Un silenzio assordante. È passata una settimana dalla brillante operazione antimafia “Equilibri” condotta dal Ros dei carabinieri su mandato della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma contro il clan Fragalà, egemone a Sud della Capitale, tra Pomezia, Torvajanica e Ardea. Un’operazione storica che per la prima volta individua, identifica e colpisce una vasta organizzazione criminale di tipo mafioso sul territorio – legata all’omonima famiglia originaria del catanese e da tempo trapiantata in questa area, con legami consolidati nella politica locale e con gli altri clan autoctoni o di matrice camorristica – dedita alle estorsioni, danneggiamento seguito da incendio, detenzione e porto abusivo di armi, traffico di stupefacenti, trasferimento fraudolento di valori e favoreggiamento personale. In 31 sono arrestati, tra loro figura pure Astrid Fragalà, 40enne, figlia del boss Alessandro, il quale già dal 2009 decise di mettere le mani sul litorale sud di Roma e sul Comune di Pomezia, stringendo amicizia con consiglieri comunali e candidati a sindaco – non risultano attualmente indagati Omero Schiumarini e Fiorenzo D’Alessandri – servendosi di loro per decidere anche le sorti del tessuto sociale e commerciale del territorio, piazzando proprio la figlia Astrid a capo della Confcommercio pometina.
Ecco da dove arriva nitido quel silenzio assordante, proprio da Confcommercio, l’associazione di categoria dei commercianti e della piccola e media impresa italiana, che invece di essere tutelate e rappresentate, erano di fatto segregate “in un pesante clima di intimidazione ai danni di commercianti e imprenditori locali, costretti a subire estorsioni attraverso attentanti dinamitardi e minacce”. Gli equilibri ai quali fa riferimento il nome dell’operazione della Dda si ispira proprio alla fitta di rete di amicizie e collusioni strette per preservare le posizioni di potere e sottomissione delle istituzioni e dei cittadini al servizio della mafia. Ma allora, si dirà, Confcommercio è semmai vittima di tutto ciò? In verità ci si chiede come mai sia servita una vasta e complicata indagine durata più di due anni, che si è avvalsa persino del prezioso e “qualificato” pentimento di Sante Fragalà – appartenente alla medesima famiglia – per comprendere una tale situazione? Come mai la Confcommercio locale di Pomezia, quella provinciale e quella della Regione Lazio non si siano accorte di nulla? E perché, se è vero che le attività commerciali di Ardea e Pomezia erano sotto attacco di pesanti minacce, attentati incendiari e bombe dinamitarde, nessuno di quelli che doveva tutelare la categoria, e semmai denunciare, lo ha fatto? E ancora: come è stato possibile che nessuno si sia accorto o abbia saputo che il candidato sindaco Schiumarini, sostenuto nel 2013 dal Pd, incontrava il capo clan Alessandro Fragalà – “L’ho protetta come una sorella – riporta una intercettazione su Schiumarini riferendosi alla Fragalà – l’ho nominata presidente dei Commercianti” – tentando persino di farla diventare assessore: “Tu sei stata in lista per fare l’assessore ad Anzio – ricorda il politico alla figlia del boss – tu quello che sei qui è una cosa, a … a quaranta chilometri … non c’è il collegamento!”.
Dubbi che Confcommercio, solo dopo “gli articoli apparsi sulla stampa” – afferma il sindacato – decide di dissipare con una nota diramata quattro giorni dopo l’operazione “Equilibri”. Eppure il tentativo non riesce, perché la nota si limita a ribadire ciò che tutti sanno, ovvero che la Fragalà non fa più parte del sodalizio confederativo dal luglio 2016, e che comunque loro sono promotori di una serie di iniziative in nome della legalità e contro ogni sopruso. Concetti chiari ma che nulla aggiungono, o meglio sottraggono, alla marea di imbarazzi relativi alla vicenda. Come dire che l’arresto e l’operazione “Equilibri” non li riguarda perché la Fragalà non presiede più la sezione locale dell’organizzazione di categoria. Le parole del comunicato sono di Giovanni Acampora, presidente di Confcommercio Lazio, che appena due giorni prima del blitz antimafia, era stato nominato Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana. Acampora, dunque, rispedisce al mittente le accuse, e se non fosse chiaro, repetita iuvant, sulla pagina Facebook del suo profilo appare per ben quattro volte in un’ora – il 7 giugno – il comunicato appena rilasciato dalla Confcommercio, cioè da lui (due minuti prima). In una delle pubblicazioni Acampora aggiunge: “Tanto per evitare qualsiasi accostamento tra noi e il passato”. A chi e a cosa si riferisce Acampora? Chi è il noi, e, evidentemente, chi è il passato con il quale non si vuole essere mischiati?
