OMICIDIO MORO: ECCO PERCHÈ E COME È STATO IL LATINENSE CHE VOLEVA FAR FUORI I CIARELLI

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Un'effige piuttosto eloquente appesa alla casa di Via Plutone sgomberata il 29 ottobre dalle Forze dell'Ordine in ottemperanza della confisca nei confronti di Carmine Ciarelli
Un'effige piuttosto eloquente appesa alla casa di Via Plutone sgomberata il 29 ottobre dalle Forze dell'Ordine in ottemperanza della confisca nei confronti di Carmine Ciarelli

La doppia vita criminale di Massimiliano Moro finita con il suo omicidio. Per la DDA si trattò di un delitto di mafia per il controllo del territorio di Latina

Sono stati arrestati oggi 22 febbraio, ma in realtà erano già tutti detenuti (Grenga ai domiciliari), i quattro appartenenti al Clan Ciarelli a cui viene contestato l’omicidio di Massimiliano Moro con l’aggravante mafiosa. Ferdinando “Furt” Ciarelli, fratello del capo-clan Carmine detto Porchettone, Ferdinando Ciarelli detto Macù, figlio di quest’ultimo, e i due acquisiti, poiché sposati con le figlie di Ferdinando Ciarelli e Luigi Ciarelli, Andrea Pradissitto e Simone Grenga. Il primo è considerato il gancio per poter entrare senza sospetti nell’appartamento di Moro: il 31enne, infatti, era stato nella stessa batteria, insieme a Renato Pugliese e ad altri giovani in erba, alla corte criminale di Moro. Il secondo, invece, è ritenuto da investigatori e inquirenti l’esecutore materiale dell’omicidio avvenuto nell’appartamento di Largo Cesti, presso il quartiere Q5 di Latina.

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Sono passati poco più di 11 anni dal 25 gennaio 2010 quando Moro, per gli amici Massimo, fu ammazzato con due colpi: uno alla testa e l’altro al collo.

Andrea Pradissitto

A quanto racconta, de relato, il pentito Agostino Riccardo (la confidenza gli sarebbe stata fatta da Angelo Travali che lo aveva appreso a sua volta da Costantino Di Silvio detto Patatone) ci sarebbe un particolare che si discosta un po’ dalla perizia medico-legale dell’epoca: “Moro aprì e salirono al suo appartamento Pradissitto, Grenga e Ferdinando Ciarelli detto Macù, figlio di Carmine Ciarelli. Siccome Massimiliano Moro aveva fatto insieme a Gianfranco Fiori l’agguato a Carmine Ciarelli, quando vide che insieme a Pradissitto e Grenga vi era anche un componente della famiglia Ciarelli capì subito che c’era qualche problema, allora cercò di allentare la tensione offrendo l’acqua e un caffè. Mentre stava preparando il caffè ed era di spalle, Simone Grenga si avvicinò con la pistola calibro 9 e lo colpì puntando dall’alto verso il basso alla nuca. Mentre Moro cadeva, mi ha detto Angelo, sono intervenuti gli altri che hanno messo Moro in ginocchio (quando appunto aveva già preso il primo colpo) e gli hanno sparato in fronte prendendolo anche a calci allo stomaco. I colpi sparati sono stati due“.

Massimiliano Moro (foto da latina24)

Tuttavia, sia se il secondo colpo sia stato al collo o alla fronte, Marcello Marino quella sera tra le 21 e le 21,30 circa morì ammazzato in una faida che, a distanza di undici anni, è denominata mafiosa anche dalla magistratura. Ma chi era Marcello Marino, ci si domanderà? Era sempre Massimiliano Moro che in seguito all’omicidio di Raffaele Micillo, avvenuto nel 1994, finì indagato per quei fatti. Erano anni caldi quelli: morirono assassinati anche Rinaldo Merluzzi e Sergio Danieli. Micillo morì per questioni afferenti – spiegano gli investigatori – alle contese per i bottini miliardari dei sette uomini d’oro, la compagine tra realtà e mito criminale che nei primi anni Novanta accumula ingenti quantità di denaro tra rapine in banca e un’incursione alle poste. Ma questa è un’altra storia oppure no, poiché una volta indagato per quell’omicidio di Micillo – da cui anni dopo fu scagionato – Massimo Moro decide di espatriare in Romania. Arrestato ed estradato, poco dopo viene scarcerato e alla fine riesce a convergere in Venezuela e a vivere con il nome di Marcello Marino.

