Omicidio Moro: proseguono le testimonianze della difesa. Il processo procede verso la sentenza per uno dei “cold case” più noti
Si è svolta oggi, 5 dicembre, a Latina, davanti alla Corte d’Assise presieduta dal giudice Gian Luca Soana, una nuova udienza del processo in cui sono imputati, per l’omicidio di Massimiliano Moro con l’aggravante mafiosa, Ferdinando Ciarelli detto “Macù” (figlio del capo-famiglia Carmine detto Porchettone), Antoniogiorgio Ciarelli (fratello di Porchettone), Simone Grenga (legato al clan del Pantanaccio per aver sposato la figlia del numero tre del sodalizio, Luigi Ciarelli) e Ferdinando Di Silvio detto Pupetto, già condannato con sentenza passata in giudicato per reati aggravati dal 416 bis (processo Alba Pontina) e figlio del capo-famiglia Armando Di Silvio detto “Lallà”.
Il processo sta arrivando a grandi passi alle battute finali e, su richiesta del Pubblico Ministero Luigia Spinelli – oggi insieme al collega della Procura di Roma, Francesco Gualtieri, a rappresentare l’accusa in aula – sono stati sospesi dalla Corte d’Assise i termini cautelari per i quattro imputati, tutti ristretti in carcere.
Nell’udienza odierna, chiamati dal collegio difensivo, composto dagli avvocati Montini, Farau, Nardecchia e Siviero, sono stati ascoltati tre testimoni, tra cui in consulente per le celle telefoniche.
A cominciare il suo esame, interrogato dagli avvocati Farau, Nardecchia e Montini, è stato l’ex capo della Squadra Mobile di Latina, ora in servizio a Vibo Valentia, Cristiano Tatarelli. Il vice questore, che arrivò alla Squadra Mobile dal commissariato di Formia nel 2009, coordinò le indagini investigative in quel frangente terribile della guerra criminale pontina: nel gennaio del 2010, come noto, ci furono i sette colpi di pistola contro Carmine Ciarelli e a seguire il doppio omicidio di Massimiliano Moro e Fabio Buonamano detto “Bistecca”. Tutto tra il 25 e il 26 gennaio 2010. Una mattanza.
Carmine Ciarelli – ha spiegato Tatarelli – era considerato il re di Pantanaccio, al vertice del sodalizio del clan, dedito a usura e estorsioni. Il suo ferimento e i due omicidi Moro e Buonamano furono fatti eclatanti, avvenuti nel giro di due giorni.
Il poliziotto ha ripercorso le fasi delle operazioni di polizia avvenute dopo gli spari contro Carmine Ciarelli, detto “Porchettone”, e dopo l’omicidio si cercò di capire la situazione all’interno del mondo criminale: movente, mandanti e esecutori. Fu eclatante l’omicidio perché Moro era un personaggio di spicco per la criminalità di Latina. Dopo l’omicidio Moro, Tatarelli ha ricordato che furono ascoltati diversi soggetti del mondo criminale pontino: in primis Francesco Viola, Angelo Travali, Francesco Fanti e Ferdinando “Furt” Ciarelli (boss del clan e fratello di Carmine Ciarelli). L’esame stub, che serve per capire se qualcuno ha fatto uso di una arma da sparo, fu effettuato a tutti tranne che a “Furt”.
E l’esame stub fu effettuato anche nei confronti di Andrea Pradissitto, oggi collaboratore di giustizia e già condannato per l’omicidio Moro a 9 anni di reclusione. Fu un esito positivo perché vennero trovate tracce di arma da sparo ma che non erano compatibili con i bossoli trovati a casa Moro.