Insomma, “scurdammec o’ passat”. Ma c’è passato e passato, anche se per Confcommercio in questo momento sembra non fare alcuna differenza, lontano o vicino che sia. Erano infatti passate appena 24 ore dalla notizia degli arresti definitivi per gli imputati nel processo per estorsione aggravata ribattezzato Formia Connection. Una storia vecchia di 15 anni, arrivata al terzo grado di giudizio e per la quale sono stati condannati Angelo Bardellino (nipote di Antonio, primo boss dei Casalesi), Tommaso Desiato, Gianni Luglio e Franco D’Onorio De Meo. Una storia denunciata alla polizia dalla vittima delle minacce armate e dei pestaggi, il presidente di una cooperativa sociale (Giovanni Cianciaruso) che faceva impresa eseguendo servizi esternalizzati dal Comune. Tutto accade nella città dove Acampora peraltro vive, Formia, e ha fatto politica iscritto all’interno di uno dei tre circoli cittadini del Pd e poi nel 2013, come capo di gabinetto dell’ex sindaco Pd Sandro Bartolomeo. Ma nemmeno per questa brutta vicenda di violenza e di personaggi legati alla criminalità organizzata, Confcommercio Lazio ha deciso di prendere una posizione netta, ufficiale, senza alcuno spazio per gli equivoci.
Silenzi, sfumature e domande senza risposta che non sono una novità assoluta. Perchè a guidare la Confcommercio Lazio prima di Acampora, mentre contemporaneamente presiede pure la Camera di Commercio di Latina, c’era un altro cittadino del Golfo, lo spignese Vincenzo Zottola. A differenza di Zottola (forse si riferisce a lui Acampora quando afferma di non mischiare il presente col passato?) Acampora – alla guida di Confcommercio – non è mai finito in alcuna zona d’ombra, ma è protagonista dello stesso silenzio assordante. Nel novembre del 2011, i poliziotti della Squadra Mobile della Questura di Latina e i finanzieri del Nucleo di Polizia Tributaria di Roma della Guardia di Finanza eseguirono un’imponente operazione di polizia, coordinata dai magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, nei confronti di un “gruppo camorristico operante nel basso Lazio”, diretta espressione del clan “dei casalesi” – frangia SCHIAVONE, e facente capo alla nota famiglia BARDELLINO, originaria di San Cipriano d’Aversa (CE) e da anni insediata nel Comune di Formia (LT)”. Secondo gli inquirenti questa associazione criminale avrebbe messo in piedi una potente struttura dedita alle estorsioni e che aveva come capi Angelo e Calisto Bardellino. L’organizzazione – secondo le prime indagini – avrebbe scelto il resort “Aenea’s Landing” di proprietà di Zottola, in riva alla splendida spiaggia dell’Arenauta, come base logistica e operativa per i propri summit, e lo stesso Zottola avrebbe consentito l’ingresso tra il personale della sicurezza di un uomo vicino al gruppo. Tutta l’indagine fu poi smantellata dal tribunale del Riesame di Napoli per “inesistenza degli indizi di colpevolezza”.
Una strana vicenda, tanto rumore per nulla, sulla quale Zottola non disse una parole né prima e né dopo. Una indagine con tanti uomini impiegati, intercettazioni telefoniche, indagati dal nome altisonante, ma in meno di un mese dal blitz tutto svanisce nel nulla. Restano però le parole dell’allora presidente dell’Ascom di Formia, Gianni Gargano, fedelissimo di Zottola, ma oggi pure di Acampora (Gargano è stato locatario e gestore di uno dei tre chioschi presenti in città e di proprietà di Acampora la cui vicenda giudiziaria e giornalistica lo portò a dimettersi dal ruolo di capo di Gabinetto) che affermò: “Certamente ci sono situazioni di atteggiamenti camorristici sul nostro territorio, ma a Formia non abbiamo alcuna percezione della presenza della camorra, non c’è alcuna pressione. Sicuramente capitali illeciti entrano in città per acquisire attività, queste persone trovano sempre la testa di legno per operare ma comunque si vede chi sono. Le infiltrazioni camorristiche sono di carattere economico”. Parole che avrebbero dovuto rassicurare ma che a riascoltarle oggi sortiscono l’effetto contrario.
