TUMA: TUTTI GLI ANNI FINO A “OTTOBRE ROSSO”

Gianluca Tuma
Gianluca Tuma

Non solo estorsioni, associazioni per delinquere, spaccio, armi e usura, a Latina c’è anche chi, nella mala, ha usato il cervello: la parabola di Gianluca Tuma

La crescita imprenditoriale di Tuma, arrestato di nuovo ieri nell’operazione “Ottobre Rosso”, non è stata bloccata dalla condanna di Don’t Touch (3 anni e 4 mesi per intestazione fittizia di beni), ma dalla proposta di sequestro dei suoi beni accolta, a febbraio 2017, dai magistrati e avanzata dalla Divisione Anticrimine della Polizia di Latina che ha fatto valere, dopo anni di provvedimenti respinti o andati a vuoto (per carenza legislativa, in primis), il D.lgs 159/11, vale a dire il Codice Antimafia.

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Tuma, nella sua vita, ha avuto diverse proposte di prevenzione personale e patrimoniale (tre nella prima decade del secolo in corso); sin dal 1990 gli fu applicata, per anni, la sorveglianza speciale per i suoi precedenti. Nel 2002 fu colpito, per la prima volta, da un provvedimento contro i suoi beni. Gli furono sequestrate alcune società intestate a suoi prestanome – tra queste società, anche la prima che creò negli anni Novanta: la Edil&Tecno che, apparentemente, faceva capo a una sua parente ancora minorenne e a un’altra donna che aveva la particolarità di essere stata legata a un ex peso massimo della criminalità pontina: Federico Berlioz.

Gianluca Tuma (immagine da Report)
Gianluca Tuma (immagine da Report)

In seguito, il Tribunale di Latina revocò la misura a questi primi sequestri di beni. Un tempo, infatti, era più difficile che fosse accolto un provvedimento del genere. La normativa era regolata dalle leggi 575/65 e 1423/56 che consentivano l’applicazione della misura solo, o per lo più, ad appartenenti ad associazione mafiosa o affini (Tuma non è mai stato accusato di un reato con l’aggravante del 416bis). Dal 2011, il legislatore ha rimediato con il sopracitato Codice Antimafia molto utile sopratutto quando non si riescono a comprovare reati come nel suo caso.

Tramite il Codice, e senza che Tuma fosse stato condannato per reati di mafia, è stato possibile sequestrargli e confiscargli beni immobili e mobili per il valore di tre milioni di Euro e, in particolare, il suo sistema di società con cui operava e con il quale, senza dubbio, si stagliava dalle violente smargiassate di gioventù o da coloro i quali sono invece stati condannati per reati tipici della criminalità (piccola o grande che sia) e che lui conosce molto bene, da sempre. A lui, invece, un reato tipico dei colletti bianchi e non di un criminale da strada: intestazione fittizia dei beni. Per altri processi che aveva in corso – invece tipici di chi opera nel “mondo di sotto” – la mannaia della prescrizione e, in qualche caso, il sollievo dell’assoluzione sebbene con notevoli dubbi degli organi competenti a indagare e giudicare.
Da tenere a mente che, ad oggi, Tuma è in attesa che la Corte d’Appello decida in merito alla confisca dei suoi beni che la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio.

BREVE STORIA CRIMINALE – “Sei proprio uno stronzo e anche un po’ scemo, perché ce l’hai con me?”. “Chi ti credi di perché porti la divisa? Se te la levi ti spacco in due e ti spacco i tuoi bei denti, risolviamola da uomini voi vi nascondete dietro quegli stracci, denunciami che ti vengo a prendere sotto casa, il mondo è piccolo”. Così si presenta l’allora giovane Tuma a un paio di poliziotti che l’avevano fermato per due controlli in due occasioni diverse.

Deferito, segnalato, sorvegliato speciale, obbligato a non mettere piede in vari comuni della provincia, il pedigree presenta il classico prontuario di azioni e conseguenze che una vita partita dalla strada senza rispetto per l’ordine costituito impone. Quando deve presentarsi in Questura per la sorveglianza speciale, come si è soliti in certi ambienti diserta.

L’EDUCAZIONE SENTIMENTALE – Già a partire dagli anni Ottanta, il Tuma frequentava i fratelli Giordano, Giovanni e Filippo, due casertani di Carinola (Giovanni era nato a Pozzuoli) trapiantati a Latina. Giovanni Giordano è visto come un padre dal suo sodale di sempre, Costantino “Cha Cha” Di Silvio. Dopo una vita d’amicizia, nel 2015 saranno immortalati, Tuma e Cha Cha, in un’istantanea che lascia pochi dubbi sul loro grado di vicinanza: al funerale del “padre” Giovanni Giordano, insieme a un altro, amico: Massimiliano Mantovano fratello di Stefano (arrestato ieri nell’ambito dell’operazione Ottobre Rosso).

