Omicidio Moro: fissato in Corte d’Appello a Roma il processo per il delitto del latinense Massimiliano Moro
Si discuterà il prossimo 19 dicembre il processo di secondo per l’omicidio di Massimiliano Moro. I pubblici ministeri della DDA di Roma, Luigia Spinelli e Francesco Gualtieri, hanno impugnato le assoluzioni di Antoniogiorgio Ciarelli e Ferdinando Di Silvio detto “Pupetto”, oltreché ad impugnare le condanne a 20 anni di reclusione rimediate in primo grado da Simone Grenga e Ferdinando Ciarelli detto Macù.
I magistrati antimafia chiedono che ai due condannati venga riconosciuta la premeditazione dell’omicidio, esclusa dal Tribunale di Latina in primo grado, che comporterebbe la condanna all’ergastolo. Ovviamente, si chiede che anche i due assolti vengano condannati a 30 anni di reclusione a testa, con il riconoscimento delle attenuanti generiche, così come richiesto in primo grado.
Le difese di Macù e Grenga chiedono che i propri assistiti vengano assolti, così come Antoniogiorgio Ciarelli e “Pupetto” Di Silvio.
IL PROCESSO – In primo grado, c’è stato un esito non scontato derivante dalla sentenza espressa dalla Corte d’Assise del Tribunale di Latina, presieduta dal giudice Gian Luca Soana – a latere il collega Fabio Velardi e la giuria popolare.
Per l’omicidio di Massimiliano Moro, avvenuto il 25 gennaio del 2010, a Latina, presso l’abitazione della vittima a Largo Cesti 32 (nel quartiere Q5), sono stati condannati a 20 anni di reclusione, a testa, Ferdinando Ciarelli detto Macù, figlio del boss Carmine Ciarelli, e Simone Grenga (legato al clan del Pantanaccio per aver sposato la figlia del numero tre del sodalizio, Luigi Ciarelli). Macù – difeso dall’avvocato Italo Montini – che per l’accusa è il mandante dell’omicidio, e Grenga – difeso dall’avvocato Marco Nardecchia -, individuato come l’esecutore materiale dei due colpi di pistola che stesero Moro, hanno rimediato anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Per loro è stata esclusa l’aggravante della premeditazione, ma è valida quella di aver agevolato l’associazione di stampo mafioso dei Ciarelli/Di Silvio.
Condanne accolte favorevolmente in aula sia da difesa che dai famigliari, dal momento che è stata ridimensionata la richiesta dell’accusa, rappresentata dai pubblici ministeri della Procura/DDA di Roma, Luigi Spinelli e Francesco Gualtieri, che aveva invocato l’ergastolo per entrambi.
30 anni a testa, invece, erano stati chiesti per Antoniogiorgio Ciarelli (fratello di Carmine Ciarelli detto Porchettone), assistito dall’avvocato Alessandro Farau, e Ferdinando Di Silvio detto “Pupetto” (già condannato con sentenza passata in giudicato pe associazione di stampo mafioso nel processo “Alba Pontina” e figlio del capo-famiglia Armando Di Silvio detto “Lallà”), difeso dall’avvocato Emilio Siviero. Il Tribunale, però, li ha assolti dall’accusa di aver partecipato all’omicidio con l’aggravante mafiosa. Una sentenza inaspettata, anche se si dovranno aspettare 90 giorni per comprendere come ha ragionato la Corte d’Assise. Sicuramente, la prova nel corso del processo, a carico dei due, è stata considerata non formata oltre ogni ragionevole dubbio.