Ma tre indizi fanno una prova e lo conferma lo stesso Gargano quando afferma – nel 2011 – che nonostante si possano dormire sonni tranquilli perché non c’è traccia di pizzo o estorsioni da parte della criminalità organizzata, esistono tuttavia problemi che vanno affrontati come l’ingresso di strani capitali, usura e banche. Sono passati otto anni da allora, ma a quanto pare, semmai, la situazione è pure peggiorata. E allora vale la pena chiedersi perché la Confcommercio in casi come quelli appena citati e come quello che stiamo per citare, non dica una parola, organizzi una conferenza stampa, dirami una nota chiarificatrice, perché dopotutto di foto, strette di mani e protocolli ce ne sono fin troppi, ma la totale assenza azioni di peso contro la cronaca degli ultimi giorni lascia un vuoto che andrebbe colmato. Ci chiediamo semplicemente perché? Perchè Ascom Formia, Confcommercio Lazio o chi per loro non hanno detto una parola dopo la chiusura di una attività storica sul suolo formiano come La Caffetteria, schiacciata dai debiti a causa di un’azione usuraria messa in atto da una banca? E perché non lo hanno fatto per il cinema Multisala del mare che a stretto giro ha denunciato pressapoco la stessa cosa? Ma un’associazione che tutela le imprese deve o no preoccuparsi se ci sono sul territorio fenomeni inquietanti, denunciando quanto accade anche fosse solo per sensibilizzare su determinati temi legalitari e comunque a prescindere dall’operato della magistratura?
Molto più recenti, ma altrettanto inquietanti, sono invece le scottanti rivelazioni di un pentito, Agostino Riccardo, sentito nel luglio dello scorso anno, in carcere, nell’ambito delle indagini relative al processo Alba Pontina contro il clan Di Silvio di Latina al quale Riccardo è stato fino al suo arresto affiliato. Ebbene Riccardo riferisce ai magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia della conoscenza fatta proprio nelle patrie galere con Gianni Luglio, altro condannato di Formia Connection: “Era in galera con me e sono stato io a prendere la conoscenza“. E ancora: “Se dovevamo fare estorsioni fuori dal territorio di Latina ci rivolgevamo alle organizzazioni criminali che controllavano il territorio o a persone che le rappresentavano, ad esempio a Sabaudia la famiglia Serrapiglio, a Fondi i D’Alterio, a Terracina Genny Marano, figlio di Licciardi, a Pontinia Gianluca Campoli, marito di Shara Travali, e Davide Capodiferro, a Formia Gianni Luglio, affiliato al clan Bardellino, a San Cosma e Damiano Ettore Mendico (Clan dei Casalesi) e Giuseppe Sola, a Sezze Ermes Pellerani (che è riuscito a prevalere su Piero de Santis), a Latina Scalo Gianfranco Simeone e Gianfranco Mastracci, ad Aprilia avevamo contatti con Nino Montenero(cognato di Patrizio Forniti) tramite il figlio Dimitri, detto Pannocchia, a Anzio-Nettuno con la famiglia Sparapano e Gallace“.
Passato e presente si confondono. Rivelazioni e silenzi pure. Ovviamente alla magistratura spetta il compito di ricostruire la verità giudiziaria, ai giornalisti raccontare la cronaca ma anche i retroscena e, infine, nel caso di specie, alla Confcommercio quello di rivendicare la bontà del proprio operato, difendere le economie locali, dissipare le ombre che certe indagini e certi processi fanno emergere, chiarire ruoli, circostanze, nomi e contiguità che inevitabilmente alimentano quelle zone grigie che popolano le comunità, le istituzioni e le imprese sul territorio nazionale: basti pensare, e solo per citare l’ultimo straordinario caso in ordine di tempo, alla vicenda di Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia, paladino dell’antimafia capace parallelamente di portare avanti i propri interessi criminali grazie al rumore del silenzio altrui. Un caso emblematico di certa Italia, che ovviamente nulla ha a che vedere con Confcommercio Lazio e i suoi rappresentanti – nemmeno per analogia – ma che spiega, semmai ce ne fosse ancora bisogno, quanto sia importante fare in modo che di assordante resti solo l’affermazione dell’appartenenza e della responsabilità.