OMICIDIO MORO, CHIESTO L’ERGASTOLO PER MACÙ CIARELLI E GRENGA: “ERA IL COLPEVOLE IDEALE”

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Massimiliano Moro (foto da latina24)

Omicidio Moro: chieste le condanne per gli imputati del delitto criminale eccellente avvenuto a gennaio di 14 anni fa

L’uccisione con due colpi di pistola alla testa di Massimiliano Moro, esponente di peso della criminalità pontina, non fu solo una vendetta, ma un modo per l’alleanza tra i clan rom Ciarelli e Di Silvio di affermare la loro forza mafiosa sul territorio nell’ambito della guerra criminale del 2010: “Chiunque osa attentare alla vita di un Ciarelli e un Di Silvio – ha detto in aula la pubblica accusa – verrà giustiziato“. Questo, in sintesi, è uno dei passaggi più rilevanti della lunga requisitoria espletata dai Pubblici Ministeri della Procura/DDA di Roma, Luigia Spinelli e Francesco Gualtieri, andata in scena stamani, presso la Corte d’Assise del Tribunale di Latina, dalle ore 10 fino alle 14 circa.

Da destra Ferdinando Ciarelli, Carmine Ciarelli e Pasquale Ciarelli
Da destra Ferdinando “Macù” Ciarelli, Carmine Ciarelli e Pasquale Ciarelli

Quattro ore scandite dalla ricostruzione dei pm che si sono divisi il lavoro di interpretazione storica dei tempi e dell’ambiente criminale in cui si è consumato l’omicidio del 25 gennaio 2010, in Largo Cesti 32, nel quartiere Q5 di Latina, e l’inquadramento tecnico dell’ammazzamento eccellente eseguito, secondo l’accusa, dai clan Ciarelli e Di Silvio, uniti per l’occasione tanto da spargere sangue, pallottole, uccisioni e gambizzazioni nei primi dieci mesi di 14 anni fa.

Davanti alla Corte d’Assise presieduta dal giudice Gian Luca Soana – a latere il collega Fabio Velardi e la giuria popolare -, sul banco degli imputati, per l’omicidio di Massimiliano Moro con l’aggravante mafiosa, ci sono Ferdinando Ciarelli detto “Macù” (figlio del capo-famiglia Carmine detto Porchettone), Antoniogiorgio Ciarelli (fratello di Porchettone), Simone Grenga (legato al clan del Pantanaccio per aver sposato la figlia del numero tre del sodalizio, Luigi Ciarelli) e Ferdinando Di Silvio detto Pupetto, già condannato con sentenza passata in giudicato pe associazione di stampo mafioso (processo Alba Pontina) e figlio del capo-famiglia Armando Di Silvio detto “Lallà”.

L’accusa è quella di aver compiuto un omicidio volontario e premeditato contro colui che era stato individuato come il mandante dei setti colpi di pistola sparati all’indirizzo del numero uno del clan Ciarelli, il “reuccio del Pantanaccio”, Carmine Ciarelli detto “Porchettone” o “Maiale”, o “Titti”. Il capo clan si salvò quasi clamorosamente, dopo un delicato intervento chirurgico eseguito al Santa Maria Goretti di Latina, ma, secondo la ricostruzione dell’accusa, fu proprio nel nosocomio pontino che si consumò il progetto di uccidere Massimiliano Moro, il quale, invece, si presentò in ospedale, abbracciò il padre di “Porchettone”, Antonio Ciarelli, e promise di vendicare l’attentato del figlio. “Si giocò, forse per la prima volta in vita sua, una carta sbagliata“, spiega il Pm Gualtieri. Moro, infatti, avrebbe voluto far credere di non essere stato lui ad armare la mano dell’esecutore materiale degli spari a Carmine Ciarelli, il cui autore non è stato mai accertato. Il processo all’autista di Moro, Gianfranco Fiori, ascoltato nel corso delle udienza di questo processo, è finito con una assoluzione.

Ad ogni modo lo speciale Tribunale criminale dei Ciarelli-Di Silvio, nel 2010, aveva stabilito che era stato Fiori ad aver sparato ed è così che l’allora 23enne fu oggetto di due tentati omicidi. Il giovane avrebbe sparato, secondo i clan rom, dando vita così a quella che è universalmente riconosciuta come la Guerra criminale che vide dopo l’attentato a Carmine Ciarelli la vendetta dei due sodalizi rom che si unirono contro il gruppo di malavitosi capeggiato da Massimiliano Moro, Mario Nardone e altri. Furono uccisi lo stesso Moro e Fabio Buonamano detto “Bistecca” e ci fu una lunga scia di tentati omicidi (Fabrizio Marchetto, Francesco Annoni, Silvio Savazzi, Maurizio Santucci, Paolo Celani) più diverse gambizzazioni come quella ai danni di Alessandro Zof.

