Quanti sono sul territorio pontino nessuno lo sa. Anzi, c’è solo un unico organismo che ne ha contezza e custodisce la segretezza. Stiamo parlando dei pentiti o collaboratori di giustizia, spesso ex appartenenti a famigghie e cupole del sud, che vivono a Latina e provincia. E il fenomeno è diventato drammaticamente d’attualità, per la sicurezza della città, a due giorni dall’episodio, reso noto dal Comando Provinciale dei Carabinieri, che ha avuto come protagonista l’ex affiliato a Cosa Nostra Silvio Guerrera, di stanza a Latina senza che nessuno lo sapesse.
La risposta sul numero degli ex affiliati a mafia, camorra e ndrangheta ecc. la conosce solo il Servizio Centrale di Protezione, la struttura interforze presso il Dipartimento della Pubblica Sicurezza – Direzione Centrale della Polizia Criminale del Ministero dell’Interno.
Questo speciale servizio cura l’attuazione dei programmi di protezione e assistenza, compresa la promozione delle misure di reinserimento nel contesto sociale e lavorativo dei testimoni e collaboratori di giustizia, nonché degli altri soggetti ammessi al programma di protezione. Mantiene i rapporti con le Autorità Giudiziarie, e di Pubblica Sicurezza, nazionali ed estere, nonché con i competenti organi dell’Amministrazione Penitenziaria e con tutte le Amministrazioni centrali e periferiche eventualmente interessate all’attuazione delle misure di protezione. Tramite i Nuclei Operativi di Protezione (NOP), con competenza regionale o interregionale, agisce per la diretta attuazione delle misure di assistenza previste dal programma di protezione e garantisce il necessario supporto.
È bene sottolineare che i collaboratori di giustizia o pentiti non hanno nulla a che vedere con i testimoni di giustizia, anche loro di competenza del Servizio Centrale Operativo, poiché quest’ultimi non hanno commesso alcun reato, anzi spesso ne sono stati vittime, e hanno deciso di collaborare con lo Stato fornendo informazioni utili alle indagini così da mettere a rischio la loro vita e quella dei propri famigliari. È il caso, ad esempio, di Piera Aiello, testimone di giustizia legata a Paolo Borsellino, che dopo quasi un ventennio dalla morte del grande magistrato è diventata parlamentare della Repubblica italiana nel 2018 (vedi video a seguire).
La popolazione protetta, in Italia, ammonterebbe a 6246 persone, tra collaboratori e testimoni di giustizia, tuttavia i destinatari diretti di protezione sono 1319. Di questi, 78 sono i “testimoni di giustizia“.
La parte restante del totale, a quanto riportano gli ultimi dati, arriva a 4700 persone, ed è composta dai famigliari dei collaboratori di giustizia ossia i pentiti che hanno usufruito di uno sconto di pena – come il fratello del pentito Biagio Girolamo Bruzzese, il povero Marcello che, solo pochi mesi fa, a dicembre 2018, è stato ucciso a Pesaro.
La famiglia più numerosa, a quanto riporta la rivista Wired, è quella del “chimico” di Cosa Nostra, Francesco Marino Mannoia, che ha coinvolto nelle misure di protezione una ventina di persone, sfruttando un regime economico particolarmente favorevole dovuto alla collaborazione con la Fbi statunitense. Il contributo che lo Stato offre ai suoi collaboratori si aggira tra i 1000 e i 1500 euro al mese, con un bonus di 500 euro per ogni famigliare a carico e una serie di benefit che vanno dalle spese mediche all’affitto dell’immobile pagato.
Sembrerebbe che la maggior parte dei collaboratori di giustizia provenga dalla camorra (circa 600 pentiti), mentre la mafia siciliana conta oggi poco più di 300 persone sotto la protezione dello Stato. Duecento sono gli ex-ndranghetisti e un centinaio gli affiliati alla Sacra Corona Unita; nella lista ci sarebbero anche collaboratori sudamericani, africani e dell’est-Europa.
Per ragioni di sicurezza che possono facilmente comprendersi non esistono, però, i dati sulla distribuzione territoriale dei pentiti, vale a dire l’elemento disaggregato che ci permetterebbe di stabilire quanti e quali sono i pentiti presenti nella varie province d’Italia, tra cui Latina.
Dati che però affiorano, ad esempio nel capoluogo pontino, di tanto in tanto. Non attraverso analisi statistiche o studi di criminologia, ma tramite la cronaca nera.
