Processo Scarface: anche per Romolo Di Silvio, la Cassazione accoglie parzialmente il ricorso e rinvia alla Corte d’Appello per l’associazione mafiosa
Dovrà essere la Corte d’Appello a dire se Giuseppe Di Silvio detto “Romolo”, il boss del Gionchetto, sia o meno a capo di un’associazione mafiosa costituita da famigliari stretti, acquisiti e affiliati.
A deciderlo è stata la sesta sezione della Corte di Cassazione che, come per gli altri componenti del clan, ha accolto parzialmente il ricorso, presentato dagli avvocati Alessandra Diddi e Arcangela Campilongo, e rimandato alla Corte d’Appello sulla questione dell’associazione mafiosa. Il processo deriva dall’indagine di Direzione Distrettuale Antimafia di Roma e Squadra Mobile di Latina denominata “Scarface”, dove furono messe in luce diverse condotte estorsive da parte del clan del Gionchetto, spaccio di droga, minacce e armi nella disponibilità del sodalizio.
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A luglio 2023, “Romolo”, davanti al giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Roma, Roberto Saulino, è stato condannato a 20 anni di reclusione, così come era stato condannato suo fratello Carmine detto “Porcellino”, il numero due del sodalizio. Come la maggior parte dei suoi famigliari e affiliati al clan di derivazione rom, di stanza nel quartiere Gionchetto di Latina, “Romolo” aveva scelto il rito abbreviato. La sua posizione, infatti, fu stralciata, a giugno 2022, dal processo che si tiene presso il Tribunale di Latina e che vede alla sbarra le seconde leve del clan giudicate col rito ordinario.
Il capo famiglia sta già scontando in carcere la condanna per omicidio di Fabio “Bistecca” Buonamano, avvenuto nell’ambito della guerra criminale pontina, anno 2010. Costituiti come parti civili l’associazione antimafia “Antonino Caponnetto”, difesa dall’avvocato Licia D’Amico, e il Comune di Latina, assistito dall’avvocato Anna Caterina Egeo. Costituiti parti civili anche l’ex affiliato al clan Di Silvio e ora collaboratore di giustizia, Emilio Pietrobono, e l’Assovittime.
Come noto, l’operazione anticrimine risalente all’ottobre 2021, coordinata dal Procuratore aggiunto della DDA romana Ilaria Calò e portata a compimento dalla Squadra Mobile di Latina, fece eseguire 33 misure cautelari, nei confronti di soggetti, a vario titolo gravemente indiziati di aver commesso reati di associazione di tipo mafioso, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, estorsione, sequestro di persona, spaccio di droga, furto, detenzione e porto abusivo di armi, reati aggravati dal metodo mafioso e da finalità di agevolazione mafiosa.
Ad ogni modo, dopo la condanna a 20 anni, con sentenza del 26 settembre 2024 la Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della pronuncia del luglio 2023, ha riconosciuto le attenuanti generiche alle contestate aggravanti, inclusa la recidiva, riqualificato il fatto per l’associazione finalizzata al narcotraffico e ha rideterminato la pena in 11 anni di reclusione.
Ora, la Cassazione motiva il rinvio ad una nuova Corte d’Appello solo sul punto nodale dell’associazione mafiosa, mettendo in dubbio le pronunce di primo e secondo grado. La difesa, infatti, ha controdedotto sul 416. bis ritenendo che i giudici di primo e secondo grado abbiano stabilito “un’astratta e potenziale sovrapponibilità tra le vicende in esame e quelle del procedimento Caronte (nda: il processo che condannò i componenti dei clan Di Silvio e Ciarelli per associazione per delinquere semplice), che, secondo la Corte di appello, ha riguardato alcuni componenti della famiglia Di Silvio, tra cui il ricorrente, i quali, sebbene non ritenuti mafiosi, si erano contraddistinti per una pluralità di reati gravi, che
avrebbero condizionato nell’immaginario collettivo del territorio pontino la percezione dei Di Silvio”.
La Cassazione ritiene che “le deduzioni difensive colgono nel segno, non avendo la Corte di appello fatto corretta applicazione dei criteri interpretativi fissati dalla giurisprudenza di legittimità in relazione agli elementi costitutivi del delitto 416-bis”.
Secondo gli ermellini, “la commissione da parte di alcuni membri della famiglia Di Silvio, operanti “uti
singuli” o in concorso, di condotte estorsive in danno di esercenti attività commerciali dell’agro pontino, ovvero di soggetti loro debitori, non depongono in maniera univoca per l’esistenza, tra coloro che se ne sono resi autori, di un accordo associativo espressivo di un vincolo permanente“. Non è sufficiente l’omertà, l’assoggettamento del territorio e il rimando alla fama criminale della famiglia.
Secondo i giudici di Cassazione le condotte dei Di Silvio “sono estemporanee, poste in essere con modalità non predeterminate, ma occasionali, e, come tali, espressive unicamente di un accordo criminoso limitato alla commissione del reato di volta in volta avuto di mira. Manca, infatti, nella sentenza impugnata una esplicita motivazione sulla struttura organizzativa, anche se minimale, che prescinda dalla commissione dei singoli reati. Né si è affrontato il tema della necessaria consapevolezza dei ritenuti partecipi di arrecare apporti concreti, animati dalla coscienza e volontà di contribuire attivamente alla realizzazione dell’accordo e del programma delittuoso in modo stabile e permanente“.
Sbagliano, secondo la Cassazione, i giudici della Corte d’Appello a far discendere “la capacità di intimidazione, esercitata sulla comunità dell’agro pontino, non dal consolidato vincolo associativo esistente tra i membri della famiglia Di Silvio, ma, piuttosto, dal loro collegamento con alcuni dei soggetti coinvolti nei gravi fatti di sangue accertati nel procedimento Caronte, nel quale, peraltro, era stata esclusa la mafiosità dell’associazione“. In sostanza, l’aver accertato che i due principali esponenti del clan – “Romolo” Di Silvio e Constantino Di Silvio detto “Patatone” – sono stati capaci di uccidere un uomo per ritorsione criminale (delitto di “Bistecca”, al secolo Fabio Buonamano), non fa sì, secondo la Cassazione, a rendere l’intera famiglia capace di esercitare un surplus di terrore nelle vittime estorte e minacciate.