Moro tornò nel 2005, oramai al sicuro da condanne, e da lì ripartì la sua ascesa criminale che lo portò all’epilogo: la morte per aver sfidato il potere criminale dei Ciarelli che voleva far saltare in aria con una bomba, così da uccidere i tre capi famiglia: il principale Carmine Ciarelli e i due fratelli Ferdinanto “Furt” e Luigi, recentemente colpito dall’ordinanza Reset che gli contesta il 416bis in quanto fornitore di hashish del Clan Travali. “Massimo – ha dichiarato il pentito Renato Pugliesevoleva ammazzare Carmine, Ferdinando e Luigi Ciarelli in modo da prendere in mano tutta Latina“. E non solo una questione di potere ma anche di debiti e affronti personali: Moro era stato schiaffeggiato da Carmine Ciarelli e in più gli doveva 180mila euro che con un tasso usuraio, tipico del clan di Pantanaccio, era lievitato a 280mila euro. Almeno a quanto sostiene Renato Pugliese.

Renato Pugliese e Agostino Riccardo
Renato Pugliese e Agostino Riccardo, i collaboratori di giustizia, ex affiliati del clan Di Silvio: le loro dichiarazioni sono state dirimenti per l’operazione coordinata dalla DDA di Roma “Alba Pontina” (poi scaturita nel processo omonimo) e condotta dai pm Spinelli, De Lazzaro e Zuin

Al momento dell’omicidio, Moro gestisce una sorta di attività a metà tra la bigiotteria e l’agenzia per modelle e, in quegli anni, dopo il suo ritorno, è al centro di diversi fatti criminali. Sempre a contatto con pesi massimi della mala latinense (tra cui Cha Cha che lo definì dopo la sua morte “un pezzo di merda”, e Gianluca Tuma), Moro, nel 2006, gambizza, per uno sgarbo ricevuto dal nipote, Agostino Riccardo appena fuori dal carcere per l’indulto Mastella/Prodi; nel 2008 gli vengono attribuiti da indagini, poi finite in archiviazioni, e racconti dei pentiti, altre due gambizzazioni ai danni del titolare della nota cornetteria “Ciccio Dolce Notte” e di un uomo albanese, Etmond Collaki, più l’aggressione di una donna (citata anche nell’operazione Reset in quanto madre di un’indagata, ritenuta affiliata al Clan Travali); nel 2009, è coinvolto in un altro episodio di gambizzazione ai danni di un uomo di Aprilia: sarebbe stato lui a dare istruzioni per la spedizione punitiva che doveva ridurre l’uomo su una sedia a rotelle; infine, un anno prima, nel 2008, secondo i due pentiti Pugliese e Riccardo, una bomba a mano, per un debito non pagato, nel giardino di casa di Maurizio De Bellis che – come riportano gli investigatori – all’epoca rappresentava un soggetto di peso nel narcotraffico “dapprima di Pietro Feola, Sandrino Radicioli e quindi di Gianluca Ciprian“.

Da destra Ferdinando Ciarelli, Carmine Ciarelli e Pasquale Ciarelli
Da destra Ferdinando Ciarelli, Carmine Ciarelli e Pasquale Ciarelli

Forte di storie criminali per cui si ritiene “temuto da tutti a Latina”, Moro inizia a progettare la fine del potere criminale dei clan rom che, però, reagiscono duramente, coalizzandosi e rappresentando almeno nella stagione 2010 un unico gruppo mafioso: Ciarelli/Di Silvio.

Come noto, il casus belli è il tentato omicidio di Carmine Ciarelli, il “reuccio del Pantanaccio”, il boss dell’omonima famiglia, colpito da sette colpi di arma da fuoco dentro il quartiere roccaforte di Pantanaccio, davanti al Bar Sicuranza nella notte tra il 24 e il 25 gennaio. Da lì inizia la mattanza, con un particolare da tenere a mente: i Di Silvio, irrobustiti dall’alleanza con i Ciarelli, si mettono in testa di vendicare, dopo sette anni di “pax” mafiosa, la morte di Ferdinando Di Silvio detto il Bello, l’erede al vertice del Clan, fatto saltare in aria a luglio 2003 da un’autobomba presso il Lido di Latina. Volevano regolare i conti, i Di Silvio, che da subito individuano come responsabile il gruppo riconducibile a Carlo Maricca (recentemente destinatario di un provvedimento di custodia cautelare in carcere per quei fatti respinto dal Gip). E per vendicarsi tentano di far fuori Fabrizio Marchetto, riconducibile a quel gruppo e scampato per un fatto fortuito alla morte: una signora che passa sul luogo del delitto fa sfumare il crimine. Anche i killer, almeno in questo caso, hanno usato la loro morale. Per il tentato omicidio di Marchetto, vengono condannati i mancati esecutori Grenga e Pradissitto, a cui oggi si contesta l’omicidio mafioso di Moro. Quello, sì, realizzato.

