L’UNIONE EUROPEA AI TEMPI DEL CORONAVIRUS – PRIMA PARTE

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In un recente articolo abbiamo fatto riferimento alla riunione di giovedì 9 aprile dei ventisette ministri finanziari della Unione Europea, nel corso della quale è stato elaborato un pacchetto  di proposte di natura economica legate alla crisi causata dall’emergenza Covid 19 da sottoporre al Consiglio europeo. Questo organismo, composto dai Capi di Stato o di Governo dei ventisette Paesi della Unione Europea, si riunirà il prossimo 23 aprile.

L’occasione per tale riferimento ci è stata offerta dalle grottesche tre diverse dichiarazioni fatte dall’onorevole Raffaele Trano di Gaeta nell’arco di sole ventiquattro ore.

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Alcuni lettori ci hanno chiesto di approfondire le tematiche che dovranno essere affrontate nel prossimo Consiglio Europeo ed abbiamo pensato di suddividere la trattazione dell’argomento in due parti.

Invero, prima di parlare del pacchetto di proposte, e quindi anche di MES ed Eurobond (termini con i quali abbiamo acquisito ultimamente una certa familiarità), riteniamo opportuno offrire un quadro delle scelte economiche operate finora nell’ambito della zona euro.

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LA ZONA EURO E LE SCELTE ECONOMICHE OPERATE FINORA

Per comprendere quello che sta accadendo in queste settimane, per via dell’emergenza Covid 19, è necessario sapere quale è stata finora la linea economica vincente nella zona euro.

Sin dall’inizio si sono imposti i cosiddetti liberisti (accaniti difensori della linea dell’austerità), secondo cui il mercato tenderebbe spontaneamente a produrre l’equilibrio tra domanda e offerta e a raggiungere la piena occupazione.

Le teorie di John Maynard Keynes, uno dei più grandi economisti del Novecento riconosciuto come il padre della macroeconomia, non hanno mai trovato il benché minimo spazio all’interno della UE.

John Maynard Keynes
John Maynard Keynes

L’economista britannico sosteneva la necessità dell’intervento pubblico statale nell’economia con misure di politica di bilancio e monetaria, qualora una insufficiente domanda aggregata non riuscisse a garantire la piena occupazione nel sistema capitalista, in particolare nelle fasi di crisi del ciclo economico.

Le teorie di Keynes hanno trovato molto apprezzamento nel mondo scientifico, tanto che è nata la cosiddetta “scuola Keynesiana”, che tuttora vanta la presenza di illustri economisti, tra cui ben sei insigniti del premio Nobel.

Va anche sottolineato che le teorie di Keynes non sono state mere elucubrazioni rimaste sui libri, ma hanno avuto tantissime applicazioni pratiche, anche in regimi di natura diversa (democratici e totalitari), con esiti positivi.

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La vittoria nella zona euro delle teorie liberiste ha comportato la conseguente adozione di una serie di regole fino alla firma nel marzo 2012 del “Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance dell’unione economica e monetaria”, anche detto “Fiscal Compact” o “patto di bilancio”.

Anche se la firma del trattato in questione avviene con il Governo Monti (tra l’altro comunque appoggiato e sostenuto da PD e PdL), l’intera classe politica che ci ha governato dal 1997 al 2012 ha condiviso scelte economiche europee prettamente liberiste e votate all’austerità.

Mario Monti
Mario Monti

Tra le varie regole adottate ce ne sono due particolarmente importanti che offrono una evidenza del difficile contesto in cui ci si muove in vista del Consiglio europeo del 23 aprile.

IL RAPPORTO TRA DEBITO PUBBLICO E PRODOTTO INTERNO LORDO

Quella che fin dal 1997 era una indicazione, diventa una prescrizione nel 2012.

I Paesi con un rapporto tra Debito Pubblico e Prodotto Interno Lordo superiore al 60% hanno l’obbligo di ridurre il suddetto importo di almeno un ventesimo l’anno”. 

Da un punto di vista matematico siamo i presenza di una semplice frazione, dove al numeratore c’è il debito pubblico e al denominatore il prodotto interno lordo

Il debito pubblico si può sinteticamente definire come l’ammontare complessivo del debito contratto nel tempo da uno Stato per far fronte ai propri bisogni, debito che si genera con l’acquisizione da parte di individui, imprese, banche o Stati esteri di obbligazioni o titoli di stato emessi dallo Stato debitore.

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Il prodotto interno lordo (Pil) misura il valore aggregato, a prezzi di mercato, di tutti i beni e i servizi finali (cioè destinati al consumo) prodotti sul territorio di un Paese in un dato periodo di tempo (è consuetudine usare come riferimento l’anno). Si tratta quindi di un dato importante per valutare lo stato di salute di una economia.

Ebbene, di fronte ad un obiettivo prefissato del 60% di rapporto tra debito pubblico e Pil (da raggiungere in venti anni), sapete qual era il nostro rapporto debito/Pil nel 2011? Il 120,71%. Nello stesso periodo la Germania aveva l’82,00% e la Francia l’86,50%. Oltre all’Italia solo altri due Paesi erano sopra la soglia del 100%: il Portogallo (108,50%) e la Grecia (165,30%).

Non bisogna essere degli esperti economisti per capire che l’Italia ha accettato e sottoscritto una norma capestro.

