Omicidio Moro: nuova udienza del processo che contesta ad appartenenti del clan Ciarelli e Di Silvio l’aggravante mafiosa
Si è svolta oggi, 21 novembre, davanti alla Corte d’Assise presieduta dal Giudice Gian Luca Soana, una nuova udienza del processo in cui sono imputati, per omicidio con l’aggravante mafiosa, Ferdinando Ciarelli detto “Macù” (figlio del capo-famiglia Carmine detto Porchettone), Antoniogiorgio Ciarelli (fratello di Porchettone), Simone Grenga (legato al clan del Pantanaccio per aver sposato la figlia del numero tre del sodalizio, Luigi Ciarelli) e Ferdinando Di Silvio detto Pupetto, già condannato con sentenza passata in giudicato per reati aggravati dal 416 bis (processo Alba Pontina) e figlio del capo-famiglia Armando Di Silvio detto “Lallà”.
Nella scorsa udienza, ascoltati come testimoni, esaminati dal Pm Luigia Spinelli e contro-esaminati dal collegio difensivo composto dagli avvocati Siviero, Farau e Nardecchia, un Commissario della Questura di Latina che, all’epoca dell’omicidio, in servizio alla Squadra Mobile di Latina, svolse le indagini, senza contare il suo contributo quando le indagini furono riaperte dieci anni più tardi per le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia: Renato Pugliese, Agostino Riccardo e soprattutto Andrea Pradissitto, legato al clan Ciarelli avendo spostato la figlia del numero 2 del clan Ciarelli, Ferdinando detto “Furt”. Testimoni della scorsa udienza (leggi al link di seguito l’approfondimento), anche i due padroni di casa che, loro malgrado, si videro occupata la casa da Massimiliano Moro: la stessa abitazione, ubicata in Largo Cesti 32, nel quartiere Q5, a Latina, dove Moro fu ucciso. E, infine, il 35enne Gianfranco Fiori, imputato per il tentato omicidio di Carmine Ciarelli detto “Porchettone”, commesso il 25 gennaio 2010 alle ore 7,30, per cui fu assolto (Carmine Ciarelli, invece, è stato condannato come mandante dei tentati omicidi contro Fiori, individuato dai sodalizi rom com colui che premette il grilletto e scaricò sette colpi d’arma fuoco contro il boss del Pantanaccio).
Il tentato omicidio di Ciarelli fu il detonatore alla mattanza messa in piedi dai clan rom, Di Silvio e Ciarelli, che si allearono per vendicare si quell’affronto che l’omicidio con l’autobomba al lido di Latina che significò la morte di Ferdinando Di Silvio detto il “Bello”.
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Come noto, l’ipotesi degli inquirenti, da sempre, è che l’episodio dell’attentato contro Carmine Ciarelli scatenò la furia della guerra criminale pontina tra clan rom e malavita latinense guidata da Moro e Mario Nardone. 24 ore dopo l’omicidio di Moro, il 26 gennaio 2010, fu ucciso Fabio “Bistecca” Buonamano per mano di Giuseppe “Romolo” Di Silvio e Costantino Di Silvio detto “Patatone” (entrambi condannati per quell’omicidio). Successivamente, nel corso del 2010, una lunga scia di regolamenti di conti, estorsioni e richiesta di pizzo a tutta una serie di pregiudicati non rom e gambizzazioni nell’ambito di una strategia stragista che, tuttavia, non concretizzò tutti gli omicidi che i clan rom si erano messi in testa di compiere.
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Oggi, ad essere esaminati e contro-esaminati dal Pm Luigia Spinelli e dal collegio difensivo degli avvocati difensori quattro appartenenti alla Polizia di Stato che, dodici anni fa, hanno condotto parte delle complesse indagini attorno all’omicidio di Massimiliano Moro. Il collegio difensivo, composto dagli avvocati Farau, Nardecchia e Siviero, ha avuto una rinuncia, quella dell’avvocato Casciele, e una new entry: si tratta dell’avvocato del Foro di Roma, Alessandro Diddi, anche promotore di giustizia al Vaticano (una sorta di Pubblico Ministero al di là delle mura leonine) nominato direttamente da Papa Francesco.
L’avvocato Diddi è il nuovo difensore di uno dei quattro imputati, Ferdinando “Macù” Ciarelli, figlio di “Porchettone”.