Simone-Grenga
Simone Grenga

L’omicidio Moro, come è convinta la Direzione Distrettuale Antimafia di Roma che ha coordinato le indagini della Squadra Mobile di Latina, si inquadra in quella linea stragista congegnata e messa in pratica dai due clan rom, uniti per dire una volta per tutte che a comandare, a Latina, erano loro. Una guerra, sempre la loro, che era covata da tempo, almeno dall’omicidio dinamitardo di Ferdinando Di Silvio detto “Il Bello”, ossia colui che sarebbe diventato il capo carismatico del clan Di Silvio, sponda Gionchetto. Un omicidio mai vendicato e per cui il clan Di Silvio aveva individuato in Carlo Maricca il mandante. È per questo, spiega il Pm Spinelli, che dopo gli omicidi Moro e Buonamano, fu quasi ammazzato Fabrizio Marchetto, considerato vicino a Maricca e ritenuto come parte attiva nell’azione bombarola sul litorale di Latina dove morì “Il Bello”. A tentare di uccidere Marchetto, i due neo affiliati al clan perchém sposi delle figlie di Luigi Ciarelli e Ferdinando “Furt” Di Silvio (rispettivamente numero tre e due del clan): Simone Grenga, imputato nel processo odierno e ritenuto dall’accusa colui che premette il grilletto per uccidere Moro, e Andrea Pradissitto, già condannato a 9 anni con sentenza passata in giudicato per l’omicidio mafioso di Moro e oggi collaboratore di giustizia.

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Poco prima dell’inizio della requisitoria, il Pm Spinelli ha depositato una lunga serie di sentenze che certificano la capacità criminale e la mafiosità di alcuni componenti dei due clan rom. Al contempo, l’avvocato Alessandro Farau, che fa parte del collegio difensivo composto anche dai colleghi Italo Montini, Marco Nardecchia e Emilio Siviero, ha depositato una lettera ricevuta in carcere da Antoniogiorgio Ciarelli: a scriverla Ferdinando Ciarelli detto “Furt”. Nella missiva, “Furt”, suocero di Pradissitto, scriverebbe che il giovane sposo della figlia, dopo il primo arresto per l’omicidio Moro, avvenuto a febbraio 2021, si sarebbe sentito solo e abbandonato. La tesi difensiva è che la sua collaborazione con lo Stato è stata solo una ripicca contro gli altri membri del clan di cui era appartenente.

Come accennato, il processo Moro scaturisce da un tripla indagine: la prima, nell’immediatezza dell’omicidio, archiviata nel 2012 dall’ufficio Gip del Tribunale di Latina; la seconda sfociata nell’ordinanza di custodia cautelare che aveva visto tra gli accusati anche il numero due del clan, Ferdinando “Furt” Ciarelli; la terza e ultima che ha portato al processo che si celebra in Piazza Buozzi.

Andrea-Pradissitto
Andrea Pradissitto

Dirimenti per le indagini gli elementi conoscitivi pervenuti dai due collaboratori di giustizia Agostino Riccardo e Renato Pugliese e, dopo l’ordinanza di febbraio 2021, quando a finire indagato fu anche Pradissitto, la testimonianza di quest’ultimo che ha scelto di aderire alla collaborazione con la giustizia. È così, spiegano i Pm, che il quadro si è ampliato ed è stata emessa una nuova ordinanza che ha comportato per Furt la revoca dell’arresto (l’uomo si trova in carcere per altre condanne da scontare, oltreché ad essere imputato per reati di mafia nel processo “Purosangue).

Le nuove collaborazioni hanno quindi costituito una rilettura degi avvenimenti tra il 2010 e il 2012, compreso il disvelamento della linea stragista perseguita dai clan rom. In quel 25 gennaio 2010, spiega il Pm Spinelli, si consumarono “24 ore di inferno“. L’omicidio Moro nasce così dal sentimento di rivalsa latente per la mancata vendetta della morte de “Il Bello” ma, principalmente, per via degli spari a Carmine Ciarelli. L’omicidio di Moro doveva essere simbolico: ecco perché è avvenuto la sera stessa degli spari a Ciarelli di fronte al bar Sicuranza. Il giorno dopo, invece, l’omicidio di Buonamano ucciso a colpi di pistola e trascinato con l’auto.

Fatti ricostruiti anche nel processo “Caronte”, nel quale si è accertata un’alleanza tra i clan Ciarelli e Di Silvio. Attentare alla vita di Ciarelli significava attentare al potere rom: “Carmine Ciarelli era l’ago della bilancia degli equilibri della criminalità pontina e l’attentato a suo danno è stato un fatto eclatante“, peraltro avvenuto nel feudo del Pantanaccio.