Le condanne di Ferdinando Ciarelli detto “Macù” e Simone Grenga vanno ad aggiungersi a quella dell’attuale collaboratore di giustizia Andrea Pradissitto, che ha rimediato 9 anni di reclusione per l’omicidio Moro. È stato proprio l’ex affiliato al clan Ciarelli, avendo sposato la figlia del capo famiglia Ferdinando Ciarelli detto “Furt”, a cambiare la storia dell’indagine e del processo dopo che, a febbraio 2021, fu emessa una ordinanza che coinvolgeva come responsabili del delitto anche il sunnominato “Furt” e lo stesso Pradissitto. Le dichiarazioni di quest’ultimo hanno fatto sì che la Direzione Distrettuale Antimafia di Roma e la Squadra Mobile di Latina, che hanno portato avanti le indagini, sulla scorta anche delle dichiarazioni dei pentiti Agostino Riccardo e Renato Pugliese, cambiasse quadro, escludendo dai responsabili “Furt” Ciarelli e includendo “Pupetto” Di Silvio e Antoniogiorgio Ciarelli. L’assoluzione odierna di questi ultimi due presupporrebbe che le dichiarazioni di Pradissitto, presente sulla scena del crimine come parte del commando pronto a vendicare gli spari della mattina del 25 gennaio 2010 all’indirizzo di Carmine Ciarelli, davanti al bar Sicuranza del Pantanaccio, non siano state ritenute granitiche e attendibili dalla Corte d’Assise.
Ad ogni modo, L’uccisione con due colpi di pistola alla testa di Massimiliano Moro, esponente di peso della criminalità pontina a cavallo trai novanta e i duemila, non fu solo una vendetta, ma un modo per l’alleanza tra i clan rom Ciarelli e Di Silvio di affermare la loro forza mafiosa sul territorio nell’ambito della guerra criminale del 2010: “Chiunque osa attentare alla vita di un Ciarelli e un Di Silvio – aveva detto in aula la pubblica accusa – verrà giustiziato“. Questo, in sintesi, è stato uno dei passaggi più rilevanti della lunga requisitoria espletata dai Pubblici Ministeri della Procura/DDA di Roma, Luigia Spinelli e Francesco Gualtieri, conclusasi nella scorsa udienza di inizio mese.
La morte di Moro, secondo quanto ha ribadito Andrea Pradissitto nel processo “Purosangue”, che contesta reati di mafia al clan Ciarelli, ha costituito insieme al delitto di Fabio Buonamano detto “Bistecca”, avvenuto il giorno successivo, 26 gennaio 2010, l’antipasto di quella che fu cementata come l’alleanza Ciarelli-Di Silvio. Fu a casa di Armando Di Silvio detto Lallà che i tre clan – i Ciarelli, i Di Silvio di Campo Boario e i Di Silvio del Gionchetto – decisero che, dopo le uccisioni di Moro e Buonamano, sarebbe dovuto toccare a tutti i massimi esponenti della mala latinense: da Carlo Maricca a Fabrizio Marchetto. Una linea stragista che non portò a nessun omicidio (anche se l’intenzione era quella), ma a diverse gambizzazioni e ferimenti in un anno, il 2010, che per la storia giudiziaria pontina sarà per sempre la cosiddetta guerra criminale.
L’accusa per i quattro imputati era quella di aver compiuto un omicidio volontario e premeditato contro colui che era stato individuato come il mandante dei setti colpi di pistola sparati all’indirizzo del numero uno del clan Ciarelli, il “reuccio del Pantanaccio”, Carmine Ciarelli detto “Porchettone” o “Maiale”, o “Titti”. Il capo clan si salvò quasi clamorosamente, dopo un delicato intervento chirurgico eseguito al Santa Maria Goretti di Latina, ma, secondo la ricostruzione dell’accusa, fu proprio nel nosocomio pontino che si consumò il progetto di uccidere Massimiliano Moro, il quale, invece, si presentò in ospedale, abbracciò il padre di “Porchettone”, Antonio Ciarelli, e promise di vendicare l’attentato del figlio. “Si giocò, forse per la prima volta in vita sua, una carta sbagliata“, spiegava il Pm Gualtieri. Moro, infatti, avrebbe voluto far credere di non essere stato lui ad armare la mano dell’esecutore materiale degli spari a Carmine Ciarelli, il cui autore non è stato mai accertato. Il processo all’autista di Moro, Gianfranco Fiori, ascoltato nel corso delle udienza di questo processo, è finito con una assoluzione.