Fu chiaro – ha spiegato Tatarelli – che dopo l’omicidio Buonamano vi era stata una vendetta del clan Ciarelli-Di Silvio (all’epoca uniti contro il gruppo di Moro, Nardone e Maricca). L’omicidio è stato “frutto di una vendetta del clan Ciarelli Di Silvio”, scandisce l’ex capo della Mobile. Solo che, stimolato dalle domande dell’avvocato Farau, Tatarelli ammette che, prima di capire il contesto, indagarono a tutto tondo, anche su personaggi che avrebbero potuto avercela con Moro per altre ragioni e anche alla luce del fatto che, come emerge da una annotazione dello stesso ex dirigente della Squadra Mobile, evidenziata dall’avvocato Nardecchia, in un primo momento fu escluso che a sparare contro Carmine Ciarelli fosse stato un uomo mandato da Moro. Tra Moro e Carmine Ciarelli, infatti, vi era una frequentazione e, come ha ricordato Tatarelli, fu la stessa sorella di Moro a riportare quanto aveva sostenuto il fratello quando era ancora in vita: in quel momento, infatti, il medesimo Moro avrebbe lavorato per Ciarelli nel recupero crediti.
Questa sorta di “amicizia” avrebbe sviato gli investigatori di allora. “Poi quando uccisero Buonamano – ha detto Tatarelli – il quadro fu chiaro: era una vendetta del clan Ciarelli-Di Silvio dopo gli spari contro Carmine”.
Eppure, nelle fasi appena successive agli spari contro Ciarelli, i poliziotti, a detta dell’ex Capo della Squadra Mobile, indagarono anche su Raffaele Russo (al momento agli arresti domiciliari), altro personaggio noto a forze dell’ordine e cronache giudiziarie, il quale, insieme ad Andrea Pradissitto e Granfranco Fiori (condannato e infine assolto per gli spari contro Ciarelli), a poter entrare nella casa di Moro, da tempo molto guardingo e attento a chi chiedeva di andarlo a trovare.
“C’erano più contatti con Raffaele Russo da parte di Moro, facemmo accertamenti ma non ci furono risultanze. Ci fu una indagine: fu sentito lui e altri personaggi a lui vicini”. L’avvocato Farau insiste sulla figura di Russo (non presente ai funerali di Moro) e puntualizza su una telefonata tra Raffaele Russo e Michele Monaco, un uomo che, all’età di 24 anni, fu gambizzato nel 2008 sul lungomare di Latina all’altezza del parco Vasco de Gama. “Secondo fonti confidenziali il fatto della gambizzazione (nda: per cui non fu nessun processo) sarebbe stato riconducibile a Moro”, ha spiegato Tatarelli. Un aspetto sicuramente suggestivo a cui sarà chiamato a fornire chiarimenti lo stesso Russo, il quale testimonierà al processo il prossimo 9 gennaio 2024. La tesi difensiva che emerge è evidente: e se Moro fosse stato ucciso da altra mente e altra mano diversa dal clan Ciarelli-Di Silvio?
A testimoniare ci saranno anche il fratello del boss di Campo Boario, Armando Di Silvio detto Lallà: si tratta di Ferdinando Di Silvio detto “Gianni”, non più indagato nell’omicidio Moro (il suo nome è citato nell’inchiesta in quanto partecipò con ruoli da autista al commando che si diresse verso casa di Moro) e Paolo Peruzzi, altro personaggio dato per vicino a Moro negli anni prima della morte.
Altro testimone di giornata, invece, è stato Giuseppe Pasquale Di Silvio, fratello di un imputato ossia di “Pupetto” e figlio di “Lallà”, in carcere da 13 anni. “Pasqualino”, come viene chiamato da amici e famigliari, ha negato di aver mai parlato dell’omicidio Moro al collaboratore di giustizia Renato Pugliese, sostenendo che quest’ultimo faceva uso di droghe. Di Silvio, interrogato dall’avvocato Montini, ha aggiunto che però Ferdinando Ciarelli detto “Macù”, uno dei quattro imputati e ritenuto il mandante dell’omicidio Moro, “non avrebbe preso nessuna decisione senza il via libera dello zio “Furt”.
“Pradissitto – ha aggiunto Giuseppe Pasquale Di Silvio – si è deciso a collaborare, ma a me sorge un dubbio: perché prima era stato arrestato insieme al suocero Furt e, poi, dopo la collaborazione, Furt è scomparso dai nuvo arresti”.
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