Simone Grenga

Ma Marchetto è solo un episodio di una lunga scia di gambizzazioni e attentati che prendono il via con il doppio omicidio di Moro (25 gennaio) e Fabio Buonamano detto Bistecca (il giorno 26 gennaio) per cui sono stati condannati Costantino “Patatone” Di Silvio e Giuseppe “Romolo” Di Silvio, rispettivamente figlio e fratello de Il Bello.

Alla preparazione dell’omicidio di Moro, secondo gli investigatori, pensa Ferdinando “Furt Ciarelli che accumulerebbe armi per 50mila euro. Quasi ucciso suo fratello Carmine Ciarelli, Furt prende il suo posto al comando e detta la linea, cosicché in un summit stabilisce ruoli, tempi e modi dell’omicidio Moro. Si doveva lavare col sangue il tentato omicidio di Carmine, per molto tempo attribuito all’affiliato della batteria Moro, su istruzioni dello stesso, Gianfranco Fiori il quale, però, in Appello è stato assolto vedendo, invece, condannato definitivamente Carmine Ciarelli per aver provato a sua volta a farlo ammazzare in due distinte occasioni.

Furt stabilisce che nell’appartamento di Moro vadano Andrea Pradissitto, Simone Grenga e, simbolicamente, uno dei due figli di Carmine “Porchettone”, Ferdinando detto Macù, ritenuto più adatto dell’altro figlio Pasquale.

Moro, come raccontano pentiti e indagine, era un tipo molto diffidente. Faceva vita riparata, sospettoso di tutti, non si girava mai di spalle se stava con qualcuno. E soprattutto non apriva la porta di casa se non sentiva il rintocco di tre squilli al citofono: particolare che solo i pochissimi che potevano entrare in casa sua potevano sapere. Tra quei pochi che potevano permettersi di essere di casa c’erano, tra gli altri, Pugliese, Buonamano (che fu ucciso il giorno dopo che la mala sorte toccò a Moro), Fiori e Pradissitto, ragazzo che prima di sposarsi una Ciarelli e affiliarsi al Clan omonimo, aveva mosso i primi passi criminali nella batteria di Massimo Moro.

La casa confiscata dei Ciarelli/Di Silvio in Via dei Sabini
La casa dei Ciarelli/Di Silvio in Via dei Sabini è stata confiscata in seguito al processo Caronte. Per oltre 4 anni dal provvedimento è rimasta nella disponibilità di Rosaria Di Silvio, moglie di Ferdinando Furt Ciarelli (condannato in Caronte). È stata necessaria l’ennesima bravata dei figli per mettere in pratica il provvedimento della magistratura

Il commando armato sale nell’appartamento di Moro. Nessun bisogno di forzare la situazione: di Pradissitto Moro si fida e anche con Grenga i rapporti sono buoni. Solo che tra di loro c’è anche un Ciarelli, il figlio di Carmine per giunta, l’uomo che meno di un giorno prima è stato raggiunto da sette colpi di arma da fuoco. Lì, secondo Pugliese, Moro capisce che è finita. E non bastò il fatto che il giorno stesso, Moro fosse andato a trovare al Goretti Carmine Ciarelli e che il padre di quest’ultimo, Antonio Ciarelli, gli avesse chiesto di trovare il responsabile e farlo fuori. Tutta una messa in scena: i Ciarelli avevano già sentenziato, Moro era il responsabile e Fiori l’esecutore.

Nessun urlo nell’appartamento di Moro, nessuna porta sbattuta, due colpi e un tonfo sordo: Moro è stato ammazzato, non prima, riportano le indagini, di aver probabilmente detto (ma è altrettanto probabile che sia leggenda): “Non ammazzate me, non sono stato io”. Ricevendo la risposta di Macù: “Non eri degno di ammazzare mio padre”. Indagano Furt, Pradissitto e Grenga ma nel 2015 viene archiviato tutto: prove insufficienti. Oggi, dopo la riapertura delle indagini da parte di Procura di Latina e DDA, la svolta con gli arresti e un cerchio che prova a chiudersi.

