OMICIDIO MORO, L’EX POLIZIOTTO: “FU UN PERIODO DI FUOCO”

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Massimiliano Moro (foto da latina24)

Omicidio Moro: proseguono le testimonianze della difesa. Il processo procede verso la sentenza per uno dei “cold case” più noti

Si è svolta oggi, 3 ottobre, a Latina, davanti alla Corte d’Assise presieduta dal Giudice Gian Luca Soana, una nuova udienza del processo in cui sono imputati, per l’omicidio di Massimiliano Moro con l’aggravante mafiosaFerdinando Ciarelli detto “Macù” (figlio del capo-famiglia Carmine detto Porchettone), Antoniogiorgio Ciarelli (fratello di Porchettone), Simone Grenga (legato al clan del Pantanaccio per aver sposato la figlia del numero tre del sodalizio, Luigi Ciarelli) e Ferdinando Di Silvio detto Pupetto, già condannato con sentenza passata in giudicato per reati aggravati dal 416 bis (processo Alba Pontina) e figlio del capo-famiglia Armando Di Silvio detto “Lallà”.

Nella scorsa udienza, avevano preso inizio glie esami dei testimoni citati dal collegio difensivo composto dagli avvocati Farau, Nardecchia, Montini e Siviero. Ne era emerso un quadro di rottura all’interno del clan Ciarelli provocato dalla decisione di collaborare con la giustizia da parte di Andrea Pradissitto, marito di Valentina Ciarelli, vale a dire la figlia del numero 2 del clan: Ferdinando Ciarelli detto “Furt”.

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Stamani, invece, vi è stata un’udienza più piana. Ad essere ascoltati una guardia carceraria dell’istituto penitenziario di Viterbo, un meccanico nella cui officina la vittima, Massimiliano Moro, ha portato la sua auto il giorno del suo omicidio, 25 gennaio 2010, e un ex poliziotto all’epoca dei fatti in servizio alla Squadra Mobile di Latina che condusse le indagini in un momento ad alta tensione per la città di Latina.

Come noto, l’omicidio Moro del 25 gennaio 2010 e quello seguente avvenuto il 26 gennaio dello stesso anno in cui fu ammazzato Fabio Buonamano detto “Bistecca”, sono gli episodi centrali della cosiddetta guerra criminale pontina che videro scontrarsi due fazioni criminali: da una parte i clan rom uniti – Ciarelli e Di Silvio -, dall’altra la malavita non rom, ossia i gruppi di Moro, Nardone e Maricca. La miccia che diede il là a una stagione di omicidi, gambizzazioni e violenze fu quello dell’attentato subito da Carmine Ciarelli detto Porchettone, presso il bar Sicuranza, nel quartiere roccaforte del clan Ciarelli “Pantanaccio.

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La guardia carceraria, chiamata quest’oggi dall’avvocato Nardecchia, ha raccontato le dinamiche all’interno del carcere di Viterbo dove lavora da quasi 30 anni. La sua era una posizione che avrebbe potuto scardinare una delle testimonianze chiavi nel processo scaturito dall’indagine della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma e della Squadra Mobile di Latina. Infatti, come noto, è stato il collaboratore di giustizia Renato Pugliese, all’epoca dell’omicidio molto vicino a Moro, a spiegare che in quel carcere fu avvicinato da Simone Grenga. L’uomo, oggi imputato, nonché marito di Veronica Ciarelli, figlia del numero 3 del clan, Luigi Ciarelli, secondo la ricostruzione di Pugliese, sarebbe entrato in contatto con quest’ultimo all’interno del carcere poiché svolgeva il ruolo di spesino, ossia il detenuto che ha l’incarico di raccogliere le richieste di spesa e di acquisti dei compagni.

In quel frangente, Grenga avrebbe sussurato a Pugliese che a lui non avrebbe torto un capello, a differenza di Moro, invece ucciso nel modo in cui si sa: a colpi d’arma da fuoco. La guardia carceraria, interrogata prima dall’avvocato Nardecchia e successivamente dal Pubblico Ministero, Luigia Spinelli, ha spiegato che solitamente uno spesino non viene mai lasciato da solo nel giro tra detenuti di uno stesso ambiente. Una testimonianza che, però, ha ribadito che può capitare l’evenienza per cui uno spesino consegna gli acquisiti senza essere seguito passo passo dalle guardie carcerarie.

L’ex poliziotto della Squadra Mobile, invece, ha ripercorso, comprensibilmente con tanti “non ricordo”, considerato che sono passati 13 anni dall’omicidio, quella stagione di indagini. “Era un periodo di fuoco – ha detto l’ex agente di polizia – indagavamo sul tentato omicidio di Carmine Ciarelle e sugli omicidi di Moro e Buonamano”. In pratica, per gli eventi accaduti tra il 25 e il 26 gennaio, l’ex poliziotto ha chiarito che passò una settimana fuori casa. “Facemmo una lunga sequela di perquisizioni, c’era un controllo h24 a Pantanaccio e in altri luoghi della città”.

Quando fu attinto dai colpi d’arma da fuoco Carmine Ciarelli, ha ricordato l’ex poliziotto, accorsero alla spicciolata tutti i famigliari che vivevano al Pantanaccio, ossia nel quartiere dove si trova il bar Sicuranza (il luogo davanti al quale fu raggiunto dagli spari “Porchettone”). L’ex poliziotto ha confermato di aver avuto discussioni con i famigliari perché volevano avvicinarsi al ferito, inquinando le prove, e che andò in ospedale al Santa Maria Goretti di Latina dove, davanti alla sala di rianimazione, c’erano tantissimi parenti di “Porchettone” accorsi dopo l’attentato. “Sicuramente vidi anche Moro all’ospedale”.

All’epoca, furono intense le indagini sull’omicidio Moro che come l’attentato Ciarelli è rimasto, al momento, non chiarito totalmente nelle aule di Tribunale. Gli investigatori fecero anche l’esame stub col guanto di paraffina a quattro indiziati del delitto: Angelo Travali, Francesco Fanti, Francesco Viola e Andrea Pradissitto, quest’ultimo reo confesso e già condannato in udienza preliminare per l’omicidio Moro nella scorsa primavera.

Perché proprio a loro, gli domanda l’avvocato della difesa Grenga? “Perché erano quelli emergenti”. E perché, come ribadito anche dall’ex poliziotto, Massimiliano Moro “era molto diffidente, non faceva salite nessuno in casa sua se non lo conosceva“. E quei quattro, di cui tre assolutamente estranei al processo, erano considerati vicini a Moro stesso. Eppure, come rimarca la difesa, non furono fatti esami stub alla famiglia Ciarelli per l’omicidio Moro.

Il processo, ad ogni modo, è stato rinviato al prossimo 5 dicembre quando saranno ascoltati altri testi della difesa, tra cui Giuseppe Pasquale Di Silvio, detenuto e fratello di uno dei quattro imputati, Ferdinando Di Silvio detto Pupetto e il fratello del boss di Campo Boario “Lallà” Di Silvio. Una testimonianza che potrebbe saltare, o quantomeno modificarsi, in quanto Gianni Di Silvio (il suo nome) detto Zagaglia potrebbe essere stato indagato nel procedimento che ha portato al processo odierno. Se non indagato o se non ancora indagato, sicuramente l’uomo è citato nelle carte dell’inchiesta come autista di Pradissitto nel commando che si diresse, nella ricostruzione dei detective, alla casa di Largo Cesti dove fu freddato Massimiliano Moro.

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