CORRUZIONE A LATINA. LA TECNOLOGIA CI SALVERÀ

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In Italia, il tema della corruzione è spesso mistificato a detrimento di chi ne denuncia i rischi o contro chi, sopratutto, ha il coraggio di fare nomi e cognomi, tralasciando il fatto conclamato che un Paese meno corrotto è un Paese dove si lavora meglio, si produce meglio, si guadagna meglio. Ecco perché la lotta alla corruzione è una battaglia per un’economia più fiorente e un’imprenditoria al passo coi tempi.

Di frequente, coloro che si assumono la responsabilità di mettere in evidenza comportamenti illeciti, illegali ecc. sono considerati da taluni come parrucconi, retrogradi, invidiosi. Non è raro essere additati, se si analizza e/o si denuncia, come persone capaci solo di distruggere, al contrario di chi invece si professa illuminato perché propone, sovente cavalcando annunci irrealizzabili o, peggio, battaglie per conto di potentati industriali/finanziari o interessi locali. Se, poi, con il presunto “costruire” si incappa in qualche vizietto, a volte punito pure dal codice penale, l’eventuale “costruttore di futuro contro i giurassici moralisti” rimane comunque un sapiente vittima di una fossa in cui la fanno da padroni l’insipienza legislativa italica, o peggio ancora, i giornalisti/blogger gufi o i magistrati politicizzati.

Ovviamente, accanto a queste critiche, sostanzialmente dettate da dabbenaggine o da una certa tendenza all’illegalità o all’abuso, ci sono anche tante persone che, invece, apprezzano il controllo da parte dell’informazione, della buona politica e magistratura.

Sicuramente peggio va a coloro che decidono di denunciare vicende o situazioni in qualità di dipendenti della Pubblica Amministrazione, spesso mirino degli improperi onnivori dei cittadini che, nel Paese più corrotto d’Europa in proporzione al PIL e alla macchina burocratica, non fanno che indirizzare la loro rabbia anche verso dipendenti incolpevoli che scontano la complessiva lentezza e l’immobilismo dei vari settori/enti a cui fanno capo, oppure i comportamenti di un collega o più colleghi inzuppati nel malcostume/malaffare.

Eppure, in ogni ente locale (e non), esistono tanti impiegati, funzionari, dirigenti ecc. dotati di intelligenza, competenza, abnegazione che finiscono per vedere frustrata la loro professionalità da alcuni compagni di lavoro proclivi all’illegalità o da veri e propri sistemi cronici di comportamenti non consoni.

Nella passata legislatura, con la legge numero 179 entrata in vigore il 29 novembre 2017 (votata in Parlamento da tutte le forze politiche, esclusi Forza Italia e alcuni parlamentari del gruppo di Raffaele Fitto), sono state poste le basi per venire incontro a coloro i quali, nell’ambito della PA, decidono di stare dalla parte di quelli che non ci stanno a vedersi confusi con alcuni colleghi “mariuoli” oppure frammisti a meccanismi talmente rodati e incistati nel tempo da sembrare che tutto sia normale.

La summenzionata legge, che rafforza l’impianto del primo atto legislativo sul tema datato 2012, modifica l’articolo 54 bis del Testo Unico del Pubblico Impiego. La 179 del 2017 è stata denominata “Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato”, ma è conosciuta dal grande pubblico come la legge del Whistleblowing (letteralmente soffiare un fischio), parola che, in realtà, non viene mai citata.
Oltre che a una ragione meramente politica – siamo in Italia e giustamente le leggi devono essere scritte in italiano al fine di essere comprensibili da tutti – vi è intrinseca una ragione linguistico-culturale. Il termine soffiata nella lingua italiana ha assunto una sfumatura dispregiativa, di colui che fa la spia, che, in sostanza, attua un comportamento scorretto. I motivi linguistici, ovviamente, derivano da alcuni contesti culturali, acuiti in Italia da una sottocultura mafiosetta, e mutuata da ambienti di criminalità comune, ossia: “se parli sei un infame”.

Potrebbe sembrare esagerato ma, pur dovendo specificare che questa cultura dell’infame ha diverse gradualità (in un ambito di pubblico impiego rischi di essere emarginato o licenziato; in un ambito criminale ti fanno fuori), gli innumerevoli casi, negli anni e più recenti, lo attestano, e chiunque lavori o abbia lavorato nella PA potrà confermarlo. Latina e la sua provincia non fanno di certo eccezione, anzi.

Cosa dice la legge

La legge della soffiata si compone di soli tre articoli e, a differenza di altre sue sorelle dei vari codici, regolamenti, testi ecc. che tempestano la vita dei cittadini, non ha perifrasi da legulei in odor di psichiatria.

