Primo chiosco sul lungomare di Latina, il processo antimafia è entrato nel vivo con l’esame delle vittime dei comportamenti della famiglia Zof
Si è aperto il processo, dinanzi al primo collegio del Tribunale di Latina, composto dalla terna di giudici Soana-Bernabei-Brenda, che ha all’oggetto principale le minacce per il predominio dei chioschi sul lungomare di Latina e, in subordine, alcuni episodi di estorsioni e spaccio di droga consumatisi a Latina. Il processo deriva dall’indagine della Squadra Mobile di Latina coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia. Undici gli imputati: Alessandro, Fabio e Maurizio Zof, Giovanni Ciaravino, Davide Facca, Corrado Giuliani, Franco Di Stefano, Alessio Attanasio, Pasquale Scalise, Ahmed Jeguirim e Christian Ziroli.
Parte civile il Comune di Latina per tre capi d’imputazione in cui sono contestati reati (per turbativa d’asta col metodo mafioso) agli imputati principali: Alessandro e Maurizio Zof. Il collegio difensivo è composto dagli avvocati Giancarlo Vitelli, Alessia Vita, Sandro Marcheselli, Stefano Iucci, Giovanni Codastefano, Luca Amedeo Melegari, Francesco Vasaturo, Giovanni Capozio, Marco Lucentini e Moreno Gullì.
A parlare come primo testimone è il gestore del quarto chiosco, destinatario delle minacce di Alessandro e Fabio Zof. A novembre 2024, i pubblici ministeri della DDA di Roma, Luigia Spinelli e Francesco Gualtieri, avevano depositato agli atti del procedimento sui chioschi, per dimostrare il metodo mafioso, le carte dell’indagine “Assedio”, in cui è emersa la cosca di Aprilia che ha portato alla caduta dell’amministrazione comunale e alle dimissioni del Sindaco Lanfranco Principi, finito ai domiciliari con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. I sostituti procuratori antimafia avevano depositato anche tutta una serie di intercettazioni poiché, secondo il quadro accusatorio ipotizzato, vi fu un problema tra il sodalizio apriliano di Patrizio Forniti e il cosiddetto clan Travali di Latina, in particolare con Alessandro Zof.
Il gestore del quarto chiosco è stato ascoltato anche per per questi motivi. Interrogato dal pubblico ministero della Direzione Distrettuale Antimafia, Francesco Gualtieri, il testimone ha ripercorso la vicenda che lo ha coinvolto. “Da quando sono gestore, ho subito tre tentativi di incendio, due andarono quasi a buon fine, mentre un altro nel 2023, quando hanno incendiato anche il quinto e il primo chiosco. Da me hanno provato ad accendere il fuoco con la diavolina e l’incendio fu bloccato da un mio amico che passava di lì e ha avvertito il custode”.
“Nel primo anno di attività abbiamo avuto la visita di Alessandro e Fabio Zof, ma non ero presente. Consumarono gli alcolici, era presente un mio dipendente. Hanno detto che sarebbero rivenuti la successiva domenica e che avrebbero dovuto cucinare qualcosa di buono. Sono passati anni, era il 2018, non posso ricordare tutto. Poi, buttarono giù il bicchiere, cercavano me. Non ricordo se avessero pagato o meno la consumazione. Io li conoscevo entrambi e loro erano gli storici gestori del primo chiosco, il Topo Beach. In questi anni, un paio di volte è passato Maurizio Zof ed è stato tranquillo. È solo passato a salutare”.
“Io non avevo avuto mai problemi con loro. Quel gesto di Alessandro e Fabio Zof non l’ho capito. Non ho idea perché sono passati, magari volevano spaventarci, ma non so perché. Io personalmente non ho subito nessuna minaccia. Sicuramente dopo che erano passati, ho subito un turbamento e l’ho vissuto come una intimidazione. Io ricordavo Zof per gli spari al Circeo, l’ho appreso sul giornale. So che quando sono venuti al mio chiosco, si sono avvicinati con fare prepotente, gli è stato dato il limoncello, hanno consumato, e poi hanno buttato i bicchieri per terra. Il motivo di questo gesto è perché, forse, era una famiglia che gestiva un’attività commerciale e, dopo che non ce l’avevano più, possono avere avuto una reazione negativa, vedendosi togliere il chiosco”.
