I SOSPETTI SUI CASALESI, LE RIUNIONI E POI IL COMMANDO CHE UCCISE MORO

Uno degli stabili confiscati ai Ciarelli in Via Andromeda
Uno degli stabili confiscati ai Ciarelli in Via Andromeda

Omicidio mafioso di Massimiliano Moro: dopo l’ordinanza eseguita oggi dalla Squadra Mobile sono in sei ad essere accusati

Furono arrestati il 22 febbraio, ma in realtà erano già tutti detenuti (Grenga ai domiciliari), i quattro appartenenti al Clan Ciarelli a cui veniva contestato l’omicidio di Massimiliano Moro con l’aggravante mafiosa. Ferdinando “Furt” Ciarelli, fratello del capo-clan Carmine detto Porchettone, Ferdinando Ciarelli detto Macù, figlio di quest’ultimo, e i due acquisiti, poiché sposati con le figlie di Ferdinando Ciarelli e Luigi Ciarelli, Andrea Pradissitto e Simone Grenga. Il primo tra gli acquisiti, Pradissitto, era considerato il gancio per poter entrare senza sospetti nell’appartamento di Moro: il 31enne, infatti, era stato nella stessa batteria, insieme a Renato Pugliese e ad altri giovani vogliosi di “mala”, alla corte criminale di Moro. Il secondo, Grenga, invece, è ritenuto da investigatori e inquirenti l’esecutore materiale dell’omicidio avvenuto nell’appartamento di Largo Cesti, presso il quartiere Q5 di Latina.

Simone-Grenga
Simone Grenga

Passati poco più di 11 anni dal 25 gennaio 2010 quando Moro, per gli amici Massimo, fu ammazzato con due colpi: uno alla testa e l’altro al collo.

Il movente, come ormai noto, si ascriveva in una vendetta per gli spari ricevuti dal boss capo-famiglia Carmine Ciarelli detto Porchettone o Titti davanti al Bar Sicuranza del Pantanaccio per cui fu processato e poi assolto Gianfranco Fiori, fedelissimo del capo-batteria Moro e tra i pochi a poter entrare nella sua casa in Q5; mentre Carmine è stato condannato per aver tentato di ucciderlo.

Tuttavia, dopo la scelta di collaborare con lo Stato da parte di uno degli arrestati del febbraio scorso, la soluzione del rebus pare avvicinarsi per un omicidio che vide anche una prima inchiesta, condotta dal Pm Marco Giancristofaro, finita in un niente di fatto nel 2015 per assenza di prove ma comunque utilissima agli investigatori di oggi al fine di schiarire le ombre.

Oggi, in seguito alle dichiarazioni di Pradissitto entrato ufficialmente nel programma di protezione insieme alla moglie Valentina Ciarelli, ecco gli altri indagati: arresti per il quarto dei figli del capostipite Antonio Ciarelli, quell’Antoniogiorgio già indagato dal sostituto procuratore Giancristofaro tra il 2012 e il 2015, e uno dei figli di Armando “Lallà” Di Silvio, cognato di Ferdinando “Furt” Ciarelli: si tratta di Ferdinando Di Silvio detto “Pupetto” che ormai le cronache hanno imparato a conoscere non solo per gli spari ad Alessandro Zof colpito in Via Galvaligi nel 2010 ma, soprattutto, per i fatti di Alba Pontina da cui è scaturita per lui una condanna in Appello in ordine a reati con l’aggravante mafiosa. Custodia cautelare in carcere che oggi ha colpito di nuovo “Macù” (scarcerato ad aprile per un vizio procedurale), al secolo Ferdinando Ciarelli (figlio del boss Carmine attinto dai colpi al Pantanaccio), con un ruolo preminente come vedremo in seguito.

Carmine Ciarelli

Insomma, al di là degli arresti, la prova di fatto che nel 2010 la guerra criminale pontina fu un redde rationem della mafia rom a Latina: qui comandiamo noi e per farlo i Ciarelli e i due rami delle due famiglie Di Silvio, quella di Armando e quella di “Romolo” e “Patatone”, si mettono insieme. Sullo sfondo il sodalizio di Cha Cha e Tuma a guardare da lontano, non senza interesse.

