Clan Ciarelli, parla l’ex affiliato e oggi collaboratore di giustizia Andrea Pradissitto: “Mio suocero aveva contatti con i servizi segreti”
È ripreso il processo scaturito dall’operazione denominata “Purosangue” in cui si contestano reati aggravati dal metodo mafioso ai principali componenti del clan di origine rom Ciarelli. L’indagine, come noto, è stata finalizzata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Roma e dalla Squadra Mobile di Latina, portando ad arrestare i vertici della famiglia a giugno 2022.
Il processo vede alla sbarra i capi, tranne Luigi Ciarelli (il numero tre del sodalizio, processato nell’altro processo antimafia sui clan rom denominato “Reset), di quello che tutti a Latina conoscono come il clan Ciarelli, la famiglia che aveva eletto la propria base nel quartiere Pantanaccio, alla periferia di Latina. Sul banco degli imputati, ci sono personaggi di rilevante caratura criminale come Carmine Ciarelli detto “Porchettone” e suo fratello Ferdinando Ciarelli detto “Furt”. Tra i reati più importanti, varie vicende di estorsione, violenza privata, danneggiamento, usura. Dieci in tutto gli episodi estorsivi raccolti dagli investigatori e finiti nel processo.
Oggi, invece, davanti davanti al collegio del Tribunale presieduta dal giudice Gian Luca Soana, è stato esaminato il collaboratore di giustizia Andrea Pradissitto, non proprio uno qualunque. Il 34enne pontino, infatti, è sposato con Valentina Ciarelli, figlia di Ferdinando Ciarelli detto “Furt” e di Maria Rosaria Di Silvio, sorella del boss Armando “Lallà” Di Silvio, capo del clan omonimo a Campo Boario.
L’udienza iniziata poco prima delle ore 13 è continuata per tutto il pomeriggio solo con l’esame e le domande del pubblico ministero Valentina Giammaria, oggi in rappresentanza della DDA di Roma. Il collegio composto dagli avvocati Montini, Forte, Carradori, Vittori, Vasaturo, Farau, Palmiero, Nardecchia e Coronella contro-esaminerà il pentito nella prossima udienza, non avendo avuto a disposizione il verbale d’apertura e chiusura di Pradissitto. Un accordo stabilito con il collegio dei giudici, dopo che lo stesso Presidente Gian Luca Soana aveva stigmatizzato la richiesta di rinvio da parte degli stessi avvocati.
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Ad ogni modo, le dichiarazioni di Pradissitto hanno ripercorso ad ampio raggio e alla radice la natura del clan Ciarelli, definito non solo da lui come il sodalizio che per anni “ha comandato su Latina”.
“Ho deciso di tagliare ogni legame con la famiglia di appartenenza, l’ho fatta per mio figlio e moglie” – ha spiegato all’inizio della sua deposizione Pradissitto. Il 34enne di Latina, sollecitato dalle domande, ha confermato quanto successe durante la guerra criminale del 2010. Fu dopo gli omicidi di Massimiliano Moro e Fabio “Bistecca” Buonamano che i Ciarelli e i Di Silvio decisero la linea stragista che avrebbe dovuto far fuori tutti i nemici che i rom avevano a Latina.
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“Dopo l’omicidio di Bistecca avvenuto il 26 gennaio 2010 – ha detto Pradissitto – ci riunimmo a casa di Armando Di Silvio detto Lallà a Campo Boario. Per i Di Silvio del Gionchetto c’erano Carmine Di Silvio (nda: detto “Porcellino”) e Fabio Di Stefano (nda: genero del boss Giuseppe “Romolo” Di Silvio) e poi c’eravamo noi Ciarelli con mio suocero Ferdinando. È lì che decidemmo di unirci tra i Ciarelli e Di Silvio. I Ciarelli si occuparono dell’aspetto economico per sostenere le latitanze di “Romolo” e Costantino “Patatone” Di Silvio, responsabili dell’omicidio di Bistecca. Volevamo prendere il controllo totale. Nella lista dei nemici da eliminare c’era Carlo Maricca, i fratelli Mazzucco, Maurizio Santucci, Fabrizio Marchetto e Mario Nardone. Il gruppo di Lallà si sarebbe occupato dei fratelli Mazzucco, il Gionchetto di Maricca e Nardone e noi Ciarelli Marchetto”. Per Marchetto, infatti, agirono Pradissitto e Simone Grenga, rispettivamente generi di Furt Ciarelli e Luigi Ciarelli, ma, dopo un tentativo andato a vuoto, furono arrestati dalla Polizia prima di sparare: Marchetto doveva essere ucciso perché riconosciuto come l’esecutore materiale della bomba che ha fatto esplodere Ferdinando “Il Bello” Di Silvio a Capoportiere. Alla fine la linea stragista si risolse con una serie di gambizzazioni, ma nessuno degli obiettivi fu ucciso.
Tuttavia, gli elementi più suggestivi delle dichiarazioni di Pradissitto sono riferibili a due aspetti, uno dei quali non era ancora emerso. Si tratta di un tentativo di pressioni che Pradissitto avrebbe fatto fatto in carcere sull’imprenditore dei rifiuti, Raffaele Del Prete, imputato per voto di scambio politico mafioso in quanto la DDA di Roma lo accusa di aver pagato l’ex affiliato ai Di Silvio, Agostino Riccardo, in modo da comprare voti per un consigliere comunale eletto con la Lega nel 2016: Matteo Adinolfi, prima indagato e poi archiviato dalla stessa Antimafia.