È di due giorni fa, come si era accennato, la notizia di Silvio Guerrera, uno degli ex reggenti della cosca palermitana di Tommaso Natale-Cardillo. Coinvolto insieme a padrini e picciotti nell’operazione Apocalisse, in seguito ad essa si è pentito raccontando scenari rilevanti rispetto a Cosa Nostra (come il proposito di uccidere il pm Nino Di Matteo).
È saltato fuori dal nulla, Silvio Guerrera, agli occhi di cittadini ignari, rendendosi protagonista di uno stupro ai danni di una donna marocchina, avvenuto a Latina nell’androne del suo palazzo. Veloce e brutale l’aggressione sessuale che ha indotto la donna a denunciarlo in quanto, peraltro, avrebbero subito pressioni e soprusi anche i suoi due bambini.
Un caso isolato si dirà, anche perché il timore più grande per queste presenze in terra pontina è francamente un altro. Latina e provincia, da nord a sud, sono stati da sempre, sin dai tempi di Frank Tre Dita Coppola, terreno di conquista di malavitosi non profeti in patria. Soggetti o famiglie estradati da altri Paesi, oppure in fuga da situazioni pericolose poiché soccombenti di una faida. Un tempo si sarebbe detto al confino, oggi in allontanamento obbligatorio: notissimo il caso dell’ex sindaco di San Cipriano d’Aversa Ernesto Bardellino, fratello del fondatore del clan dei Casalesi Antonio, stabilitosi a Formia negli anni ottanta, ad appena una settantina di chilometri da Casal di Principe da dove presumibilmente doveva allontanarsi in quanto, all’epoca, era in corso una guerra di camorra con l’ala di Francesco Sandokan Schiavone che stava prevalendo. Quale la ratio di questa scelta dello Stato rimane sinceramente poco intelligibile.
Ma ciò che più inquieta in riferimento ai pentiti che poi si pentono di essere pentiti (un fenomeno che purtroppo ha una corposa letteratura nel crimine italiano) è che talune volte, queste figure, si intridono nel tessuto criminale che trovano sul territorio, con allacci mortali alle consorterie locali, cosicché non è un caso che collaboratori di giustizia, o parenti facenti parte del programma di reinserimento da parte dello Stato, tornino a delinquere.
E non fu, a tal proposito, adeguatamente sottolineato, all’epoca dei fatti, una vicenda, che rimase sepolta nel tanfo della cronaca nera locale, risalente all’ottobre del 2014 e che vide protagonisti i giovani Di Silvio, Samuele e Gianluca ad ora ristretti in carcere per associazione mafiosa dopo l’operazione Alba Pontina del 2018, e un soggetto apparentemente estraneo al mondo dei clan di origine nomade: Salvatore Sparta Leonardi.
I tre, insieme ad altri due minorenni appartenenti al clan rom, si scagliarono in zona Pub, la zona della movida di Latina, contro un ragazzo albanese di venti anni reo di aver chiesto spiegazioni per uno screzio avvenuto qualche giorno prima. Figlio di lavoratori, persone perbene che lavorano duramente e onestamente, fu colpito con una mazza da baseball e pestato. Riuscì miracolosamente a scamparla grazie all’intervento di un amico che gridava di aver chiamato la Polizia.
Il ragazzo albanese denunciò i suoi aggressori che, poi, in primo grado subirono, condanne non esemplari ma significative: tre anni e quattro mesi di reclusione Salvatore Sparta Leonardi, a tre anni Samuele Di Silvio e a due anni Gianluca Di Silvio.
Ma il punto è che l’allora 33enne Sparta Leonardi era figlio di Carmelo Sparta Leonardi, pentito e poi pentito di essere pentito, affiliato a Cosa Nostra catanese, di cui proprio in questi giorni si fa un gran parlare in riferimento al presunto clan Fragalà della zona Pomezia-Torvajanica-Ardea.
Sentito al telefono per il caso Guerrera, il maggiore Carlo Maria Segreto dei Carabinieri di Latina, dal 2016 nel capoluogo pontino, ci dice che non è così frequente che collaboratori o ex collaboratori entrino in contatto con i clan del territorio dove sono ospitati ma, ammette, il rischio c’è, confermandoci che anche loro non sanno effettivamente quanti pentiti vi siano sul territorio, poiché tutto è gestito dal Servizio Centrale di Protezione.
Ai tempi de Il Traditore di Marco Bellocchio, il film sulla vita di Tommaso Buscetta in queste settimane nei cinema italiani, il dubbio che il territorio possa non essere al sicuro permane sopratutto, in ragione del fatto, che la provincia pontina appare sempre più infiltrata. Un humus, per l’appunto, molto fecondo per chi, provenendo da una storia di cosche e faide, possa riprovare il gusto di andare di nuovo sulla bicicletta della malavita.