Sono rimasti in silenzio Pantusa e Fiorucci, due dei quattro arrestati ieri nell’Operazione Stelvio, accusati di aver sequestrato e picchiato un avvocato
Stamane, interrogati dal giudice, Ernesto Pantusa e Debora Fiorucci si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Pantusa, assistito dagli avvocati Nardecchia e Farau, è stato ascoltato nel carcere di Latina su rogatoria dal gip di Latina Giorgia Castriota, mentre la Fiorucci, assistita da Coronella, è stata sentita nel carcere di Rebibbia a Roma. Entrambi hanno scelto di rimanere in silenzio.
I due, insieme ai presunti complici, Salvatore Carleo e Fabrizio Fava sono accusati di sequestro di persona a scopo di estorsione in concorso, aggravato dal metodo mafioso, rapina aggravata e lesioni personali. Tutti e quattro sono stati i destinatari degli arresti eseguiti ieri dai Carabinieri di Latina, in ragione dell’indagine della Procura di Latina e Roma, coordinati dalla DDA capitolina, che ha messo in luce lo spaccato inquietante di un avvocato 69enne, iscritto al foro di Santa Maria Capua Vetere, sequestrato e condotto da Pantusa in un capannone abbandonato a Borgo Bainsizza nelle sue disponibilità, eppoi minacciato, picchiato e ricattato.
“Per sette anni mi ha preso in giro, sa? Non mi ha fatto un’udienza”, questo è ciò che ripeteva Ernesto Pantusa, intercettato dagli investigatori, nei confronti dell’avvocato che, a suo dire, invece di difenderlo nelle cause che aveva sul groppone, avrebbe solo riscosso il denaro. Da qui, il senso di rivalsa di Pantusa che, coadiuvato da Fiorucci, Fava e Carleo, avrebbe messo in piedi il sequestro e il ricatto facendo firmare al legale casertano scritture private e cambiali per un valore di 110 mila euro, non prima di avergli sottratto una cifra intorno ai 2300 euro. Particolare che rimane marginale è che dalle intercettazioni Pantusa sosteneva che l’avvocato casertano avrebbe fatto da testimone di nozze della sorella.
Tutta da riscontrare l’aggravante mafiosa che, secondo il giudice che ha firmato l’ordinanza di arresto, sarebbe in piede poiché una sentenza della Cassazione spiega che “è sufficiente un richiamo anche implicito per suscitare timore dell’esercizio di note forme di violenza, la cui diffusa conoscenza fonda il potere di intimidazione e di controllo delle organizzazioni criminali e quindi non è necessaria la prova dell’esistenza dell’effettiva appartenenza ad una associazione”. Ecco perché l’aver soltanto intimidito l’avvocato casertano prospettandogli l’intervento di un boss di camorra sarebbe, secondo il giudice, il motivo dell’aggravamento del metodo mafioso.
Eppure, dalle intercettazioni contenute nell’ordinanza di arresto, si evince di come, in realtà, gli altri complici probabilmente avessero qualche dubbio su tutta la vicenda. Carleo, l’uomo di Roma arrestato insieme a Pantusa ieri, in una conversazione captata dagli investigatori con un suo conoscente, che sapeva del rapimento e del ricatto, ha così parlato riferendosi al 44enne latinense (Pantusa): “Il matto? Quello che gli ha menato, che gli ha dato uno schiaffo in faccia?”, domanda a Carleo che gli risponde: “Sì sì”.
“Non lo dovevi fa venire nemmeno al magazzino questo attrezzo, Sa’ (ndr: Salvatore) – dice il conoscente di Carleo – Quello… gli è arrivato si a quello, gli ha tolto le chiavi della macchina, gli ha dato uno schiaffo, sono cazzi suoi“. Talché Carleo ribatte: “Adesso mi stava dicendo il Fava (ndr: il quarto arrestato ieri), si è fatto fare le cambiali questo…E l’avvocato è andato protestato perché non le ha pagate, capito, ma sono cazzi suoi, non possono essere i miei”.
Ad ogni modo, Carleo potrà spiegare, se deciderà di rispondere alla magistratura, il senso di queste frasi. Sia lui che Fava verranno ascoltati nei prossimi giorni.