26 le misure cautelari disposte dalla Direzione Investigativa Antimafia che colpisce di nuovo la locale di ‘ndrangheta romana Alvaro e Carzo
L’antipasto ancor più corposo si era avuto a maggio quando la Direzione Distrettuale Antimafia di Roma aveva richiesto, trovando accoglimento dal Giudice per le indagini preliminari capitolino, Gaspare Sturzo, l’arresto di 43 persone. Nella primavera scorsa gli arresti fecero emergere la presenza di una vera e propria locale sul territorio della Capitale, dopo quella colpita, qualche mese prima, tra Anzio e Nettuno.
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Stavolta gli arresti (24 in carcere e 2 ai domiciliari) emessi sempre dal Gip Sturzo, su richiesta dei procuratori aggiunti Michele Prestipino e Ilaria Calò della Procura della Repubblica di Roma-Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, hanno cercato di colpire il secondo livello dell’organizzazione, ossia quello che si occupa di intestazione fittizia di beni. Secondo gli inquirenti, la locale mirava ad acquisire la gestione e/o il controllo di attività economiche nei più svariati settori (ad esempio ittico, della panificazione, della pasticceria, del ritiro delle pelli e degli olii esausti), facendo poi sistematicamente ricorso ad intestazioni fittizie al fine di schermare la reale titolarità delle attività.
Contestati anche delitti contro il patrimonio, contro la vita e l’incolumità individuale e in materia di armi, per affermare il controllo egemonico delle attività economiche sul territorio (in particolare nel settore della ristorazione, dei bar e della panificazione), realizzato anche attraverso accordi con organizzazioni criminose omologhe.
L’ossessione della cosca Alvaro-Carzo sembra quella di trovare teste di legno e intestare attività e società a terze persone, in modo tale da ovviare a misure restrittive in essere o a eventuale controlli. “Bisogna trovare un polacco, un rumeno, uno zingaro a cui regalare 500/1000 euro a cui intestare sta le quote sociali e le cose e le mura della società…– dice intercettato il boss Vincenzo Alvaro – poi tutte queste cose che dicono e ti attaccano sono tutte minchìate…Ao ho fatto un fallimento di un miliardo e mezzo e ho la bancarotta fraudolenta…mi hanno dato tipo l’articolo 7 e poi mi hanno arrestato…mi hanno condannato…e ancora devo fare l’appello…vedi tu…è andato in prescrizione…le prescrizioni vanno al doppio delle cose“.
L’indagine odierna, quindi, è legata a quella eseguita il 10 maggio scorso contro la cosca Alvaro di Sinopoli e le infiltrazioni nella capitale dove il potente clan aspromontano avrebbe creato un locale di ‘ndrangheta. Gravemente indiziati di essere i capi di tale struttura criminale erano risultati Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, entrambi appartenenti a storiche famiglie di ‘ndrangheta originarie di Cosoleto, nel reggino.
A maggio, furono coinvolti anche alcuni personaggi gravitanti nella provincia di Latina. E comune denominatore tra le due inchieste, quella denomina “Tritone” e “Propaggine 1”, c’è anche, se non con un ruolo di primo piano, il territorio. A finire in carcere insieme ad altre 37 persone, tra cui i capi Carzo e Alvaro, furono anche il 43enne Francesco Greco di Sinopoli ma residente ad Ardea e, soprattutto, Francesco Condina, 41 anni, nato a Palmi (Reggio Calabria) ma residente ad Aprilia, accusato di associazione mafiosa, e già destinatario della misura degli arresti domiciliari per l’operazione “Tritone” che ha colpito la ‘ndrina di Anzio e Nettuno. In “Tritone”, secondo gli inquirenti, Condina avrebbe tentato di importare un ingente carico di cocaina dal Sudamerica, in collaborazione di altri due personaggi.
Tra i sessantuno indagati dalla DDA romana nell’operazione “Propaggine 1”, c’era anche il 38enne Cosimo Rositano, nato anche lui a Palmi, ma residente a Borgo Grappa (Latina). Rositano era accusato di di aver detenuto illecitamente, nel capoluogo pontino, un numero imprecisato di armi da sparo, tra cui una pistola calibro 8 e un fucile automatico. Quelle armi sarebbero state offerte a due degli affiliati, Vincenzo Carzo (figlio del capo cosca Antonio) e Francesco Calò.
Latina, secondo gli inquirenti, diventava non solo posto per reperire “giovanotti di buona volontà” così da dare una lezione a un debitore inadempiente, ma anche un luogo dove smaltire gli olii esausti che la ndrina capeggiata da Vincenzo Alvaro ritirava da molti ristoratori romani. Uno degli uomini di Alvaro, infatti, si sarebbe rivolto alla ditta “ILSAP” di Borgo San Michele, gestita dai Martena (non indagati) per ottenere l’autorizzazione a scaricare presso i locali di Borgo San Michele tutto il materiale ritirato tanto da iniziare “un proficuo rapporto di collaborazione”.
Ad ogni modo, nell’operazione odierna, “Propaggine 2”, la provincia di Latina non annovera altri coinvolti se non fosse per almeno un nome che rispunta e che lambisce il territorio pontino.
Si tratta di Marco Pomponio, 43enne romano, dato per affiliato al clan Alvaro, grossista di pesce della “Cala Roma”, il quale, nell’indagine precedente, emergeva come creditore nei confronti di un fornitore di pesce di Aprilia a cui fece telefonare dal boss Alvaro, detto “Zio Melo”. Stavolta di Pomponio, accusato di vari capi d’imputazione e soprattutto di intestazione fittizia di beni, viene menzionata una telefonata con un altro degli arrestati odierni, Pasquale Valente detto “Alieno”.
Quest’ultimo, lamentandosi di una fornitura di gamberetti per il suo ristorante, faceva riferimento alla società di distribuzione del pesce chiamata Prontomar Roma srl, di fatto nella titolarità del boss Vincenzo Alvaro e Marco Pomponio. E proprio Pomponio, nel ricevere la telefonata di lamentele, è intercettato dagli inquirenti mentre utilizza un numero in realtà riconducibile a un 58enne di Terracina Pierluigi De Carlo (non indagato), che, un tempo, gestiva un’attività di commercio al dettaglio dì pesci, crostacei e molluschi a Via Friuli Venezia Giulia nella medesima Terracina.
Curioso almeno un altro particolare. Si tratta di un episodio in cui la Dia accusa il boss Vincenzo Alvaro, detto Zio Melo, e Domenico Carzo, figlio dell’altro boss della locale romana, Antonio Carzo, di attribuire fittiziamente l’intero capitale sociale della DE.PA. IMMOBILIARE S.R.L.S. SEMPLIFICATA, ripettivamente, a Eugenio Denaro Mengarelli (nella misura del 51%, quota in realtà riconducibile anche a Domenico Carzo) e a Francesca Crisafulli (nella misura del 49%, quota in realtà riconducibile ad Vincenzo Alvaro). Il 25 luglio 2021, la società DE.PA. IMMOBILIARE S.R.L. SEMPLIFICATA aveva stipulato, inqualità di avente causa, il “contratto preliminare relativo alla piena proprietà di un fabbricato”, registrato presso l’Agenzia delle Entrate di Latina.