PROCESSO ANDROMEDA: CONDANNE DEFINITIVE PER ALCUNI DI SILVIO. QUANDO LA MAFIA NON ESISTEVA

Giuseppe Pasquale Di Silvio, il figlio maggiore di Armando Lallà Di Silvio
Giuseppe Pasquale Di Silvio, il figlio maggiore di Armando "Lallà" Di Silvio

Processo Andromeda: condanne definitive per alcuni dei Di Silvio di Campo Boario, facenti parte della famiglia di Armando “Lallà” Di Silvio il principale imputato del processo Alba Pontina in corso di svolgimento

Lallà, nel processo Andromeda, fu definitivamente prosciolto nel processo bis di Appello. Un destino diverso, e se vogliamo bizzarro, per i suoi figli, il maggiore Giuseppe Pasquale e Samuele Di Silvio (condannato in due gradi di giudizio nel processo “romano” di Alba Pontina), e suo fratello Ferdinando Di Silvio conosciuto da tutti come Gianni.

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Il processo prendeva le mosse dalla guerra criminale del 2010 dopo l’attentato a Carmine “Porchettone” Ciarelli che scatenò la reazione dei clan sinti/roma, per l’occasione uniti, ossia i Ciarelli e i Di Silvio, contro i gruppi della mala pontina i cui esponenti maggiori potevano essere individuati in Massimiliano Moro (che fu ucciso come Fabio “Bistecca” Buonamano) e Mario Nardone.

Gli inquirenti, in quel caso il pm di Latina Marco Giancristofaro, ipotizzarono per i Di Silvio un’associazione per delinquere finalizzata alla detenzione di armi, l’usura, l’estorsione, gli omicidi, i tentati omicidi e un incendio. Solo il preludio al processo Caronte che si rivelò giuridicamente più robusto e portò a condanne esemplari sia per i Di Silvio che per i Ciarelli.

La differenza è che mentre il processo Caronte si concentrò sulla famiglia Di Silvio il cui capo è Giuseppe “Romolo” Di Silvio (condannato con Costantitno “Patatone” Di Silvio per l’omicidio Buonamano), il processo Andromeda si indirizzò verso i Di Silvio di Campo Boario/Nicolosi vale a dire quelli che sono processati oggi in Alba Pontina: Lallà e il figlio Samuele su tutti.

Sin dal primo grado, il processo Andromeda non resse al giudizio dei magistrati. Furono 116 gli anni chiesti dal pubblico ministero Marco Giancristofaro ma le condanne comminate furono in totale di 23 anni.

Il Tribunale di Latina condannò Armando “Lallà” (3 anni), i suoi figli Giuseppe Pasquale (6 anni e 8 mesi) e Samuele Di Silvio (1 anni e 10 mesi), più il fratello Ferdinando detto Gianni (3 anni).
Tra le accuse anche quella di aver bruciato, il 17 agosto 2010, il bar “Giulia”, di proprietà della compagna di Cristian Liuzzi (coinvolto con un altro figlio di Lallà, Ferdinando “Pupetto”, nella gambizzazione di Alessandro Zof sempre nell’ambito della guerra criminale del 2010).

Ad ogni modo, in appello, i Di Silvio furono tutti assolti dal reato associativo. Una sentenza che fu impugnata dal Procuratore generale che portò al processo d’appello bis in cui fu persino assolto Lallà, ad oggi invece ritenuto capo mafioso della stessa famiglia, e in cui furono confermate le condanne per Giuseppe Pasquale, Samuele e Gianni Di Silvio.

La sentenza di Appello bis è stata nuovamente impugnata in Cassazione che, però, ha dichiarato inammissibili i ricorsi dei suddetti tre personaggi della famiglia Di Silvio. “L’inequivoco contenuto dei colloqui – si legge nella sentenza in riferimento a ciò che si dissero in carcere Giuseppe Pasquale e Costantino Di Silvio – fotografa l’esistenza di una struttura finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di delitti, a cominciare dalla conversazione del 18 agosto 2010 relativa all’incendio del bar “Giulia”, passando attraverso la descrizione di episodi – il pestaggio in carcere di un avversario di Giuseppe Pasquale, la necessità e conseguente pianificazione di un episodio omicidiario nei confronti di tale Maurizio, proposito che costituisce oggetto, in danno di altro soggetto, anche del successivo colloquio del 25 agosto – delitti che vengono programmati e pianificati nel corso dei colloqui stessi. Nei colloqui intercettati Giuseppe Pasquale Salvatore e i congiunti di volta in volta interessati discutono delle modalità e caratteristiche delle attività di spaccio, usura ed estorsione che il gruppo ha in corso”.

Una pronuncia che ha chiuso il cerchio su un processo che non ha avuto vita facile, quando a Latina era ancora difficile affiancare la parola mafia ai clan zingari.

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