Rivolta nel carcere di Rebibbia durante la pandemia: si è concluso, a Roma, il processo a carico di diversi imputati tra cui alcuni pontini
Il Tribunale di Roma ha condannato 23 persone su 46 imputati per la rivolta avvenuta nel carcere di Rebibbia a marzo 2020. Le pene inflitte vanno dagli 8 anni ai 4 mesi di reclusione per le accuse, a vario titolo, di danneggiamento, sequestro di persona, rapina, incendio e devastazione.
Le condanne più alte sono arrivate per Marco Gallorini e Mattia Schiavi, considerati i promotori della rivolta secondo la ricostruzione della Procura. 5 anni e 6 mesi a Leandro Bennato, boss considerato vicino a Giuseppe Molisso e al clan Senese.
Assolti invece Alessandro Elias Lazzarini e Serafino Fugante, difesi dagli avvocati del Foro di Latina, Alessandra Anzeloni, Alessia Vita e Sandro Marcheselli. Conndannato a 1 anno di reclusione l’altro pontino Alessandro Sinisi.
I disordini, come detto, avvennero nel carcere di Rebibbia. Era il 9 marzo del 2020 e, a seguito delle misure disposte per contenere la diffusione del Covid, diversi detenuti imbastirono una protesta violenta. 46 detenuti furono rinviati a giudizio, altri hanno optato per il rito abbreviato.
Tafferugli scatenati all’interno del penitenziario romano, così come in altre case circondariali in Italia, per protestare contro le misure disposte dal governo per contenere la diffusione del coronavirus. In base a quanto accertato dalla polizia Penitenziaria, la sommossa era scoppiata prima nel reparto G11 per poi estendersi ad altri settori del complesso penitenziario. Per questi fatti, furono emesse nove misure cautelari in carcere nei confronti di alcuni detenuti coinvolti nelle rivolte.
Durante gli scontri un ispettore rimase ferito con una prognosi di 40 giorni. Dalle indagini, svolte dalla polizia penitenziaria e coordinate dalla Procura di Roma, era emerso il ruolo di quattro detenuti come promotori: dopo aver aggredito personale della polizia penitenziaria erano riusciti ad impadronirsi delle chiavi dei cancelli “filtro” così da permettere ai detenuti degli altri reparti di uscire e unirsi alla protesta.
Le indagini, inoltre, avevano accertato l’inesistenza di collegamenti o di una regia comune dietro agli episodi di violenza avvenuti in contemporanea in altre carceri come Milano, Modena e Palermo. Detenuti salirono sui tetti delle strutture, diedero alle fiamme suppellettili e presero d’assalto anche le infermerie. Le violenze, che riguardarono 22 istituti, durarono alcune ore e al termine il bilancio fu drammatico anche per i sette reclusi morti per overdose di psicofarmaci rubati durante i blitz.