LE PAROLE DI PRADISSITTO – Dichiarazioni, quelle di Pradissitto, che ricostruiscono le fasi salienti dell’omicidio Moro: la preparazione, la doppia riunione tra i rappresentanti dei Clan per decidere il da farsi, l’approvvigionamento dell’arma, il commando e, infine, il doppio boom che ridusse Moro a rigido cadavere con il capo e il tronco immersi in una gora di sangue. Una versione di Pradissitto che non si discosta molto da quelle rese da Agostino Riccardo e Renato Pugliese le quali, de relato, tramite racconti di vari interlocutori del mondo rom, avevano descritto l’assassinio. Su tutto, il minimo comun denominatore: la voglia di affermare da parte dei Ciarelli/Di Silvio la loro forza nonostante, a distanza di anni, vengano fuori anche le rivalità sopite in quel 2010: il gruppo di “Lallà” non ama i Ciarelli e le alleanze di ieri sono diverse da quelle di oggi, sebbene infiacchite da arresti e condanne.

L’elemento diverso, portato da Pradissitto, è la composizione del commando che concorse ad ammazzare Moro: non c’è il suocero Ferdinando “Furt” Ciarelli, il numero due del Clan del Pantanaccio che invita i “mocciosi”, così come li chiamava adirato per la loro approssimazione, ad essere più prudenti, ma sono della partita Antoniogiorgio Ciarelli, lo stesso Pradissitto, Simone Grenga (confermato come esecutore materiale), Ferdinando Ciarelli detto “Macù”, Ferdinando Di Silvio detto Pupetto e lo zio omonimo Ferdinando detto “Gianni” fratello di Lallà.

Ferdinando “Furt” Ciarelli

Certo, “Furt”, di cui non è affatto confermata la collaborazione con lo Stato come emerso qualche settimana fa (tutt’altro), non è scagionato: anche Pradissitto conferma che nelle fasi in cui gli spari al boss Carmine dovevano essere lavati col sangue, è lui a gestire le riunioni con la sua leadership e a cementare in un unicum criminale le famiglie rom. Ad ogni modo, secondo Pradissitto, è il figlio di Carmine, Ferdinando Ciarelli detto Macù a organizzare la reazione contro colui, Moro, che si è permesso di mandare un sicario a sparare nella casa del “reuccio del Pantanaccio”.

Macù, sostiene Pradissitto, “agì d’istinto perché a lui non andava giù che qualcuno avesse sparato a suo padre nel suo territorio. Diceva che dopo 35 anni in cui i Ciarelli avevano dettato legge non era possibile sopportare tale gesto…scendemmo e Macù disse che quella sera avrebbe chiuso la questione aggiungendo che sapeva per certo che era stato Moro a colpire il padre. Disse che se avessimo fatto fuori Moro saremmo diventati i padroni di Latina dimostrando a tutta la città che eravamo capaci di reagire subito agli attentati“.

Pradissitto che inizia a rilasciare i verbali alla DDA romana e alla Squadra Mobile di Latina ad aprile scorso spiega poi chi va effettivamente a casa di Moro per ammazzarlo: “Andarono Simone Grenga e Ferdinando detto Macù; Simone era armato, Macù no. L’esecutore materiale è stato Simone Grenga e lo ha detto lui…sotto casa di Moro c’erano Antoniogiorgio Ciarelli e Ferdinando Pupetto Di Silvio. Erano in una macchina Audi A3 scuro…io e Ferdinando Di Silvio detto Gianni (ndr: fratello di “Lallà” attualmente sotto processo per associazione mafiosa in “Alba Pontina”) eravamo dentro una BMW serie 1 grigia e siamo arrivati sotto casa di Moro quando loro sono scesi“.

Ferdinando Pupetto Di Silvio
Ferdinando “Pupetto” Di Silvio

Un passo indietro – Prima dell’esecuzione di Moro in Largo Cesti, ci sono due riunioni precedute dalla fase più emotiva: il ricovero al Santa Maria Goretti di Carmine Ciarelli dopo i sette colpi di arma da fuoco ricevuti al Bar Sicuranza. In ospedale ci sono tutti: la famiglia Ciarelli, tranne il terzo capo, Luigi, all’epoca ai domiciliari in una comunità; i due rami della famiglia Di Silvia, quella di Campo Boario (Lallà) e quella del Gionchetto (Romolo e Patatone) e persino Costantino “Cha Cha” Di Silvio. E c’è pure Moro che, a un certo punto, viene a trovare Carmine Ciarello e promette al padre di quest’ultimo, il capostipite di Antonio che gli appoggia le mani sul viso (“figlio mio dammi una mano”, pare gli abbia detto), di aiutarli a trovare colui che ha provato a uccidere Porchettone.

