OMICIDIO MORO, IL TESTIMONE NEGA E NON RICORDA: “SI VEDE CHE ERO UBRIACO”

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Omicidio Moro: nuova udienza del processo che contesta ad appartenenti del clan Ciarelli e Di Silvio l’aggravante mafiosa

Si è svolta oggi, 7 febbraio, a Latina, davanti alla Corte d’Assise presieduta dal Giudice Gian Luca Soana, una nuova udienza del processo in cui sono imputati, per l’omicidio di Massimiliano Moro con l’aggravante mafiosaFerdinando Ciarelli detto “Macù” (figlio del capo-famiglia Carmine detto Porchettone), Antoniogiorgio Ciarelli (fratello di Porchettone), Simone Grenga (legato al clan del Pantanaccio per aver sposato la figlia del numero tre del sodalizio, Luigi Ciarelli) e Ferdinando Di Silvio detto Pupetto, già condannato con sentenza passata in giudicato per reati aggravati dal 416 bis (processo Alba Pontina) e figlio del capo-famiglia Armando Di Silvio detto “Lallà”.

In programma c’era l’esame da parte del Pubblico Ministero della Procura/DDA di Roma, Luigia Spinelli, dei due collaboratori di giustizia, Agostino Riccardo, e, soprattutto, Andrea Pradissitto, ex affiliato al clan Ciarelli in quanto marito di Valentina Ciarelli, figlia del numero due del sodalizio, Ferdinando “Furt” Ciarelli.

Un’udienza che si profilava corposa e lunga se non fosse che la Corte d’Assise ha accolto la richiesta di uno degli avvocati del collegio difensivo, Siviero, il quale ha chiesto un nuovo termine in quanto mancava per lui la notifica delle trascrizioni dei verbali rilasciati dai due “pentiti”. Inoltre, considerata la volontà del Pm Spinelli, espressa in aula, di effettuare l’esame dei 2 collaboratori in modo contestuale al collegio difensivo, composto oltreché da Siviero, anche dagli avvocati Diddi, Nardecchia e Farau, il Collegio del Tribunale ha rinviato esame e contro-esame alla prossima udienza fissata per il 27 marzo.

L’udienza, però, non si è conclusa, in quanto rimaneva il contro-esame dell’avvocato Diddi – che difende Ferdinando Ciarelli detto “Macù”, figlio del boss del Pantanaccia, Carmine “Porchettone” Ciarelli – nei confronti dell’altro collaboratore di giustizia, Renato Pugliese. Il figlio di Costantino “Cha Cha” Di Silvio, già esaminato e contro-esaminato da accusa e difesa, in una lunga udienza lo scorso dicembre (leggi approfondimento al link di seguito), è stato interrogato dall’avvocato Diddi che ha cercato di mettere in discussione la testimonianza resa a verbale da Pugliese in merito all’omicidio di Massimiliano Moro e all’antefatto, ossia il tentato omicidio di Carmine Ciarelli davanti al bar Sicuranza del Pantanaccio in quel 25 gennaio 2010: meno di 24 ore, tra pistolettate e ritorsioni, che, alla fine, videro uccisi Moro e, il giorno seguente, Fabio “Bistecca” Buonamano. L’inizio e l’apice della cosiddetta guerra criminale pontina che vide fronteggiarsi i clan rom Ciarelli e Di Silvio (uniti per l’occasione e per regolare i conti) e la mala latinense capeggiata da Moro stesso e Mario Nardone.

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Pugliese, imbeccato dalle domande dell’avvocato Diddi, ha ricostruito le confidenze che gli furono fatte dal cugino Giuseppe Pasquale Di Silvio, figlio primogenito del boss Armando “Lallà” Di Silvio. Fu lui a raccontargli dell’omicidio Moro e dei responsabili oggi alla sbarra.

Tuttavia a tenere banco nell’udienza odierna è stato un testimone ascoltato in aula prima del contro-esame di Pugliese. Si tratta di un giovane di Latina che nel 2011 finì nella morsa di Pradissitto e Ciarelli per alcuni assegni che aveva ricevuto in prestito e per cui fu estorto e usurato. Pur a distanza di oltre 10 anni, il testimone non volveva parlare. Portato in maniera coatta in Tribunale dalla Polizia Locale di Latina, poiché già nella precedente udienza non si era presentato non fornendo giustificazione, il giovane latinense ha continuato ad accampare scuse, sostenendo di non poter rispondere alle domande del Pm poiché aveva male a un dente.

Tanti i non ricordo e le contraddizioni rispetto al verbale rilasciato nel 2011 alla Polizia di Stato in cui, ad esempio, aveva detto di conoscere Valentina Ciarelli, moglie di Pradissitto, e che invece, oggi, diventa una sconosciuta. Quando il Pm Spinelli ha fatto notare al testimone la sua dichiarazione resa 12 anni fa, il giovane, con un atteggiamento non proprio da aula di tribunale, ha detto nervosamente: “Si vede che quando l’ho detto ero ubriaco”.

Al che, il Pm ha praticamente rinunciato a interrogarlo, mentre il Presidente della Corte d’Assise, Gian Luca Soana, ha ricordato al testimone che stava rischiando di essere imputato per falsa testimonianza. Tra asseriti mal di denti e una malcelata paura, il testimone è stato congedato. Un piccolo spaccato di cosa significhi ancora adesso, soprattutto per i più giovani, avere il coraggio di parlare di clan a Latina: meglio dire di aver bevuto troppo, vieppiù davanti a una Corte d’Assise e alla presenza di una giuria popolare chiamata a giudicare un omicidio di matrice mafiosa.

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