Queste norme sono state sicuramente un passo avanti perché introducono, almeno in teoria, strumenti e scudi che il dipendente che decideva di denunciare non aveva. Spesso, infatti, quest’ultimo, dopo la denuncia, veniva (e viene) guardato con sospetto, persino con rabbia, dai propri colleghi: un piantagrane che poteva farsi gli affari suoi, viene definito quando va bene. Quando va male, invece, si poteva (può) essere mobbizzati, emarginati sul posto del lavoro, demansionati e persino licenziati. Proprio in ragione di quella sottocultura dell’infame che unisce il Paese da Aosta a Palermo.
La legge, dunque, cerca di porre un argine a questo malcostume che vede il coraggio punito, e l’omertà valorizzata da ambienti codini o dirigenti troppo collusi o, peggio, stanchi per apprezzare l’onestà e il desiderio di taluni di essere persone perbene.

Uno dei diritti affermati dalla legge è quello che prevede la reintegrazione nel posto di lavoro per il dipendente in caso di licenziamento e “che siano nulli tutti gli atti discriminatori o ritorsivi” subiti dal medesimo. Il dipendente non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa che potrebbe avere effetti negativi.
Ci sono sanzioni indirizzate contro gli atti discriminatori commessi dall’ente responsabile per aver punito ingiustamente il dipendente denunciante, con maggiori tutele per quest’ultimo in quanto è garantita la segretezza della sua identità (salvo nel caso sia giudicato un calunniatore o diffamatore anche con una sentenza di primo grado). E garantire questa segretezza è uno scudo ineliminabile per vincere la sottocultura mafiosetta di cui si è accennato in precedenza.

Le tutele di tale legge non sono solo rivolte ai dipendenti della Pubblica Amministrazione, “compresi gli enti pubblici economici e quelli di diritto privato sotto controllo pubblico”, ma si estendono anche a chi lavora in imprese private o pubblico-private che forniscono beni e servizi ai suddetti enti. Anzi, secondo l’articolo 2 della legge, anche per il settore privato c’è la tutela del dipendente o del collaboratore che segnali “illeciti o violazioni relative al modello di organizzazione e gestione dell’ente di cui sia venuto a conoscenza per ragioni del suo ufficio”. Ad esempio: un dipendente di una ditta che, relazionandosi con un ente locale per un’autorizzazione, scopre che l’impiegato dell’ente è intento a chiedere una mazzetta per la suddetta autorizzazione.

Inoltre, nella legge (art.3), c’è persino, per i dipendenti che segnalino illeciti per salvaguardare l’integrità dell’amministrazione o azienda in cui lavorano, la giusta causa di rivelazione del segreto d’ufficio professionale, scientifico e industriale in relazione alle ipotesi di note o denunce effettuate nel settore pubblico o privato, al netto di “modalità eccedenti rispetto alle finalità dell’eliminazione dell’illecito”.

Parte cruciale della legge è senza dubbio quella che riguarda gli strumenti eventuali che essa dà all’Autorità Nazionale dell’Anticorruzione (ANAC) che può sanzionare i dirigenti e che raccoglie la maggior parte delle segnalazioni provenienti dai vari enti sparsi sul territorio (oltreché la magistratura, naturalmente). Da ricordare che negli enti locali, quali ad esempio i Comuni, vi sono quelli che si potrebbero definire, con espressione impropria, i “rappresentanti dell’anticorruzione sul territorio”. Negli enti medesimi si chiamano responsabili della prevenzione, della corruzione e della trasparenza, ma è evidente che proprio qui si annida un cortocircuito della legge e della prassi. Tale responsabile, sovente, risulta comunque (più o meno direttamente) di nomina politica, rischiando di rappresentare più quella forza politica o quell’uomo politico che, invece, un baluardo imparziale di legalità e di rispetto dei comportamenti leciti. Infatti, per gli enti locali, la legge individua il responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza direttamente e di norma nel Segretario che, sebbene non sia di stretta nomina politica, di fatto è legato, o lo è in tanti casi, ai rappresentanti politici dell’ente.

L’aiuto della tecnologia

Al comma 5 dell’art.1 della legge è scritto a chiare lettere che è importante affidarsi a forme più o meno complesse per far sì che le norme siano efficaci: “l’ANAC, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, adotta  apposite  linee  guida  relative alle procedure per la presentazione e  la  gestione  delle  segnalazioni. Le linee guida prevedono l’utilizzo di modalità anche informatiche e promuovono il ricorso a strumenti di crittografia  per  garantire  la  riservatezza dell’identità del segnalante e per il contenuto delle segnalazioni e della relativa documentazione”.