Visto che siamo in presenza di una semplice frazione, basta prendere l’importo del debito pubblico e quello del prodotto interno lordo e divertirsi a giocare con i numeri per verificare come arrivare al 60%.

Se lo facessimo, scopriremmo che in assenza di un incremento del Pil (il denominatore) per arrivare al 60% del rapporto dovremmo diminuire il debito pubblico (il numeratore) nell’arco dei venti anni considerati di un importo tale da penalizzare pesantemente la sanità pubblica e l’istruzione pubblica, nonché massacrare ogni forma di servizio sociale.

Scopriremmo poi che mantenendo invariato il debito pubblico (il numeratore), per arrivare al 60% del rapporto dovremmo avere un incremento del Pil (il denominatore) nel corso del periodo considerato di venti anni di circa l’80%. Per rendersi conto dell’assurdità di tale cifra basta considerare che dall’introduzione dell’Euro in Italia abbiamo superato la soglia del 2% soltanto in due occasioni, e precisamente nel 2005 (2,02%) e nel 2006 (2,30%).   

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In conclusione, si tratta di una regola assurda, tanto più che nessuno ci ha mai spiegato quale sia il modello economico matematico per cui si è giunti al magico numero di 60, né abbiamo mai avuto delucidazioni sul fatto che la più grande potenza economica mondale, vale a dire gli Stati Uniti d’America, ha un rapporto costantemente superiore al 100%.

IL RAPPORTO TRA DEFICIT PUBBLICO E PRODOTTO INTERNO LORDO

Il deficit pubblico, anche detto disavanzo pubblico, è la situazione contabile dello Stato che si verifica quando, nel corso di un esercizio finanziario, le uscite superano le entrate.

Nell’ambito della Unione Europea una disposizione di particolare importanza è quella che stabilisce l’obbligo di mantenere il deficit pubblico sempre al di sotto del 3% del Prodotto Interno Lordo.

Tale norma risponde all’ovvio concetto di calibrare il deficit pubblico a secondo dell’andamento del PIL. E’ intuitivo che sarebbe una follia aumentare la spesa pubblica ed il deficit pubblico senza tenere in alcuna considerazione l’andamento dell’economia e, quindi, la crescita o meno del Prodotto Interno Lordo.

C’è però un problema, ed è anche grande.

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Per chi ha scritto la norma in questione esiste solo il concetto di spesa; la distinzione, che si studia anche alle scuole medie superiori, tra spesa corrente e spesa per investimenti non è contemplata. La spesa è spesa, punto e basta.

È di facile comprensione, anche per chi non si è dedicato a studi specifici, che operare la suddetta distinzione è invece importante. La spesa corrente riguarda i costi che si sostengono ogni anno in maniera ripetitiva (ad esempio gli stipendi dei dipendenti), per cui esaurisce la sua utilità in un periodo non superiore a dodici mesi; la spesa per investimenti concerne l’acquisto o la realizzazione di beni destinati a produrre utilità per un arco di tempo pluriennale.

È ovvio che non è opportuno aumentare la spesa corrente se l’andamento dell’economia non lo consente, perché ciò danneggerebbe  le finanze dello Stato. È altrettanto ovvio però che è senza senso privarsi a priori, addirittura per legge, della eventualità di selezionare ed operare alcuni investimenti che potrebbero invece giovare all’andamento dell’economia nel suo complesso e, quindi, avere effetti positivi sul Prodotto Interno Lordo.

Ad esempio, proviamo ad ipotizzare un determinato impegno di spesa dello Stato per il riassetto idrogeologico delle tantissime zone a rischio del nostro territorio. Molte imprese private sarebbero coinvolte nella realizzazione dei vari tipi di intervento necessari, con effetti favorevoli sull’occupazione. Inoltre, le opere realizzate eviterebbero disastri e calamità che avrebbero un costo molto alto per lo Stato.

Di esempi se ne possono fare veramente tanti e la scelta delle priorità, proprio per tener conto della valenza economica dell’operazione, dovrebbe essere fatta analizzando attentamente costi e benefici.

Anche le singole persone distinguono nella vita di tutti i giorni tra spesa corrente e spesa per investimenti. Ad esempio un conto è indebitarsi per comprare la propria casa, un altro è indebitarsi per andare in vacanza.

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Non si capisce, pertanto, per quale ragione tale elementare distinzione non sia stata presa in considerazione nell’ambito della Unione Europea.

In conclusione, il grande errore contenuto in questa regola è che si considera solo la quantità del debito e non la qualità dello stesso. Per fare un altro esempio, è come se si considerasse allo stesso modo l’indebitamento per realizzare una fabbrica e fare impresa, con tutto quello che ne consegue in termini di occupazione e di indotto, e l’indebitamento per sostenere un tenore di vita più alto rispetto a quello che ci si può permettere in base al proprio reddito.

L’UNIONE EUROPEA TRA MES ED EUROBOND

Nella seconda parte del nostro intervento parleremo in maniera specifica di quanto sta avvenendo adesso nella Unione Europea e della riunione prevista per il 23 aprile tra i capi di Stato o di Governo. Abbiamo ritenuto però indispensabile fornire prima in maniera sintetica un quadro della situazione in ambito UE e delle scelte operate finora.  

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