Cade l’aggravante mafiosa per Giuseppe D’Alterio detto ‘O Marocchino in merito a un processo risalente a oltre 10 anni fa
La prima sezione della Corte di Cassazione ha accolto in buona parte il ricorso presentato dal minturnese di nascita Giuseppe D’Alterio, detto ‘O Marocchino, annullando senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla circostanza aggravante del 416-bis che ridetermina la pena in 2 anni e 8 mesi di reclusione. Non solo perché i giudice della Suprema Corte hanno disposto l’eliminazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici e l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente alla confisca, rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Napoli. Andiamo con ordine.
D’Alterio, il “padrino” di Fondi, come noto, è un nome rispettato dalla ‘ndrangheta dei Tripodo, dai clan di camorra del campano e dalle cosche sinti di Latina: il suo nome, infatti, non serviva solo a far abbassare la testa a qualche imprenditore o trasportatore del Mof ma arrivava anche a Latina, presso il tradizionale mercato del martedì. Ecco perché, lo scorso anno, il 67enne è stato colpito dal provvedimento della sorveglianza speciale così come richiesto dai Carabinieri di Latina.
Tra inchieste e processi (Aleppo I e Aleppo II su tutti) con alterne vicende, la sentenza della Cassazione pubblicata negli scorsi giorni fa riferimento a un diverso procedimento che si perde quasi nella notte dei tempi, ossia a più di dieci anni fa.
A gennaio 2012, il giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Napoli, Antonio Cairo, si era pronunciato sulle posizioni di una quarantina di imputati, nell’ambito di un maxi procedimento che ne coinvolgeva sessanta. Il Guo Cairo inflisse 14 anni a Costantino Pagano, titolare di un’importante azienda di trasporti su gomma accusato di associazione camorristica, concorrenza illecita, armi ed intestazione fittizia di beni. 4 anni per concorrenza illecita nei confronti degli operatori commerciali operanti nel settore della vendita e del trasporto di ortofrutta, furono dati ai D’Alterio di Fondi: Giuseppe ‘O Marocchino e i figli Armando, Luigi e Melissa. Al contempo, furono sequestrati nel 2013 e poi confiscati ai D’Alterio beni per un valore di 2 milioni di euro società di trasporto, fabbricati, terreni, veicoli e rapporti finanziari.
Nello stesso processo, tanto per avere una idea della portata dello stesso, furono condannati a 3 anni, per il solo reato di concorrenza illecita aggravata dal metodo mafioso, i fratelli Antonio e Massimo Antonino Sfraga, ritenuti legati al boss di “Cosa Nostra” Matteo Messina Denaro.
Con sentenza del 7 gennaio 2014 la Corte d’Appello di Napoli confermava le condanne, pronunziate a seguito di giudizio abbreviato, di Giuseppe D’ Alterio e degli altri imputati per i reati loro rispettivamente contestati di associazione di tipo mafioso, estorsione, ricettazione, illecita concorrenza, detenzione e porto d’armi anche clandestine. Ricorsi in Cassazione contro quella sentenza del 2014, i D’Alterio ottennero un accoglimento solo per i fatti di contestati fino al 29 ottobre 2005, per essere gli stessi estinti per prescrizione. La Corte Suprema rinviò di nuovo in Appello a Napoli che, con sentenza in data 23 febbraio 2021, ha rideterminato la pena inflitta a Giuseppe D’Alterio in 3 anni e 10 mesi di reclusione, “risolta la continuazione in relazione alla condotta antecedente al 29 ottobre 2005 essendo stata tale condotta dichiarata estinta, per intervenuta prescrizione”.
Nella sentenza del febbraio 2021, la Corte d’Appello di Napoli ha ritenuto sussistente anche nei riguardi di Giuseppe D’Alterio l’aggravante del 416-bis per il periodo successivo al 29 ottobre 2005, nella duplice accezione dell’adozione del metodo mafioso e dell’avere agito per agevolare il clan del quale faceva parte il Pagano, ritenuto vicino ai Casalesi, che imperversò nei mercati di frutta e verdura con la sua ditta “La Paganese”.
Contro quest’ultima sentenza, assistito dall’avvocato Emilio Martino, D’Alterio ha proposto di nuovo ricorso in Cassazione sostenendo che all’epoca dei fatti contestati fosse detenuto e che che pertanto non poteva sussistere a suo carico l’aggravante del metodo mafioso.
“Gli elementi che la sentenza impugnata a tal fine ha messo in evidenza – si legge nella sentenza di Cassazione datata 13 gennaio 2023, che ha accolto il ricorso di D’Alterio e fatto cadere per lui l’aggravante maiosa – appaiono labili, vaghi e incapaci di dare prova, ora, della conoscenza o conoscibilità dell’uso del metodo mafioso, ora, della consapevolezza dell’altrui (di Melissa D’Alterio) fine di agevolazione mafiosa. Il riferimento è ad una conversazione telefonica durante la quale Costantino Pagano riferì al suo interlocutore che Luigi D’Alterio era inquieto per il comportamento della sorella, sì che si era rivolto al padre dicendogli “tua figlia è diventata troppo cattiva da quando ha a che fare con quello” e che Melissa aveva riferito a Giuseppe D’Alterio che il Pagano la stava aiutando nella gestione dei crediti avendo messo a disposizione, a tal fine, la propria forza intimidatrice. Da qui la deduzione che Giuseppe D’Alterio sapesse dell’uso del metodo mafioso e della finalità agevolatrice delle condotte poste in essere dai correi Costantino Pagano e Melissa D’Alterio senza disapprovarlo”.