È stato lì che Moro, secondo la ricostruzione investigativa e Pradissitto, ha sancito la sua fine: il suo sarebbe solo un tentativo di sviare i sospetti su di lui.

Come detto, sono due le riunioni, a cui partecipano almeno un componente delle varie ramificazioni rom. I briefing criminali vengono organizzati per capire chi è stato a sparare contro Carmine e progettare così la vendetta. È il fratello, Ferdinando “Furt”, a riunire tutti e a dire che secondo lui l’attentato a Carmine proviene da una cellula dei Casalesi di stanza a Nettuno: “Ognuno disse la sua ma le due opinioni di maggiore peso erano quelle di mio suocero, Furte e del nipote Macù – dichiara a verbale Pradissitto – Mio suocero era dell’opinione che l’attacco arrivasse dall’esterno ad opera di una cellula dei casalesi che si era stanziata a Nettuno, facente capo a Pasquale Noviello, marito di Maria Rosaria Schiavone figlia di Carmine; questa famiglia faceva estorsioni sul territorio di Nettuno e dintorni e poi è andata a toccare un uomo di mio suocero, Peppe Corvino di Casal di Principe. Lui era proprietario di una concessionaria ma era sotto usura di mio suocero. I casalesi cui ho fatto riferimento avevano incendiato varie macchine di Peppe Corvino e lui aveva chiesto a mio suocero di intervenire. Mio suocero disse a Peppe Corvino di organizzare un incontro tra lui e Pasquale Noviello che se non ricordo male era latitante all’epoca. Mio suocero ribadì a Noviello che la concessionaria era di sua proprietà e che potevano fare ciò che volevano sul territorio ma non dovevano toccare i suoi interessi. Quindi Noviello reagì male dicendo che lui sarebbe andato avanti fino ad estendersi a Latina e tutto l’agro pontino“.

Andrea-Pradissitto
Andrea Pradissitto

Ci fu un’accesa discussione – continua a verbale Pradissitto – Questo fatto risaliva al mese di settembre 2009. Quindi mio suocero riteneva che il tentato omicidio di Carmine potesse essere ricondotto a Pasquale Noviello anche perché lo stesso aveva fatto riferimento ad una denuncia, credo del 1997, sporta da Carmine Ciarelli e Antonio Ciarelli contro gli appartenenti al clan dei casalesi, in particolare Ettore Mendico. Quindi gli aveva dato dell’infame. All’esito dell’incontro mio suocero e Noviello si separarono prendendo ognuno la propria strada“.

Macù – continua Pradissitto riferendo all’Antimafia – riteneva invece che l’attentato fosse venuto dall’interno, da una persona molto vicina a noi, da una persona di Latina. In quella occasione non fece nomi. Mio suocero ordinò di attivarci a livello investigativo per capire chi fosse stato l’attentatore. Quella riunione terminò così, e in quella occasione prevalse l’opinione di mio suocero che era il capo di tutti“.

MORO INCONTRO ALLA MORTE – Eppure dopo la visita di Moro in Ospedale, Macù era sempre più convinto che fosse stato uno di Latina e ancor di più aveva individuato il colpevole in Massimiliano Moro: “Macù insistette sul fatto che era stato Moro anche perché doveva dare dei soldi a Carmine Ciarelli. Mio suocero gli diede del moccioso e gli disse di stare al posto suo. Diceva che se la reazione fosse stata sbagliata lo Stato ci sarebbe saltato addosso“. Finita la seconda riunione, la confusione è solo apparente: secondo Pradissitto, a passare è la versione di Macù nonostante “Furt” inviti alla calma perché non sono sicuri.

È Moro l’attentatore di Carmine. Ecco allora che Pradissitto racconta tutto l’iter che porta all’omicidio. “In quel momento – dice – stavamo disobbedendo a mio suocero, ma valutammo che erano presenti tutti i rappresentanti più importanti delle famiglie: Pupetto per Campo Boario, Macù per i Ciarelli di Pantanaccio, Grenga in rappresentanza di Luigi Ciarelli, e io che rappresentavo mio suocero della zona di San Francesco“.

