Lo insultano i Travali, lo sbeffeggiano i Ciarelli, gli augurano tutto il male del mondo i Di Silvio. Tutti i sodali di questi, o coloro che credono ancora di essere alla moda conoscendoli, gli gridano infame. Sono le reazioni scatenate dalle parole di Agostino Riccardo in udienza (15 novembre), dove, in videoconferenza, ha parlato nell’ambito del processo per l’estorsione di un ristoratore di Monticchio (Sermoneta): l’estorsione madre da cui è nata l’indagine Alba Pontina dello scorso giugno. Che, intendiamoci, non è la rappresentazione manichea dei buoni contro i cattivi, vittime e carnefici, i fessi e i furbi: dall’inchiesta, iniziata proprio in ragione di questa estorsione con l’ausilio del pentimento di Renato Pugliese, sappiamo che il ristoratore non avvertì indirettamente solo la Polizia (tramite un ex poliziotto), ma anche un certo Fefè, che si presenta per conto dei Casalesi, e verso il quale Gianluca Di Silvio e Agostino Riccardo, parlandogli al telefono, non mostrano l’arroganza di cui sono sempre stati capaci.
Già…i buoni contro i cattivi. Non esiste tale differenza nelle storie di criminalità comune od organizzata. Nelle estorsioni, nel recupero crediti, la vittima è quasi sempre in costante contatto con questi individui, non denuncia, e prima di subire prepotenze crede sempre di essere più sveglio perché ha amici criminali. Quando arriva il momento in cui quello che si credeva amico o protettore si rivolta contro chiedendo qualcosa in cambio, le vittime, spesso professionisti operanti nella città, si rivolgono a qualche altro malavitoso o dal curriculum delinquenziale nella speranza vana che cane non mangi cane.
È così anche per Agostino Riccardo che è un pentito, un collaboratore di giustizia e, come sempre, e la storia del pentitismo insegna, va preso con le molle, senza costruirgli su dei santini, o dare troppo peso alle parole riportate nelle cronache locali: “Sono stufo, sono esausto di quindici anni di crimini. Quindici anni in cui le persone di Latina hanno subito abusi, prepotenze, vessazioni, minacce, sia da parte mia che del clan Di Silvio”.
Sa bene, Riccardo, che non solo lui e i Di Silvio hanno “fatto prepotenze” ai cittadini di Latina; i suoi ex padroni Travali non regalavano confetti, anzi si esibivano pure in una gambizzazione al centro di Latina: perché non citarli in videoconferenza e far credere che solo i Di Silvio siano degli usurpatori? Ed è altrettanto lapalissiano che lui non si pente perché “stufo” o contrito dal dolore ma, invero, obbligato da uno stato di cose ormai ingestibile: i Travali vogliono fargli la pelle dopo il suo tradimento e il passaggio al gruppo di Campo Boario, facente capo ad Armando “Lallà” Di Silvio; quest’ultimi, i Di Silvio di via Muzio Scevola (Campo Boario), dopo il pentimento del figlio di Cha Cha, Renatino Pugliese, non possono più vederlo di buon occhio.
Agostino Riccardo trasmigrò insieme a Renato nel gruppo di Lallà, dopo l’operazione Don’t Touch risalente al 2015 e, specialmente, a causa dell’arresto di Cha Cha nell’ambito della medesima operazione. Con il passaggio organico al nuovo clan, Agostino era visto dai Di Silvio come uno da utilizzare per via dei suoi contatti con la Latina bene, e punire ogni volta che sgarrava rosicchiando su una partita di droga o con una giocata d’azzardo di troppo.
