

È sufficiente fare una ricerca approssimativa sui motori di ricerca riguardo al cerchio magico del garofano rosso per comprendere di quale classe dirigente si fosse attorniato Bettino lo Statista Italiano: De Toma, Cusani, Larini, Fiorini, Parretti, Tradati, Gelli, Calvi, Troielli, Zampini, Biffi Gentili, Mario Chiesa, Maurizio Raggio, Francesco Cardella ecc.

Le assemblee socialiste dell’epoca, d’altra parte, erano un prontuario dell’horror in cui si muovevano mazzettari, parvenu, olgettine ante litteram, ossia “i nani e le ballerine” come un socialista doc dell’epoca, Rino Formica, definì dispregiativamente per far intendere che il Partito di Turati, Pertini, Nenni ormai era diventato di “sangue” e, sopratutto, di “merda”.

Lo Statista italiano non dimenticò, ad ogni modo, di dare il via a un nuovo filone della politica nostrana (in seguito molto praticato), quello della serietà, candidando personaggi come Gerry Scotti (ottimo presentatore, per carità) e Massimo Boldi in arte Cipollino, per cui suggeriamo, a qualche sindaco pontino, di intitolagli un’altra piazza non appena, speriamo più tardi che mai, ci lascerà.

Anche con la libera informazione Craxi diede l’abbrivio a un’altra pratica che oggi ci sembra normale: la querela del politico per zittire chi scrive e informa. Ne fece le spese il defunto direttore del Corriere della Sera dell’epoca, Alberto Cavallari che, dopo aver bonificato il giornale finito nelle grinfie della P2 di Gelli, scrisse con qualche anno di anticipo cosa pensava del Partito Socialista guidato dallo Statista italiano. Fu condannato a 500 milioni per aver sostenuto che tra le guardie e i ladri lui preferiva le guardie. La sua colpa: quella di aver preceduto di qualche anno ciò che l’Italia seppe e che, purtroppo, rischia di non sapere più a colpi di revisionismi e interpretazioni slegate dai fatti. E di piazze, naturalmente.

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