La domanda clou è sul rapporto con Marco Antolini (al momento in carcere), uno dei personaggi che secondo la DDA sono parte integrante del temuto Clan Forniti di Aprilia. “Ci sono state persone mie clienti che hanno appreso della notizia, uno di questi era Marco Antolini. Lui era un mio cliente, originario di Aprilia. Ho parlato anche con lui della vicenda degli Zof, ma non ho chiesto interventi”.
“So che è stato arrestato con Assedio e che è un procedimento antimafia, ma io non ho parlato ad Antolini di questa storia e lui ha appreso di Zof perché mangiava lì”. Il pm Gultieri glielo chiede direttamente: “Ha chiesto protezione ad Antolini?”. Il gestore ribadisce: “Era a pranzo con me, ha appreso della notizia mentre parlavo con un amico lì al chiosco. Assolutamente non ricordo che in una telefonata Antolini disse che gli Zof dovevano sapere che non ero orfano e che avrebbe mandato un’ambasciata per far capire che non dovevano “cacare il cazzo”. Conosco anche Roberto Iosca, ma non so se Antolini ha parlato con lui di questa storia. Conosco Luca De Luca e Luigi Morra, perché clienti di mio cugino al ristorante”.
Anche il dipendente del quarto chiosco ha confermato: “Vennero al chiosco, ordinarono due limoncelli e poi buttarono per terra tutto, dicendo che nella plastica loro non bevevano. Mi chiesero “dove è il tuo padrone?” e poi mi chiesero se avevo quote nell’attività. A parlare era Alessandro, quando provò Fabio fu stoppato dal fratello: conoscevo leggendo i giornali che Alessandro Zof era stato coinvolto negli spari al Circeo. Non pagarono e non chiesi di farlo perché ho evitato problemi: ho avuto paura. E poi mi dissero che sarebbero tornati per insegnarci come si gestiva l’attività e dissero che erano stati a far visita anche in altri due chioschi. Nei giorni successivi non tornarono più, vidi solo che qualche giorno dopo una Smart nera ha sostato per due ore a circa 150 metri dal chiosco. Presumo che fosse Alessandro Zof, ma non sono sicuro. Mandai un messaggio al mio titolare e dissi a lui di non venire”.
A parlare come terzo testimone è il commercialista che fece da consulente amministrativo a un gruppo assegnatario (un uomo e due giovani donne) del primo chiosco quando l’amministrazione Coletta dispose la gara d’appalto. “Nella commissione di gara, ricordo che quando uscirono i risultati, ci furono insulti tra gli aggiudicatari. Ricordo che il “Topo” Zof insultò uno degli aggiudicatari fino sotto al Comune di Latina. È stato il sindaco a creare queste tensioni perché per due anni non aggiudicarono il primo chiosco e il primo cittadino avrebbe dovuto trovare un accordo tra le due parti. Ad ogni modo, la sensazione è che loro avessero rinunciato per la macchina burocratica del Comune. Erano stremati psicologicamente, ma sopratutto perché sembra una maledizione non avendo più avuto neanche l’appoggio delle assicurazioni”. Una constatazione che non viene spiegata fino in fondo, così come oggi, 9 luglio, il commercialista spiega che gli insulti furono reciproci, a differenza di quando riferì agli investigatori: all’epoca il professionista disse che fu solo Zof a insultare. Nega anche di aver parlato di “contesto mafioso”, motivo alla base della rinuncia.
Era stato proprio il commercialista a riferire agli inquirenti che in più occasioni il socio della titolare vincitrice e rinunciante nel 2016 era stato minacciato da uno dei figli di Zof su Facebook, insieme alle ragazze che avevano partecipato al bando. Lo stesso socio sarebbe stato aggredito verbalmente sotto casa da Maurizio Zof e in una occasione spintonato (circostanza poi smentita dallo stesso commercialista). Aggressioni verbali e minacce che sarebbero avvenute anche davanti al sindaco di allora, Damiano Coletta. Alla fine, secondo il racconto del commercialista, al socio della titolare sarebbe stato proposto dallo stesso Zof padre di vendergli il primo chiosco, una volta aggiudicato. Una proposta rispedita al mittente, anche perché vietata dalla legge.