L’omicidio Moro è, secondo l’Antimafia, il primo tassello della linea stragista messa in pratica dai clan rom. E uccidere uno come Moro, implicato nell’omcidio Micillo e ben noto per essere “uno che sparava” sin dai primi anni Novanta, significava porre un argine a qualsiasi tentativo criminale di prendersi la scena da parte di un altro sodalizio nell’ambito della città di Latina.

Eppure, Moro, che viveva una vita tra discoteche, lusso e donne, era un personaggio mal fidato. Come è stato possibile che Moro abbia aperto la porta di casa sua (in realtà era in affitto, sebbene non lo pagasse quasi mai)? Uno così mal fidato per cui occorreva suonare tre volte il citofono di casa per poter salire dentro l’appartamento in Largo Cesti. A rispondere è la tesi dei Pubblici Ministeri: fu la carta sbagliata che si era giocato andando in ospedale dopo l’attentato a Ciarelli a costituire la sua condanna a morte. Moro avrebbe aperto la porta di casa il 25 gennaio 2010, perché si sarebbe creduto al di là di ogni sospetto con quella pensata di recarsi al capezzale di Porchettone e, invece, fu proprio il figlio di Carmine Ciarelli – l’imputato odierno Ferdinando Ciarelli detto Macù – a individuarlo come il responsabile degli spari (a differenza dello zio “Furt” che invitava alla calma e che aveva una mezza idea che gli spari contro il fratello fossero opera dei Casalesi). E, al termine di un processo sommario interno ai clan rom, a doverlo uccidere avrebbe dovuto essere Grenga, alla presenza di Macù. Un gesto altamente simbolico: hanno provato ad ammazzare Carmine Ciarelli nel nostro regno, per vendetta uccidiamo il mandante dell’attentato dentro casa sua.

Moro – spiegano i Pm – diventa il colpevole ideale per affermare il potere dei clan rom. Pradissitto non ci nasconde nulla, ci dice la verità”. Per di più, secondo l’accusa, i momenti dei funerali e dei tentati omicidi sono snodi criminali dirimenti per vedere chi c’è e chi non c’è. E la presenza di Moro all’ospedale ne certifica la morte avvenuta qualche ora dopo.

Ma, oltreché alle logiche criminali, secondo l’Antimafia, ci sono i contatti tra gli imputati che emergono dallo studio investigativo delle celle telefoniche: in quella sera del 25 gennaio, tutti e quattro gli imputati si sentono per telefono e, dopo l’omicidio, Macù spenge il suo cellulare per 30 giorni.

Ferdinando Pupetto Di Silvio
Ferdinando “Pupetto” Di Silvio

Un omicidio, quindi, compiuto con premeditazione e con la cosiddetta agevolazione mafiosa così da determinare il crimine rom nella città di Latina e oltre. Un caso “freddo”, come dicono gli americani, che ancora nasconde tanti codici di “onore”. E probabilmente per questo codice d’onore, tre testimoni ascoltati nel corso del processo, su richiesta della difesa, verranno accusati, così come anticipato dai Pm, per falsa testimonianza: si tratta di Giuseppe Pasquale Ciarelli, figlio di Armando Di Silvio detto “Lallà” (il boss del clan Di Silvio, sponda Campo Boario), Angelo Travali e Costantino Di Silvio detto “Cha Cha”.

Alla fine della requisitoria svolta in tandem dai Pm Spinelli e Gualtieri, per Ferdinando “Macù” Ciareli e Simone Grenga vale la centralità e la determinazione nel commettere l’omicidio: per loro la richiesta è quella massima. Ergastolo. Più lieve la richiesta per Antoniogiorgio Ciarelli e Ferdinando “Pupetto” Di Silvio: 30 anni di reclusione a testa, con il riconoscimento delle attenuanti generiche.

Dopo la requisitoria sono iniziate le arringhe difensive di una giornata lunga che si è conclusa in serata, intorno alle ore 20. A parlare per primo l’avvocato Siviero che difente “Pupetto” Di Silvio e, a seguire, l’avvocato Nardecchia che assiste Simone Grenga. Entrambi hanno chiesto l’assoluzione per i propri assistiti, mettendo in dubbio la collocazione delle celle telefoniche (Pupetto) e l’attendibilità delle dichiarazioni di Pradissitto (Grenga)

In data 25 marzo, ci sarà una udienza per la fine delle arringhe difensive per gli avvocati Farau e Montini e le eventuali repliche dell’accusa, dopodiché la Corte d’Assise si riunirà in camera di consiglio così da emettere la sentenza di primo grado di un omicidio che ha rappresentato uno snodo cruciale per gli equilibri criminali pontini. Un delitto che fa ancora paura: in pochi ne parlano. Basti pensare che la famiglia dell’assassinato non ha minimamente mai fatto richiesta di essere parte civile nel processo.

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