L’aspetto più importante, però, è che la legge prevede più canali di segnalazioni, ossia più forme di prevenzione e tutela, e sopratutto “almeno  un  canale  alternativo  di  segnalazione  idoneo a garantire, con modalità informatiche, la riservatezza dell’identità del segnalante” (art.2, lettera b). Quindi, il richiamo al pluralismo dei canali di segnalazioni e all’aspetto informatico sono ben marcati.

Come ampiamente dimostrato, dunque, il nodo gordiano da recidere sono l’omertà o l’accomodante “farsi gli affari propri (o un ‘espressione più colorita) per campare cent’anni” che strozza la capacità del dipendente, pubblico o privato, professionale e onesto, a denunciare. È qui che la legge offre eventualità da non sottovalutare, aprendo alla tecnologia che può essere, in questo caso, un fattore determinante per far sì che il coraggio o la semplice presa d’atto di una situazione/vicenda non rimanga nel segreto della coscienza del dipendente o, al massimo, trasformata in una chiacchiera da bar.

Il Centro Hermes per la Trasparenza e i Diritti Umani con la collaborazione di Transparency International Italia ha sviluppato una piattaforma, proprio in ragione dell’obbligo della summenzionata legge che prevede che le oltre 20.000 pubbliche amministrazioni si dotino di una piattaforma specifica per accogliere le denunce.

La tutela del whistleblower o allertatore civico, o autore di segnalazioni di reati o irregolarità che dir si voglia, ha portato alla nascita di diverse aziende specializzate che propongono il proprio prodotto alle amministrazioni pubbliche. È compito degli amministratori scegliere di usare questa o un’altra delle piattaforme disponibili, ma ci sono alcuni aspetti che non possono essere sottovalutati. Il centro Hermes, innanzitutto, ha sviluppato GlobalLeak, il software di riferimento a livello globale, usato anche da buona parte dei servizi concorrenti. L’altro aspetto vantaggioso di Hermes è che il programma chiamato WhistleblowingPA” è gratuito, non è chiesto alcun contributo alle PA che decidono di utilizzare questa piattaforma, a differenza di altri servizi commerciali che possono costare anche migliaia di euro.

Il funzionamento della piattaforma Whistleblowing PA è molto semplice e accessibile anche a chi non ha specifiche competenze informatiche. Ad esempio se un dipendente pubblico, o un cittadino, è testimone di un caso di corruzione può denunciarlo sapendo che il suo agire non porterà a conseguenze sulla sua vita professionale. Infatti WhistleblowingPA o comunque piattaforme affini permettono di ovviare al problema del responsabile anticorruzione magari percepito come parziale o semplicemente “antipatico“. Il cittadino o il dipendente comunicano comunque con i responsabili anticorruzione dell’ente, ma lo fanno in forma anonima grazie alla tecnologia. Segnalare casi di corruzione e mantenere l’anonimato permettono il fluire delle informazioni senza che il timore di ritorsioni sia d’ostacolo, o che ci si possa aspettare una qualche forma di vendetta dettata da quel culturame al ribasso di cui si è detto.

Nella provincia pontina e nel suo capoluogo la corruzione o i comportamenti illeciti nella pubblica amministrazione sono in forma endemica (così come in molte altre province italiane) e i casi accertati dalla magistratura sono purtroppo la punta dell’iceberg.

Quante scartoffie in meno e quanto sviluppo avremmo se gli enti della provincia decidessero di importare sistemi tecnologici che servono a tenere dritta la barra e, sopratutto, a consentire che tutti, in special modo chi gestisce attività o fa impresa, sia libero dalle catene di amministrazioni opache che appesantiscono il lavoro e le iniziative economiche.

È chiaro che la tecnologia è utile ma permangono alcune criticità come, ad esempio, quella che vede il responsabile dell’anticorruzione troppo vicino ai politici o a qualche dirigente e/o funzionario. È altrettanto sicuro, però, che qualsiasi imprenditore o lavoratore che in passato ha pagato per ottenere una pratica o un’agevolazione (un bando, un permesso ecc.) opterebbe per forme trasparenti in grado di far concentrare la propria azione solo sul lavoro e non sulla “cagnotta” e le “relazioni”.
E certo sarebbe ancor più importante se la legge di tutela dei soffiatori fosse applicata anche alle Forze dell’Ordine, sopratutto in una provincia come quella pontina dove le maggiori inchieste degli ultimi anni hanno visto la presenza di talpe o servitori infedeli dello Stato.

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