Dopo il pentimento di Pugliese, l’unica possibilità di Riccardo era seguirlo, staccando la spina a un clan, quello dei balordi di Campo Boario, che da sempre lo hanno trattato come un “parvenu”: non ha sangue rom, è stato un po’ con tutti, gioca d’azzardo, fa la cresta sul recupero crediti e sui proventi della cocaina. Insomma, non è tattilmente affidabile Balò (il Maiale nella lingua sinti), secondo le assurde logiche del crimine, ecco perché arrivano a picchiarlo, a sequestrarli l’auto della moglie, a estorcerlo (pare paradossale ma un incallito estortore come Riccardo sa benissimo cosa si prova a subire lo stesso sopruso), costringerlo a fare intervenire la famiglia per appianare i debiti. Migliaia di euro che con il moltiplicatore del côté usuraio e prepotente del clan sinti diventano molte migliaia di euro sul groppone dei suoi genitori. Non è mai andata bene neanche con i gruppi non rom della città: basti pensare all’episodio occorso nel 2007, a indulto votato che svuotò le carceri da un bel po’ di criminali per nulla riabilitati, quando Agostino fu preso a pistolettate da Massimiliano Moro, ferendo per di più un ragazzo che non c’entrava niente. Luogo del regolamento di conti: i Gufi, locale che all’epoca vedeva riunita tutta la città bene, o meno bene, di Latina.
Agostino, il Tulo (Grosso), si pente perché non ha altra scelta, non è un redento né tantomeno un eroe votato, ora, al giusto perché, come detto, di bene lampante in queste storie non ne esiste, e solo la razionalità ha diritto di prendere il sopravvento su qualsiasi tentazione da “cuore” melodrammatico.
Quando Tommaso Buscetta, il più noto (e intelligente) collaboratore di giustizia di sempre, si pentì non disse di averlo fatto per ragioni di redenzione o perché stesse anelando alla beatificazione. Si pentì, così come tutti i veri pentiti, perché non aveva altra scelta.
Agostino con Buscetta non c’entra niente per tante ragioni: il secondo era un boss, l’altro è un personaggio che ha navigato nella criminalità comune da sempre, da quando, sin da bambino, insieme al suo ex sodale Viola, estorceva e spaventava coetanei troppo “gaggi”, ai loro occhi, per accennare a un minimo di reazione. Spadroneggiava Agostino sui motorini Scarabeo e SH nella città del benessere pontino: davanti ai licei, alle scuole professionali, agli istituti tecnici. Purtroppo, molti di quelli che non avrebbero mai estorto nemmeno una moneta a un cieco, lo assecondavano, se lo facevano amico, lo salutavano fragorosamente come barocco e sgradevole era lui quando anche con la corporalità dimostrava la sua tracotanza indigesta (si ricordano persino smargiassate scatologiche in pubbliche piazze), gli leccavano il culo. E poi, magari, se lo mettevano vicino come un bravo di Alessandro Manzoni: era il cane rognoso di Fabrizio Colletti, l’avvocato, figlio della signora Cavicchi, coinvolto fino al collo in Maiettopoli e, ora, invischiato nel processo Arpalo insieme alla madre, a Pasquale il Presidente e agli altri che del Leone Alato sportivo avevano fatto un veicolo creativo di finanza e tributi.
Ma Agostino, per ora, non c’entra niente con Buscetta e con gli altri pentiti seri della storia criminale e giudiziaria italiana, perché prima di essere serio deve fare, se ancora non l’ha fatto, tutti i nomi che sa, tutte le cose che ha visto dalla sua posizione privilegiata in ragione della quale era più facile che sapesse lui, in anticipo, di una decisione del Comune di Latina piuttosto che un giornalista o un semplice cittadino. Chiarisca, ad esempio, il ruolo di Gianluca Tuma all’interno del sodalizio mafioso di Cha Cha/Travali; spieghi perché le telefonate di Antonio Fusco, detto Zi’ Marcello, che bucavano e boicottavano le indagini della Polizia di Latina arrivavano dal centralino della Guardia di Finanza di Latina a Palazzo M. E tanto altro ancora.
Smetta di fare dichiarazioni da eroe redento, si comporti seriamente per una volta. Di parole altisonanti e per niente orecchiabili, i cittadini, o come li chiama lui, le persone di Latina, ne hanno piene le scatole. Dica quello che sa e si ritiri dall’agro pontino, per sempre. Solo così, alla fine di questa vita che accomuna democraticamente i prepotenti e i soccombenti, potrà avere il privilegio di chiedere scusa a tutti quelli che ha estorto, a quelli che ha minacciato, picchiato, indotto a consumare cocaina tagliata con la novalgina e la mannite, a tutti quelli che ha umiliato di fronte alla Latina che gli leccava il culo.