Prima delle escussioni dei testimoni, il Pm Spinelli ha depositato agli atti del processo un CD con diversi documenti e fotografie relative al luogo dell’omicidio. Il primo testimone è stato un sostituto commissario di Polizia che fece i sopralluoghi sul luogo del delitto avvenuto 12 anni fa. Il sostituto commissario ha ricostruito le fasi successive all’omicidio, descrivendo la scena del crimine: una porta aperta al quarto piano della palazzina da otto piani in Largo Cesti 32 e nessun segno di effrazione né di anomalia o precedente colluttazione. Un’abitazione normalissima, ha detto il poliziotto, confermando che il citofono né il campanello della porta di casa recavano il nome di Moro.
Sul posto, furono ritrovati 2 bossoli calibro 9 e 2 ogive, oltreché a due puti che in gergo si chiamano di impatto: un foro nella cucina e un secondo foro sotto il lavello. Il cadavere riverso nel pavimento del soggiorno, ventre a terra, tra il tavolo della cucina e la parete. Una vistosa macchia di sangue e la testa forata nella regione occipitale di sinistra e un’altra lesione da arma da sparo sul collo. Camera da letto e bagno erano a posto, mente la televisione e il computer furono trovati accesi.
Successivamente, sul luogo del delitto, nella stessa sera, furono effettuati rilievi sulla porta e sul citofono che diedero esito negativo (nel senso che non c’erano tracce). Ad ogni modo, per speditezza del processo, sono stati depositati dal Pm tutti i rilievi della polizia scientifica ultimati oltre 12 anni fa.
Ascoltato, in seguito, un altro poliziotto, all’epoca dei fatti in servizio alla Digos di Latina. L’ex poliziotto ormai in pensione ha riferito che la stessa sera del delitto, in ausilio alla Squadra Mobile, fermò, insieme a un altro collega, un ragazzo in Via Corridoni, all’incrocio con via XVIII Dicembre, presso il quartiere Nicolosi: si trattava di Samuele Di Silvio, il figlio di “Lallà” coinvolto in diverse indagini e deceduto nel carcere di Agrigento lo scorso febbraio. Inoltre, fu identificato Andrea Pradissitto, legato al clan Ciarelli e ad oggi collaboratore di giustizia, le cui dichiarazioni sono state piuttosto rilevanti per far riaprire il caso dell’omicidio Moro.
Come ultimi testimoni sono stati interrogati due agenti di Polizia, all’epoca dei fatti in servizio alla Scientifica. Uno dei due poliziotti ha, infatti, eseguito attività di ricerca sui luoghi dell’omicidio e in seguito anche i prelievi sulle auto e i rilievi sulle mani di Massimiliano Moro e alcuni componenti di quella che nel 2010 era ancora la sua “batteria”: Federico Fanti, Angelo Travali, Francesco Viola e Andrea Pradissitto.
Le analisi hanno rilevato particelle di sostanze riconducibili allo sparo sulle mani di Moro e Pradissitto. Anche all’interno dell’Audi in uso a Moro c’erano alcune particelle di piombo, antimonio e bario (i tre elementi più riconducibili allo sparo) e altre sostanze. Le particelle sulla mano di Andrea Pradissitto risultavano, invece, riconducibili allo sparo ma non compatibili con quelle trovate sulla mano di Moro. Da premettere, come osservato dall’agente di Polizia, che, dopo 6, 8 ore, le particelle si deteriorano e Pradissitto fu controllato dopo 29 ore.
L’ultimo agente di Polizia ascoltato (il quarto) ha confermato l’ordinarietà sulla scena del crimine. Moro fu ucciso da un killer che, secondo la testimonianza dell’agente, specializzato in balistica, era alto 1 metro e 80, da una distanza di circa 37 centimetri, o comunque entro il metro.
Secondo l’agente, Moro stava in cucina in una situazione di tranquillità. La scientifica specializzata nella balistica si recò sul luogo del delitto il 30 marzo, a due mesi dall’omicidio. La traiettoria del primo colpo che uccise Moro, secondo gli esperti, fu tesa, mentre la seconda ebbe una inclinazione tendente più ad essere dall’alto verso il basso; senza contare che il primo colpo ha toccato un mobile presente, nonostante secondo il poliziotto tale aspetto non ha determinato alcuna deviazione. Sul punto c’è stato un contro-esame piuttosto sostenuto, una piccola battaglia in aula sulla balistica del tiro che determina più o meno l’altezza dello sparatore e quindi l’identità del killer.
Infine, la Corte d’Assise ha rinviato il processo alla prossima udienza del 19 dicembre: ad essere ascoltati due testimoni per cui è stato disposto l’accompagnamento coattivo e il collaboratore di giustizia Renato Pugliese, anche lui all’epoca molto vicino a Moro ma, al momento dell’omicidio, ristretto in carcere.