“Ho conosciuto Raffaele Del Prete in carcere e ho chiesto a lui di intervenire su Gianfranco Sciscione (nda: proprietario del gruppo a cui fa capo Lazio Tv) per abbassare l’oppressione mediatica su di noi. Chiesi a Del Prete perché sapevo che c’era amicizia tra lo stesso Sciscione e Del Prete per via di una squadra di calcetto a Terracina. Sciscione avrebbe dovuto far abbassare i toni di Lazio Tv sui Ciarelli”.
Ma se questo è un aspetto quasi “di colore”, sebbene non sia così banale, ciò che è stato rimarcato è il legame che Ferdinando Ciarelli detto “Furt”, il suocero di Pradissitto, avrebbe avuto con i servizi segreti italiani.
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Pradissitto è netto sul suocero: “Lo conobbi quando facevo rapine con Renato Pugliese, ma la sua fama lo precedeva. Quando entrai nella famiglia Ciarelli, dopo essermi sposato con la figlia, capii che a comandare in realtà non era tanto Carmine Ciarelli, ma proprio mio suocero Furt: il più temuto perché il più feroce. Aveva contatti con persone istituzionali e con criminali di strada. E poi aveva questo legame con un certo Lorenzo che era dei servizi segreti, me lo disse proprio lui prima in carcere e poi in un’altra circostanza“.
“Questo Lorenzo – ha proseguito Pradissitto – aveva dato una mano a Carmine per uscire dal carcere ed essere ricoverato in clinica, e così fece anche con la suocera di mio suocero. Poi, dopo l’omicidio di Massimiliano Moro, Lorenzo andò da mio suocero Furt insieme ad altre persone: volevano la pistola che aveva ucciso Moro, così da creare un alibi per i Ciarelli e scagionarli del tutto. Avrebbero fatto in modo di incolpare qualcuno che invece era innocente. In cambio mio suocero doveva diventare referente di latina per i servizi segreti“.
Episodi tutti da verificare, senza dubbio, ma Praddissitto non arretra e conferma altri particolari: “Furt fu fermato dalla Guardia di Finanza a Fiumicino con 200mila euro che gli aveva dato una persona che era venuta da Milano. Lo fermarono ma nel tragitto che doveva portare Furt in stato di arresto intervenne Lorenzo dei servizi segreti e mio suocero fu rilasciato”.
“Furt si occupava di usura, rivendite d’auto con Peppe Corvino che aveva una concessionario sulla Nettunense e faceva da prestanome”. Non solo servizi segreti, Pradissitto svela che per il processo Caronte – quello che ha comminato severe condanne a carico dei Ciarelli e dei Di Silvio dopo la guerra criminale del 2010 – “c’era la possibilità di dare soldi a un nostro gancio per alleggerire le nostre posizioni ed essere assolti“.
E ancora, per far capire la potenza di “Furt”, Pradissito sostiene che il suocero estorse un imprenditore di Aprilia, in affari con Patrizio Forniti, indicato dai collaboratori di giustizia Agostno Riccardo e Renato Pugliese come il vero “capoccia” del narcotraffico pontino. Di prestanome, peraltro, Furt ne avrebbe avuto anche per intestare terreni sparsi su Latina e non risultare proprietario di nulla: “Li intestava a tre fratelli di cui non ricordo il nome”.
Non sono mancati nel clan Ciarelli anche i dissidi. Emerge, infatti, dal racconto di Pradissitto, che Luigi Ciarelli, il numero tre del clan nonché narcotrafficante di un certo peso, andò in rotta di collisione quando decise di mettersi in affari con i fratelli Travali, invisi al sodalizio del Pantanaccio. Luigi Ciarelli, come noto, era il fornitore di hashish per il clan Travali, un’accusa a cui deve rispondere nel processo antimafia denominato “Reset”.
Un fiume, Pradissitto, che ripercorre estorsioni, affari di usura e crimini tutti intestati alla famiglia Ciarelli. E soprattutto rapporti con gli altri clan del Lazio e oltre: dai Casamonica ai catanesi Fragalà di Pomezia, fino ai Lo Piccolo, famiglia siciliana della cosiddetta “aristocrazia” di Cosa Nostra. E ancora, le relazioni con i narcotrafficanti Gianluca Ciprian, Pietro Canori e Luca Finocchiario, a cui Carmine Ciarelli avrebbe prestato i soldi per comprare la droga, sulla quale a sua volta chiedeva il pizzo.
Un racconto che è sembrato senza sconti, anche verse se stesso, confermando l’estorsione fatta in carcere all’avvocato vicino a Pasquale Maietta. Pradissitto, infatti, ha parlato da imputato per reato connesso, dal momento che in questo procedimento gli sono contestati alcuni reati.
Eppure, al di là del racconto di Pradissitto, l’immagine più esemplificativa è quella di un testimone che è stato interrogato per pochi minuti prima che iniziasse l’esame di Pradissitto. Si tratta di un giovane che faceva la sicurezza privata a uno dei locali della zona pub di Latina. Una testimonianza quasi anonima in cui doveva riferire rispetto a una rissa capitanata dal violento Roberto Ciarelli, già condannato col rito abbreviato. Dopo aver risposto in maniera evasiva al pubblico ministero, il giovane è stato congedato dal Tribunale e uscendo ha salutato con rispetto alcune donne del clan. Anche questo vorrà dire qualcosa per una città che difficilmente cambia.
Il processo proseguirà il prossimo 24 maggio con il controesame di Pradissitto. Fissata anche una seconda data per il proseguo: 28 giugno.