Maurizio Zof, così come riferì il commercialista, era fuori di sé tanto da andare dal socio della titolare minacciata e profferire nei suoi riguardi insulti di stampo omofobico (“dico a tutti che vai in giro con i tacchi a spillo”), dicendogli che se non avessero rinunciato al chiosco gi avrebbe mandato dei rumeni a rompergli gli ombrelloni.
A confermare che il primo chiosco, dopo l’assegnazione, non fu gestito, è lo stesso imprenditore che aveva chiesto la consulenza al commercialista. “Vinsi e arrivai primo, ma non ho aperto perché mi sono fatto due conti in tasca e poi perché era difficile arrivare al termine con tutte le procedure burocratiche. La decisione fu presa da me e dalla mia socia. Siamo andati fino in Calabria a fare l’esame per i bagnini, ma abbiamo mollato. Conoscevo Zof da tempo, ho fatto feste da lui”.
Riguardo agli insulti con Zof, l’imprenditore minimizza, anzi nega ogni dissidio: “Non è vero che siamo stati minacciati, tra me e Maurizio Zof c’è stato solo un insulto. Lui mi disse: “Ora il locale lo prende ‘sta mandria di gay”. E io gli ho fatto la mossa della camminata con i tacchi a spillo. Avere il chiosco per mer era un sogno, ma il bando era troppo difficile per me e i miei dipendenti. Se fosse dipeso da me, io gli avrei pure ceduto il primo chiosco con il quinto, mi bastava lavorare al mare. Ero disposto a rinunciare al primo chiosco, ho dovuto rinunciare a causa del Durc (Documento unico di regolarità contributiva)”. L’imprenditore nega che Zof lo avrebbe mai minacciato di inviargli una banda di rumeni a rompere gli ombrelloni. Il pubblico ministero accenna a quanto risulta dalle intercettazioni: l’imprenditore dice al compagno che alla Polizia avrebbe raccontato solo quello che pareva a lui. Una domanda che viene bloccata dal Tribunale perché contenuta nel brogliaccio che non può essere utilizzato. Alla fine, uscendo dall’aula della Corte d’Assise, il testimone saluta con baci e abbracci Alessandro Zof e la madre presenti in aula.
Ascoltata come testimone anche la socia di allora dell’imprenditore che sostiene cose diverse. Parteciparono al bando nel 2016 con la società “Pellicola Digitale”. “Partecipammo nel 2016 con entusiasmo. Dopo aver vinto ci siamo incastrati con questioni burocratiche e gestionali. Saltò per due anni e c’era sempre un impedimento: c’erano problemi burocratici. Il primo anno per tempi tecnici non aprimmo, passammo tutto l’inverno a reperire i documenti utili. Eravamo stanchi dopo che la gestione era saltata per due anni di fila e avevo solo voglia di riprendermi la mia vita”.
E con gli Zof cosa è successo? “A parte schermaglie fuori dal Comune, non è successo niente. Quando ci proclamarono vincitori all’interno della sala del Comune c’era anche quello che viene chiamato il Topo (nda: Maurizio Zof) e la moglie. Ci dissero in maniera violenta: “Non dovevate osare a partecipare. Questo chiosco è nostro, noi ci siamo da 40 anni”. Ci hanno urlato contro e siamo andati via molto velocemente. Tutto abbiamo fatto tranne che festeggiare. Non era una situazione piacevole e avevamo paura di aprire il chiosco per subire danni“.
A proposito delle paure, la testimone disse che “non era la Giovanna d’Arco. Lo dissi perché dovevamo andare contro il sistema e questa situazione era influenzata anche dalla famiglia Zof. Sul figlio di Zof, sapevo che aveva gambizzato una persona al mare e sui genitori li avevo visti durante l’apertura del bando. Erano presenti ingombranti e sapevo che sul sociale avevano fatto un gruppo “Salviamo il Topo Beach”.
