CLAN DI SILVIO: È MAFIA. LE PRONUNCE DEI MAGISTRATI E LA STORIA ACCLARATA

Di Silvio mafia
Una della abitazioni, nel quartiere Gionchetto, dove vivono appartenenti al Clan Di Silvio. Le immagini della Polizia di Latina

Una pronuncia del Riesame di Roma e le motivazioni della Corte d’Appello lo stabiliscono a chiare lettere: i Di Silvio sono riconosciuti come mafia

A stretto giro, l’ulteriore conferma di ciò che il sentire popolare sa da diversi anni: i Di Silvio sono un clan, in tutte le sue ramificazioni, e, ora, a confermarlo ulteriormente, ci sono altri magistrati.

Sia per l’inchiesta Movida che, lo scorso dicembre, ha portato all’arresto di Costantino “Costanzo” Di Silvio, Antonio detto Patatino e Ferdinando detto Prosciutto (figli di Giuseppe “Romolo” Di Silvio), Ferdinando “Pescio” Di Silvio (figlio di Patatone Di Silvio, condannato per l’omicidio Buonamano) e l’unico non rom Luca Pes, sia per le motivazioni della Corte d’Appello di Roma che ha condannato l’altro ramo dei Di Silvio, nel processo Alba Pontina, per quanto riguarda coloro – i figli di Armando Di Silvio detto Lallà in testa – che hanno scelto un rito alternativo (l’abbreviato), i magistrati risultano unanimi a ribadire che i Di Silvio sono un sodalizio mafioso. Così come le altre nuove mafie: Casamonica o i Fasciani di Ostia.

Al Riesame di Roma, dove il ramo della famiglia Di Silvio, il cui capo è Giuseppe Romolo Di Silvio (per cui la Cassazione ha negato la concessione della liberazione anticipata: sta scontando 30 anni per l’omicidio Buonamano e associazione per delinquere), ha fatto ricorso contro l’ordinanza di custodia cautelare in carcere firmata dal gip di Roma Rosalba Liso, il collegio composto dai giudici Filippo Steidl (presidente), Annalisa Pacifici e Silvia Reitano si è pronunciato avvalorando l’impianto accusatorio della Direzione Distrettuale Antimafia e della Squadra Mobile di Latina.

L’ordinanza del gip di Roma è stata confermata, eccetto per due casi. Un capo d’imputazione contestato a “Costanzo” Di Silvio, fratello del boss Romolo, relativa alle minacce – violenza privata – contro il titolare di un locale notturno in Piazza Moro a Latina. Ad ogni modo, l’uomo rimane in carcere per gli altri reati contestati dagli inquirenti. E la misura cautelare meno afflittiva per il figlio di “Patatone”, il giovane Ferdinando Di Silvio detto “Pescio”, che è uscito dal carcere e si trova agli arresti domiciliari.

Per il resto, le accuse rimangono intonse e non sono state scalfite le ipotesi degli inquirenti che vedono i Di Silvio protagonisti di estorsione, rapina e violenze col metodo mafioso.

Passando all’altro ramo dei Di Silvio, quello reso ancor più noto con l’operazione “Alba Pontina”, i giudici della Corte d’Appello di Roma che hanno condannato i figli di Lallà, Gianfranco Mastracci e gli altri che hanno optato per il rito abbreviato (l’altro troncone del processo Alba Pontina, dove è giudicato il capo-famiglia Lallà, si sta celebrando, in primo grado, al Tribunale di Latina) hanno utilizzato parole che non lasciano molto spazio ai dubbi: “Gli imputati hanno sempre agito manifestamente, senza adottare alcuna cautela nei confronti di persone che li conoscevano, ostentando la loro appartenenza ad un gruppo criminale e tale ostentazione di sicurezza di impunità è significativo indice di mafiosità perché presuppone la certezza dell’omertà delle vittime e del loro assoggettamento“.

Come noto, la Corte d’Appello di Roma diminuì, seppur di poco, alcune condanne inflitte dal Tribunale di Roma, anche se sia dal dispositivo che dalle motivazioni non appare in alcun modo ridimensionata la mafiosità dei Di Silvio. Ad essere condannati, per associazione mafiosa finalizzata a spaccio ed estorsioni, i tre figli di Armando “Lallà” Di Silvio: a 12 anni e mezzo Gianluca “Bruno” Di Silvio, a 11 anni e 10 mesi Samuele Di Silvio e a 10 anni e 8 mesi Ferdinando “Pupetto” Di Silvio. E ancora: 3 anni e 4 mesi per Gianfranco Mastracci, 4 anni e 20 giorni per Daniele “Canarino” Sicignano, 2 anni e 2 mesi per Valentina Travali, 2 anni e 4 mesi per Mohamed Jandoubi e Hacene Hassan Ounissi, e un anno e 4 mesi per Daniele Coppi (ritenuto prestanome di “Lallà” per un terreno a Borgo Isonzo).

Inoltre, i giudici della Corte d’Appello di Roma stabiliscono un’altra verità giudiziaria e conseguentemente storica che, alle latitudini pontine, rappresenta una conferma di decadi di assoggettamento del territorio.
Infatti, allegata al processo Alba Pontina, c’era anche la sentenza passata in giudicato del processo Caronte, celebratosi anni fa, in seguito alla cosiddetta guerra criminale che comportò due omicidi e una serie di gambizzazioni nell’arco di pochi mesi a partire da gennaio 2010. All’epoca i Di Silvio si allearono con l’altro gruppo rom della città, i Ciarelli, contro la banda di malavitosi non rom della città di Latina, facenti capo al duo Mario Nardone e Massimiliano Moro (ucciso in quella faida).

Ebbene, ora, anche per i giudici “desta sconcerto che quei fatti non siano stati ritenuti aggravati da un metodo mafioso e che l’associazione non sia stata qualificata come associazione mafiosa in presenza di reati di estorsione e usura, intimidazioni violente, tentati omicidi, reati in materia di armi, scorrerie armate sul territorio di Latina tra bande contrapposte“.

Un punto importante, anche se va detto che all’epoca del processo Caronte e anche per altre inchieste antecedenti e successive (per esempio il processo Don’t Touch, anni 2015-16, dove il gruppo Travali/Cha Cha aveva tutte le stimmate del gruppo mafioso) non c’era di mezzo la Direzione Distrettuale Antimafia e il pool disposto, ormai da tre anni, dall’attuale Procuratore Capo di Roma Michele Prestipino. Un pool con almeno tre magistrati a Roma – Fasanelli, Zuin e Spinelli – e altri a Latina (De Lazzaro e chiunque abbia a che vedere con reati ascrivibili alla mafia) che ha messo ai raggi X la provincia di Latina e che contesta finalmente le aggravanti mafiose a comportamenti e azioni che lo sono almeno sin dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso. Un tempo in cui, anche volendo, la Procura di Latina non avrebbe potuto contestare il 416 bis, di competenza della DDA.
Dirimenti, e anche la Corte d’Appello capitolina lo conferma, sono state le collaborazioni dei pentiti Agostino Riccardo e Renato Pugliese e le dichiarazioni delle vittime di estorsioni ascoltate a sommarie informazioni.

E al quadro ancora mancano le possibili sentenze riguardo al rapporto di questo mondo di sotto mafioso con la politica e l’imprenditoria. I processi Arpalo, Scheggia, Dirty Glass e altre inchieste stabiliranno altre verità giudiziarie. Per quelle storiche, di verità, ci sono già elementi e contesti inquietanti che restituiscono un ambiente maleodorante dato dal rapporto tra criminalità, politica e colletti bianchi a Latina e provincia.

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