CARCERI. NEL 2010 UN DI SILVIO VOLEVA UCCIDERE UN AGENTE PER ESSERSI SCHIERATO CON UN ALTRO GRUPPO

carceri a Latina

Di cose bizzarre e inquietanti se ne leggono questi giorni, dopo gli arresti eseguiti dai Carabinieri di Latina in ragione dei provvedimenti emessi dal Gip di Latina per le inchieste Astice e Petrus.
Il carcere, di colpo, sembra essere diventato un albergo di nicchia oppure ciò che è sempre stato un luogo di incontro tra criminali di ogni ordine e grado.

Fanno scalpore i fatti evidenziati nell’ordinanza di arresto per personaggi come i Travali, Di Girolamo, Del Vecchio, Amato ecc. e, sopratutto, i due appartenenti alla Polizia Penitenziaria, Zinni e Tramentozzi.

La Polizia Penitenziaria svolge un ruolo difficile e delicato: le guardie carcerari sono a contatto con soggetti a cui non si può dire “per favore”, per la semplice ragione che i loro codici sono quelli del mondo criminale dove la locuzione è bandita.

Certo che l’organo carcerario è sano, se non lo fosse non ci sarebbero i personaggi che si allargano e trasformano il loro ruolo in un mercimonio di funzioni in cambio di vizi e prebende.

carcere-latinaEppure, sarebbe ipocrita sostenere la retorica delle mele marce poiché nel carcere, un agente o un ispettore, per stipendi non di certo da nababbi, possono essere portati a non rischiare di andare contro il criminale della zona il quale, alla lunga, tartassa, minaccia e, comandando ancora al di fuori del carcere, ha a disposizione batterie di fedelissimi che possono indurre a pensare che sia più conveniente chiudere un occhio e talvolta anche due. Ecco perché è assolutamente necessario che il Dap (Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ) provveda, come fa spesso, ma non sempre, a disporre i detenuti in carceri lontano dalle loro zone di influenza e assoggettamento.

D’altra parte il controllo del carcere (un luogo dove intessere relazioni per future alleanze criminali) è molto importante per i clan. Dalla volontà di controllo derivano, spesso, comportamenti di collusione da parte di infedeli della polizia penitenziaria che favoriscono, e lo dimostrano svariate inchieste, traffici di ogni genere (come il denaro o la droga portati dall’esterno dentro il carcere), o, addirittura, la retta di armi per conto di consorterie criminali (retta: lo stoccaggio).

È un fatto passato quasi inosservato nelle centinaia di pagine della sentenza Caronte, eppure nel 2010, come riportato nel 2015 dai tre giudici della Corte d’Appello di Roma che confermarono le sentenze di primo grado, l’episodio che coinvolse un appartenente a un clan nostrano, i Di Silvio, dice molto di più di tante pagine di cronaca giudiziaria.

Giuseppe Pasquale Di Silvio
Giuseppe Pasquale Di Silvio

Come noto, siamo nell’anno in cui il clan Ciarelli e i due clan Di Silvio si uniscono per contrastare l’avanzata sul territorio del gruppo di Mario Nardone. Nelle fasi concitate, in cui i due (o tre) gruppi si parlano per mettere a punto la strategia della vendetta (tutto si originò dal tentato omicidio di Carmine Ciarelli), Giuseppe Pasquale Di Silvio, primogenito di Armando “Lallà” Di Silvio, proprio dal carcere dà sfogo alla sua volontà di “comandare sia dentro che fuori”. E per dentro si intende il carcere.

Come scrivono in sentenza i giudici capitolini, sulla scorta dei fatti emersi dall’inchiesta della Procura della Repubblica di Latina, lo fa quando esprime, in un colloquio dell’agosto 2010, la volontà di uccidere un agente della Polizia Penitenziaria reo di “avere preso troppo le parti dei grassoni (ndr: fratelli Mazzucco) e di Mario Nardone” all’epoca ristretti con lui in carcere

Che significa aver preso troppo le parti se non la consapevolezza che, almeno in quel momento, c’era la corsa a chi fosse più in grado di orientare i controllori al fine di assoggettare l’ambiente carcerario?

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