ALBA PONTINA, I PM CHIEDONO 25 ANNI PER ARMANDO DI SILVIO: “LA PAURA, L’OMERTÀ, LA MAFIA”

Armando Lallà Di Silvio
Armando Lallà Di Silvio

Alba Pontina: processo al Clan Di Silvio. I due pm De Lazzaro e Spinelli hanno formulato le richiesta di condanna per gli imputati

È stata una lunga requisitoria quella dei pm Claudio De Lazzaro e Luigia Spinelli quella ascoltata oggi nell’Aula della Corte d’Assise del Tribunale di Latina. I due sostituti procuratori si sono divisi il racconto che li ha portati, grazie alle indagini della Squadra Mobile di Latina e alla collaborazione dei due pentiti Renato Pugliese e Agostino Riccardo, a ricostruire il percorso criminale dei Di Silvio capeggiati da Armando detto Lallà, il capo incontrastato di uno dei due principali rami della famiglia di origine nomade.

De Lazzaro ha lumeggiato gli episodi delle estorsioni, gli intrecci con altri boss e sodalizi della mala, puntualizzando molto sull’estorsione-madre, quella da cui è partita l’indagine che è sfociata in “Alba Pontina”: si tratta, come noto, dell’estorsione ai danni dell’ex ristoratore di Sermoneta, Davide Malfetta, un passato nel Latina Calcio, soggiogato e costretto a pagare dai figli di Armando, “Pupetto” e Samuele, con Pugliese e Riccardo. Il pm della Procura di Latina ha utilizzato termini precisi per descrivere la mafia dei Di Silvio: interposizione parassitaria nelle storie di estorsione – con i rom che si facevano da intermediari tra debitore e creditore per dissanguare i malcapitati -, l’omertà, la paura. E poi la capacità militare e di allearsi con i gli odiati-amati Ciarelli quando c’era da farla pagare ai Travali. E ancora la possibilità criminale con la sfrontatezza di non fermarsi davanti a niente e nessuno: avvocati, commercialisti, imprenditori, commercianti. Chi incappava in loro pagava e non denunciava. Il magistrato ha ricordato anche l’episodio dell’Ordine degli Avvocati di Latina costretto a pubblicare una nota per mettere in guardia contro il clan che aveva come bersaglio preferito proprio le toghe pontine; e l’avvocato La Salvia, uno degli estorti, che si rende conto che neanche in Calabria, da dove proveniva, succedevano certe cose.

Dopo gli arresti, avvenuti a dicembre 2016, e per un pelo saltati a causa della soffiata di Antonio Fusco detto Zi’ Marcello (il primo tentativo lo fece dal centralino della Guardia di Finanza di Latina) – uomo misterioso legato a Davide Lemma, Massimo Severoni ma soprattutto a Gangemi e Forniti -, la svolta con il pentimento di Renato Pugliese avvenuto il 26 dicembre 2016 e quello a seguire, a luglio 2018, di Agostino Riccardo.

Armando Di Silvio era il dominus verso cui tutti gli affiliati del Clan si affidavano quando c’era da dire sì o no a determinati episodi criminali: è lui a spiegare a Fusco che Malfetta non sarà più vessato dai suoi; è lui a dirimere la vicenda dell’imprenditore tra Nettuno e Aprilia; è lui ad avere la parola ultima su tutte le attività criminali. Ed è sempre lui a tentare il salto criminale con il reinvestimento dei soldi nell’economia legale (tentò di comprare un terreno a Borgo Isonzo).

Non è mancato, nella requisitoria del pm, anche l’aspetto dei rapporti con la politica. De Lazzaro ha ricordato in particolare la campagna elettorale del 2016 e lo scontro con il gruppo a Terracina, dunque la vicenda che vede coinvolta e processata in altro procedimento Gina Cetrone.

Il pm Spinelli, che fa parte del pool Antimafia di Roma da tempo focalizzato sulla provincia di Latina, ha invece tratteggiato gli episodi dello spaccio, le “sole” rifilate a pesi massimi della mala come i Moccia di Tor Bella Monaca o Peppe D’Alterio di Fondi, focalizzando la sua attenzione anche sul ruolo delle donne e chiedendo che a Giulia Di Silvio, la moglie di Ferdinando Di Silvio detto Pupetto, non sia contestata l’associazione mafiosa.

La requisitoria dei due pubblici ministeri è iniziata alle 9 di mattina e si è conclusa dopo le 18. Un lungo viaggio nella sintassi criminale dei Di Silvio di Campo Boario, in un’aula affaticata da parole che dovevano però essere scolpite davanti al collegio presieduto dal giudice Gian Luca Soana.

25 gli anni chiesti per il boss Armando Di Silvio, in collegamento dal carcere di Sassari, 15 per la moglie Sabina De Rosa11 anni a Francesca De Rosa (moglie di Gianluca Di Silvio), 11 anni alla figlia di Lallà Sara Genoveffa, 15 anni a Federico Arcieri (marito di Sara Genoveffa) e 11 anni ad Angela Di Silvio (moglie di Samuele). Per tutti è contestata l’associazione mafiosa.

Infine per coloro i quali è esclusa l’aggravante del metodo mafioso, 6 anni ciascuno, sia per Giulia Di Silvio (moglie di Ferdinando Di Silvio detto Pupetto) che per Tiziano Cesari.

In una storia criminale di mafia dove sono già stati condannati i figli di “Lallà” a Roma col rito abbreviato (condanna confermata in Appello), si torna in Aula il prossimo 22 giugno con la parola alle parti civili e al collegio difensivo.

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