Sull’aspetto mafioso delle minacce, la testimone ricorda che probabilmente ha fatto qualche commento a riguardo: “Avendo fatto l’amministratrice giudiziaria a Pomezia, dissi che ero passata dalla mafia di Roma a quella di Latina”.
Ad essere esaminato come testimone anche un altro giovane che si era occupato per conto di una società, la Latina Young, di partecipare alla gara d’appalto per la concessione del primo chiosco con il bando Latinadamare. La società vinse la gestione del primo chiosco, era l’anno 2020. “Dopo aver vinto, ci siamo ritirati perché non avevamo esperienza e i tempi erano stringenti. Abbiamo rinunciato. È vero che avevamo saputo che il chiosco era stato gestito da persone spregiudicate. Qualcuno ci aveva parlato del rischio e dei vecchi gestori del Topo Beach“.
Il testimone ricorda che rispetto alla questione Zof “parlammo con una dipendente del Comune che ci disse che, se avessimo voluto, ci avrebbero messo in contatto con la Questura”. Ad essere ascoltato come testimone anche un altro socio della Latina Young: “Ci dissero che il chiosco era stato gestito in passato. Tramite Google, sapevamo che c’era stata la famiglia Zof”. Il testimone, originario di Roma, dice che non sapeva molto degli Zof, anche se, interrogato dagli investigatori, aveva specificato che “il gruppo che gestiva il chiosco era mafioso“. Stimolato dal pm Gualtieri, il testimone ammette: “Avevamo paura che il chiosco fosse bruciato. Non solo, c’è un’altra ammissione: “Sì è vero, utilizzai il termine omertà prima di parlare con gli investigatori della Questura di Latina”.
Il processo riprenderà il prossimo 11 novembre con l’esame di altri undici testimoni, tutte vittime dei comportamenti contestati agli imputati. In tutto la lista dei testimoni chiamati dalla Procura sono sessanta. Oggi ne sono stati ascoltati nove in circa sei ore di udienza.
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IL PROCESSO E LE INDAGINI – A giugno 2024 furono in tutto dodici gli avvisi di conclusione indagine per il procedimento penale che il 30 gennaio 2024 si è concretizzato in otto misure cautelari nei confronti di altrettante persone per i reati di turbata libertà degli incanti ed estorsione aggravati dal metodo mafioso, diversi episodi di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, nonché per trasferimento fraudolento di valori. Uno dei destinatari dell’avviso conclusione indagini era l’imprenditore di Latina, Alfonso Attanasio, il 40enne arrestato per furto di energia elettrica operato dai suoi supermercati a Latina e Roma. Attanasio, però, è uscito dal procedimento in quanto la sua posizione è stata archiviata.
Al centro dell’indagine sui chioschi, portata a termine dalla Squadra Mobile di Latina, il primo chiosco sul lungomare di Latina, lato Rio Martino, denominato ex Topo Beach; indagando gli investigatori hanno fatto emergere anche alcuni episodi di spaccio ed estorsione slegati dagli interessi della famiglia Zof sul litorale del capoluogo.
Ad essere raggiunti dall’avviso di garanzia anche gli unici a finire in carcere (per gli altri misure di domiciliari) lo scorso 30 gennaio: il 31enne Ahmed Jegurim e il 30enne Christian Ziroli che, però, non hanno nulla a che vedere con le trame che si sono svolte dietro l’assegnazione del primo chiosco sul lungomare di Latina: vale a dire il noto “Topo Beach” che, nel 2016, con l’avvento dell’amministrazione Coletta, fu rimesso a gara, dopo decenni. Per i due trentenni accuse di spaccio ed estorsione nell’ambito del mercato della droga.
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Ai tre Zof sono contestati reati aggravati dal metodo mafioso, in ragione del legame che soprattutto Alessandro Zof, secondo la DDA, ha con il clan Travali/Di Silvio. Zof, come noto, è stato assolto nel processo Reset insieme a tutti gli altri imputati del clan Travali/Di Silvio accusati di aver messo in piedi un’associazione mafiosa dedita al narcotraffico.