Il commando, che si riunisce prima di tutto a Piazza Moro, può partire composto da Grenga e Macù su uno scooterone che si recano alla cabina telefonica per chiamare Moro e vedere se fosse a casa; una volta appurato che il bersaglio si trova dove vogliono che si trovi arrivano al Pantanaccio per prendere una 9X21, l’arma con cui sarà ammazzato Moro di lì a poco. Al seguito dei due, Pradissitto e Gianni Di Silvio sulla BMW grigia, più Pupetto e Antoniogiorgio Ciarelli sull’Audi A3.

Da destra Ferdinando Ciarelli, Carmine Ciarelli e Pasquale Ciarelli
Da destra Ferdinando Ciarelli detto Macù, Carmine Ciarelli e Pasquale Ciarelli

Durante il tragitto non abbiamo fatto nessuna comunicazione telefonica – spiega Pradissitto agli inquirenti – Io ero convinto di arrivare sotto casa e trovare Simone Grenga e Macù che aspettavano e invece ho visto solo l’Audi A3 che era dal lato opposto alla strada; Antoniogiorgio Ciarelli alla guida lampeggiò con i fari e Gianni Di Silvio rispose con gli abbaglianti, noi ci siamo affiancati accanto al marciapiede di fronte all’ingresso dell’abitazione del Moroe mentre io cercavo con lo sguardo Macù e Grenga li ho visti uscire dal portone di ingresso dell’abitazione del Moro e io abbassai il finestrino e guardai stupito i due e Grenga disse “è fatto è fatto.

L’omicidio è stato compiuto: secondo Pradissitto, quindi non presente nell’appartamento di Moro diversametne da quanto raccontato da Riccardo e Pugliese, a sparare è Grenga accompagnato da Macù Ciarelli.

Tornati a casa dal suocero “Furt” in Via dei Sabini, le cose però non si mettono bene. “Entrato a casa c’era mio suocero, il fratello Antoniogiorgio e Ferdinando Pupetto Di Silvio (ndr: nipote di Furt). Capii subito che c’era qualcosa che non andava, mio suocero mi cominciò a trattare come un bambino, a dire siete dei mocciosi. Rimproverò tutti i presenti e ci ha cacciato di casa dicendo che ne avremmo pagato le conseguenze. Mi chiese conferma di quello che era accaduto e io gliela diedi, dissi anche per difendere la scelta fatta che senza la reazione saremmo stati tutti in pericolo. Preciso che quando disse ne pagherete le conseguenze non intendeva conseguenze giudiziarie, intendeva dire che non sapevamo da chi dovevamo aspettarci un’ulteriore reazione a quell’omicidio“.

Secondo i risconti della Squadra Mobile e una laboriosa analisi, il tragitto delle auto è stato ricostruito dalla celle telefoniche di quattro dei componenti del commando muniti di apparecchio.

Uno degli schemi della Squadra Mobile di Latina per ricostruire il tragitto del commando armato attraverso le celle telefoniche

“Gli spostamenti, la tempistica, i contatti tra loro – annotano gli investigatori della Squadra Mobile di Latina – non possono essere evidentemente casuali ed avvengono in un lasso temporale così ristretto e proprio in concomitanza con l’omicidio, che possono essere definiti spostamenti idonei diretti in modo non equivoco a commettere l’omicidio di Massimiliano Moro. Inoltre, alcuni dei soggetti esaminati partono da punti diversi della città, si incontrano nella zona compatibile con quella dell’omicidio e vanno via subito dopo, seguendo percorsi differenti. È opportuno far rilevare, che tale zona statisticamente (come rilevato dai tabulati telefonici) non è frequentata dai quattro soggetti esaminati”.

Leggi anche:
LA STRATEGIA STRAGISTA DEI CLAN CIARELLI E DI SILVIO: DOPO MORO E BUONAMANO, GLI ALTRI BERSAGLI

Articolo precedente

FESTEGGIANO L’ITALIA IN MASSA DENTRO L’AUTOARTICOLATO: MULTATO IL CONDUCENTE

Articolo successivo

ROGO ALLA LOAS: CHIUSA INCHIESTA, 3 GLI INDAGATI

Ultime da Focus