Ad ogni modo lo speciale Tribunale criminale dei Ciarelli-Di Silvio, nel 2010, aveva stabilito che era stato Fiori ad aver sparato ed è così che l’allora 23enne fu oggetto di due tentati omicidi. Il giovane avrebbe sparato, secondo i clan rom, dando vita così a quella che è universalmente riconosciuta come la Guerra criminale che vide dopo l’attentato a Carmine Ciarelli la vendetta dei due sodalizi rom che si unirono contro il gruppo di malavitosi capeggiato da Massimiliano Moro, Mario Nardone e altri. Furono uccisi lo stesso Moro e Fabio Buonamano detto “Bistecca” e ci fu una lunga scia di tentati omicidi (Fabrizio Marchetto, Francesco Annoni, Silvio Savazzi, Maurizio Santucci, Paolo Celani) più diverse gambizzazioni come quella ai danni di Alessandro Zof.
L’omicidio Moro, come è convinta la Direzione Distrettuale Antimafia di Roma che ha coordinato le indagini della Squadra Mobile di Latina, si inquadra in quella linea stragista congegnata e messa in pratica dai due clan rom, uniti per dire una volta per tutte che a comandare, a Latina, erano loro. Una guerra, sempre la loro, che era covata da tempo, almeno dall’omicidio dinamitardo di Ferdinando Di Silvio detto “Il Bello”, ossia colui che sarebbe diventato il capo carismatico del clan Di Silvio, sponda Gionchetto. Un omicidio mai vendicato e per cui il clan Di Silvio aveva individuato in Carlo Maricca il mandante. È per questo, spiegava il Pm Spinelli, che dopo gli omicidi Moro e Buonamano, fu quasi ammazzato Fabrizio Marchetto, considerato vicino a Maricca e ritenuto come parte attiva nell’azione bombarola sul litorale di Latina dove morì “Il Bello”. A tentare di uccidere Marchetto, i due neo affiliati al clan perchém sposi delle figlie di Luigi Ciarelli e Ferdinando “Furt” Di Silvio (rispettivamente numero tre e due del clan): Simone Grenga, imputato nel processo odierno e ritenuto dall’accusa colui che premette il grilletto per uccidere Moro, e Andrea Pradissitto, già condannato a 9 anni con sentenza passata in giudicato per l’omicidio mafioso di Moro e oggi collaboratore di giustizia.
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La tesi difensiva ha puntato molto sulla circostanza per la collaborazione di Pradissitto con lo Stato è stata sopratuttto una ripicca contro gli altri membri del clan di cui era appartenente. Sarebbe stato lasciato solo e per questo avrebbe deciso di vendicarsi.
Ad ogni modo, il processo Moro scaturisce da un tripla indagine: la prima, nell’immediatezza dell’omicidio, archiviata nel 2012 dall’ufficio Gip del Tribunale di Latina; la seconda sfociata nell’ordinanza di custodia cautelare che aveva visto tra gli accusati anche il numero due del clan, Ferdinando “Furt” Ciarelli; la terza e ultima che ha portato al processo che si è celebrato in Piazza Buozzi.
Dirimenti per le indagini gli elementi conoscitivi pervenuti dai due collaboratori di giustizia Agostino Riccardo e Renato Pugliese e, dopo l’ordinanza di febbraio 2021, quando a finire indagato fu anche Pradissitto, la testimonianza di quest’ultimo che ha scelto di aderire alla collaborazione con la giustizia. È così, spiegano i Pm, che il quadro si è ampliato ed è stata emessa una nuova ordinanza che ha comportato per Furt la revoca dell’arresto (l’uomo si trova in carcere per altre condanne da scontare, oltreché ad essere imputato per reati di mafia nel processo “Purosangue).
