Processo Scheggia: è stata pronunciata la sentenza per l’ex consigliera regionale del centrodestra Gina Cetrone e il clan Di Silvio
Dopo le arringhe degli avvocati difensori celebratesi nelle scorse udienze, oggi, 8 novembre, è arrivata l’attesa sentenza per gli imputati di un processo che ha visto sedere dalla stessa parte degli imputati politico, l’ex consigliera regionale del Pdl, Gina Cetrone, e alcuni componenti del Clan Di Silvio.
La difesa di Cetrone, nella scorsa udienza, aveva presentato e depositato al Collegio, presieduto dal Giudice Caterina Chiaravalloti, a latere i giudici Francesco Valentini e Elena Nadile – una corposa nota di di oltre 160 pagine, per poi sviluppare un’arringa durata per più di quattro ore.
Prima della sentenza, si è appreso del cambio di strategia della Procura/DDA che ha deciso, al contrario di quanto era stata previsto nella scorsa udienza, di non replicare alle arringhe difensive. Presenti, in aula, entrambi i Pm del processo e della indagine denominata “Scheggia”, Luigia Spinelli e Corrado Fasanelli.
A dare lettura della sentenza è la Presidente Caterina Chiaravalloti, dopo meno di due ore di camera di consiglio con gli altri due magistrati Valentini e Nadile: condanne a 6 anni e 6 mesi per Gina Cetrone e l’ex marito Umberto Pagliaroli. 4 anni per Armando “Lallà” Di Silvio solo per il reato di violenza privata (assolto dall’accusa di estorsione) e 8 anni e 6 mesi per Gianluca Di Silvio detto “Bruno”. Riconosciuta l’aggravante del metodo mafioso. A tutti gli imputati, tranne Armando Di Silvio, anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’interdizione legale per la durata della pena; per “Lallà” l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Multa da 5mila euro ciascuno per Cetrone e l’ex marito Pagliaroli, oltreché alle altre spese accessorie (giudizio e detenzione); sanzione anche per Gianluca Di Silvio: 7.800 euro.
Riconosciuto all’Associazione “Antonino Caponnetto”, costituitasi parte civile, un risarcimento di 5mila euro.
Tutto il collegio difensivo, composto dagli avvocati Lorenzo Magnarelli, Oreste Palmieri, Luca Giudetti e Domenico Oropallo, aveva puntato a smontare la credibilità del collaboratore di giustizia ed ex affiliato ai clan rom, Agostino Riccardo (definito anche “un gran pagliaccio”), le cui dichiarazioni hanno avuto un peso rilevante nelle disposizioni accusatorie degli inquirenti. Inoltre, l’avvocato Magnarelli, che assiste Gina Cetrone, aveva passato al setaccio anche la posizione dell’imprenditore di Pescara estorto, su mandato dell’ex consigliera regionale e dell’ex marito Umberto Pagliaroli che avrebbero commissionato il recupero crediti ad Agostino Riccardo e il clan Di Silvio. Per l’avvocato difensore l’imprenditore sarebbe un “falsario”. I legali degli imputati avevano chiesto per i loro clienti l’assoluzione: non c’era mafiosità, secondo la difesa, e i fatti sono insusstitenti.
Come noto, agli imputati, a vario titolo, nel procedimento, venivano contestati i reati di estorsione, atti di illecita concorrenza, violenza privata, più gli illeciti connessi alle elezioni amministrative di Terracina 2016. Processato a parte, essendo correo, Agostino Riccardo.
Al termine della requisitoria terminata nell’udienza del 18 ottobre, i Pubblici Ministeri Luigia Spinelli e Corrado Fasanelli della Procura/DDA di Roma avevano chiesto per Cetrone e Pagliaroli 7 anni e 6 mesi di reclusione ciascuno, più 7mila euro di multa, mentre per i due Di Silvio 13 anni di reclusione oltreché a una multa da 15mila euro. Parte civile nel processo l’Associazione Antonino Caponnetto.
Il processo, come accennato, ruotava intorno a due circostanze: la contestata estorsione commessa da Riccardo e i Di Silvio, su richiesta di Cetrone e Pagliaroli, ai danni dell’imprenditore di Pescara, indietro con i pagamenti rispetto alle forniture dell’impresa dei due imputati che all’epoca lavoravano nel settore del vetro; l’illecita concorrenza alle elezioni amministrative di Terracina, nel 2016, nelle quali Gina Cetrone era, prima, candidata sindaco e, poi, consigliere comunale con la lista “Sì cambia”, a sostegno dell’aspirante primo cittadino Gianluca Corradini: l’ex esponente si sarebbe affidata a Riccardo e i Di Silvio per la campagna elettorale e la cosiddetta visualizzazione dei manifesti di propaganda. Il sodalizio di origine rom avrebbe costretto due “competitor”, Gianluca D’Amico e Matteo Lombardi, che facevano campagna elettorale per l’allora candidato sindaco Gianni D’Amico, ad avere uno spazio molto contenuto nell’attacchinaggio dei manifesti, oltreché ad essere stati minacciati nella località terracinese di La Fiora.
Ora, il Tribunale di Latina ha stabilito che le accuse della Procura/Direzione Distrettuale Antimafia sono provate. È una sentenza di primo grado, nei confronti della quale sono scontati i ricorsi in Appello, ma è pur sempre un pronunciamento storico per Latina e provincia: una condanna con l’aggravante mafiosa comminata, nello stesso processo, a un esponente politico e a un boss di un clan, Armando Di Silvio detto “Lallà”.