Ferdinando “Furt” Ciarelli

L’omicidio Morospiega il pentito Riccardoera la risposta all’agguato che aveva subito Carmine Ciarelli al bar di Pantanaccio. In quell’agguato in cui però non morì, lo stesso Ciarelli aveva detto o fatto capire ai familiari che a sparargli erano stati Moro e il “ciccione” cioè Fiori. Questo me l’ha riferito sempre Costantino Cha Cha Di Silvio. Sempre Cha Cha mi disse che Fabrizio Marchetto si era salvato per miracolo in quanto Andrea Pradissitto e Simone Grenga si erano armati fino ai denti per ucciderlo, evento che non accadde per l’intervento delle Guardie che li arrestarono perché trovarono in possesso di due pistole di grosso calibro. La ragione dell’agguato che poi non fu consumato era di fare fuori tutti quelli che appartenevano ai non rom e che volevano estendersi come forza criminale e controllare il territorio su Latina. Il gruppo non rom era quello che faceva capo a Moro, Mario Nardone, a Maurizio Santucci, ai fratelli Mazzucco. I rom non avrebbero mai lasciato spazio a loro e per questo organizzarono gli agguati. Inoltre Marchetto lo avrebbero comunque dovuto fare fuori perché insieme a Maricca aveva avuto un ruolo nell’omicidio di Ferdinando Di Silvio detto Il Bello“.

Vengo a sapere queste cose e con Grenga mi ci ritrovo a Viterbo (ndr: nel carcere) – specifica Renato Pugliese in un verbale reso alla magistratura. Pugliese, nel 2011 in carcere per altri reati, apprende da Giuseppe Pasquale Di Silvio detto Fiore, figlio primogenito di Armando Lallà Di Silvio (a cui si contesta il 416bis nel processo “Alba Pontina”), tutte le fasi dell’omicidio Moro. Pugliese, a uccisione avvenuta, ha paura di morire anche lui in quanto appartenente alla batteria Moro. “Lui (ndr: Grenga) – continua il racconto di Pugliese – si trova in un reparto, io mi trovo al “Penale”, lui riesce…a fare lo spesino. Lo spesino, capo spesino della Sezione, può andare anche in altre Sezioni, in realtà io già sapevo che lui c’era, quindi mandavo saluti falsi perché io ovviamente non è che faccio capire che Pasquale mi ha detto che lui…Un giorno mi trovo Grenga sul mio piano, al quarto D, a Viterbo, lui mi fa “amico mio”, io lo abbraccio e gli dico queste parole: “Che fai, qui mi abbracci e fuori mi ammazzi?”. E Grenga: “No a te non lo farei mai“.

Carmine Ciarelli
Carmine Ciarelli

L’omicidio del Moro – scrive nell’ordinanza il Gip del Tribunale di Roma che ha firmato le quattro custodie cautelari odierne – è stato deliberato dal sodalizio facente capo alle famiglie Ciarelli e Di Silvio come una delle risposte al tentato omicidio del proprio elemento apicale Carmine Ciarelli. Proprio l’agguato subito da quest’ultimo ha segnato un importantissimo punto di svolta nell’attività criminale del predetto sodalizio bifamiliare, determinandone una immediata alleanza che muovendo da una risposta criminale che avrebbe dovuto essere adeguata – vale a dire immediata e spietata – al fine di riaffermare il proprio potere criminale di quelle forze contrarie che avevano deciso di minarlo con un atto così eclatante. L’omicidio del Moro è solo uno dei più gravi tasselli della risposta del sodalizio Ciarelli – Di Silvio, comprendente anche l’omicidio di Fabio Buonamano e il tentato omicidio di Fabrizio Marchetto un mese dopo mirato a vendicare l’uccisione di Ferdinando Di Silvio detto Il Bello, nonché il tentato omicidio di Silvio Savazzi, Maurizio Santucci e Francesco Alessandro Annoni“.

Investigatori e inquirenti ritengono, dopo un’intensa attività di riscontro portata avanti dalla Squadra Mobile di Latina diretta da Giuseppe Pontecorvo, che per Furt, Pradissitto, Grenga e Macù esistano prove rilevanti. Le celle telefoniche di Pradissitto e Grenga risultano localizzabili, il 25 gennaio 2010, nei pressi della casa di Moro, mentre i telefoni di Macù e Furt sono spenti per un giorno intero. Particolare che fa dire agli investigatori che i due Ciarelli volessero tenersi al riparo da eventuali localizzazioni. A dar manforte alle investigazioni, anche le varie intercettazioni che intercorrono tra Pradissitto e Grenga con i rispettivi parenti.

La stagione dei delitti irrisolti, forse, sta trovando il suo tramonto.

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