Le nuove collaborazioni hanno quindi costituito una rilettura degli avvenimenti tra il 2010 e il 2012, compreso il disvelamento della linea stragista perseguita dai clan rom. In quel 25 gennaio 2010, ricostruiva nella scorsa udienza il Pm Spinelli, si consumarono “24 ore di inferno“. L’omicidio Moro nasce così dal sentimento di rivalsa latente per la mancata vendetta della morte de “Il Bello” ma, principalmente, per via degli spari a Carmine Ciarelli. L’omicidio di Moro doveva essere simbolico: ecco perché è avvenuto la sera stessa degli spari a Ciarelli di fronte al bar Sicuranza. Il giorno dopo, invece, l’omicidio di Buonamano ucciso a colpi di pistola e trascinato con l’auto.
Fatti ricostruiti anche nel processo “Caronte”, nel quale si è accertata un’alleanza tra i clan Ciarelli e Di Silvio. Attentare alla vita di Ciarelli significava attentare al potere rom: “Carmine Ciarelli era l’ago della bilancia degli equilibri della criminalità pontina e l’attentato a suo danno è stato un fatto eclatante“, peraltro avvenuto nel feudo del Pantanaccio.
L’omicidio Moro è, secondo l’Antimafia, il primo tassello della linea stragista messa in pratica dai clan rom. E uccidere uno come Moro, implicato nell’omcidio Micillo e ben noto per essere “uno che sparava” sin dai primi anni Novanta, significava porre un argine a qualsiasi tentativo criminale di prendersi la scena da parte di un altro sodalizio nell’ambito della città di Latina.
Eppure, Moro, che viveva una vita tra discoteche, lusso e donne, era un personaggio mal fidato. Come è stato possibile che Moro abbia aperto la porta di casa sua (in realtà era in affitto, sebbene non lo pagasse quasi mai)? Uno così mal fidato per cui occorreva suonare tre volte il citofono di casa per poter salire dentro l’appartamento in Largo Cesti. A rispondere è la tesi dei Pubblici Ministeri: fu la carta sbagliata che si era giocato andando in ospedale dopo l’attentato a Ciarelli a costituire la sua condanna a morte. Moro avrebbe aperto la porta di casa il 25 gennaio 2010, perché si sarebbe creduto al di là di ogni sospetto con quella pensata di recarsi al capezzale di Porchettone e, invece, fu proprio il figlio di Carmine Ciarelli – l’imputato odierno Ferdinando Ciarelli detto Macù – a individuarlo come il responsabile degli spari (a differenza dello zio “Furt” che invitava alla calma e che aveva una mezza idea che gli spari contro il fratello fossero opera dei Casalesi). E, al termine di un processo sommario interno ai clan rom, a doverlo uccidere avrebbe dovuto essere Grenga, alla presenza di Macù. Un gesto altamente simbolico: hanno provato ad ammazzare Carmine Ciarelli nel nostro regno, per vendetta uccidiamo il mandante dell’attentato dentro casa sua.
Ma, oltreché alle logiche criminali, secondo l’Antimafia, ci sono i contatti tra gli imputati che emergono dallo studio investigativo delle celle telefoniche: in quella sera del 25 gennaio, tutti e quattro gli imputati si sentono per telefono e, dopo l’omicidio, Macù spenge il suo cellulare per 30 giorni. Una ricostruzione che per Antoniogiorgio Ciarelli e “Pupetto” Di Silvio non ha retto.
Il delitto, ora, dopo quasi tre lustri, ha tre colpevoli: Macù Ciarelli, Simone Grenga e Andrea Pradissitto. Il processo, invece, ha visto l’assenza di ogni parte offesa, in primis della famiglia Moro che non ha mai palesato l’intenzione di costituirsi parte civile. Un passato che probabilmente deve rimanere tale.
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