I fratelli Giordano non erano due qualunque nella mala pontina. Entrambi con precedenti per associazione mafiosa e favoreggiamento di esponenti della malavita organizzata, sono coloro che insegnano ai pontini come ci si regola nel mondo del narcotraffico.

Non dovevi dirgli scemo, piuttosto potevi dirlo al Presidente della Repubblica, hai detto scemo alla persona sbagliata”: così si sentì dire un cameriere quando il titolare di un ristorante di Latina dove lavorava lo rimproverò per aver ingiuriato i due fratelli di Carinola. Il cameriere, nonostante fosse stato malmenato, fu licenziato e sarebbe stato riassunto solo se lo avessero voluto loro, i Giordano. La DDA di Bologna ne accertò il collegamento con la famiglia calabrese dei Falleti. In contatto con gli spacciatori internazionali Enrico Paniccia e Franco D’Agapiti, Giovanni Giordano fu trovato con 23 kg di droga all’aeroporto di Palermo, carico già di precedenti penali per associazione mafiosa, spaccio e altro. Indagini dello SCO (Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato) lo inquadravano come appartenente a un’associazione mafiosa con il core business nel traffico internazionale di droga e nell’usura, in partnership con una cosca mafiosa siciliana. Tra i due fratelli, colui che esercitava la maggiore leadership era Giovanni che, a maggio del 1999, fu coinvolto nell’operazione Jumbo della DDA di Roma. Più tardi, nel maggio 2007, i due fratelli Giordano furono tratti in arresto nel corso dell’operazione antidroga Lazial Fresco insieme a personaggi noti della malavita pontina: Giuseppe Travali detto Peppe Lo Zingaro (condannato in Don’t Touch e padre non biologico dei fratelli Angelo e Salvatore, deceduto di recente), Guerrino Di Silvio, Cha Cha e altri. I personaggi più noti di quell’operazione, oltre a Giovanni Giordano, erano Gino Stravato, Donatella Saturnino, Fabio Criscuolo e il pluripregiudicato Giuseppe D’Alterio, O’Marocchino. Non ci furono condanne esemplari.

Costantino Cha Cha Di Silvio
Costantino “Cha Cha” Di Silvio

La frequentazione dei Giordano, in particolare di Giovanni, è presumibile che, per Tuma e Cha Cha, sia stata un vero e proprio rapporto di educazione su come si deve stare al mondo in certi ambienti. Un mentore che non si definisce “padre” tanto per dire. Gianluca Tuma è sempre stato scaltro, non si faceva intercettare, non utilizzava un cellulare per chiamare ed essere chiamato. Inusuale che nell’inchiesta “Ottobre Rosso”, lo si ritrovi spesso al cellulare. Nelle fasi dell’inchiesta Don’t Touch, risalente a qualche anno prima, Tuma non rispondeva mai. Al suo posto, a prendere le telefonate la sua allora moglie.

Stando a un’informativa della Polizia risalente al 1993, fu denunciato per estorsione ai danni di un uomo che, volendo aprire un’attività economica, gli aveva chiesto quaranta milioni di lire. Tuma, oltre ad avere il rimborso del prestito, pretese dall’uomo anche l’acquisto di un’autovettura, opportunamente intestata a terza persona, tre ciclomotori, qualche bolletta ecc. Un’estorsione che non ha nulla di eclatante, e non rappresenta affatto un unicum, ma serve a testimoniare di come già dall’età di diciotto anni (il denunciante dichiarava di avere avuto il prestito da 40 milioni nel 1988), Tuma avesse una consistente disponibilità di denaro e la padronanza delle pratiche estorsive. Ad ogni modo, la sua “capacità” non si limita a estorsioni, prepotenze e risse in discoteche pontine alla moda. Viene denunciato spesso, persino per tentato omicidio volontario e sequestro di persona, ma Tuma non è affatto uno sprovveduto come tanti nel panorama criminale latinense.

Accade, nel 1992, un fatto vagamente inquietante. Senza che siano mai state accertate le responsabilità di manina o manine infedele/i, durante un controllo a Latina viene appurato che ha a sua disposizione la strisciata del Centro Elaborazioni Dati. Vengono ritrovate con sé, scritte in quella strisciata, informazioni riservatissime sui suoi precedenti e su ciò che annotano le forze dell’ordine su di lui. Si scoprirà che questi dati provengono dai Carabinieri di Massa, non proprio un rassicurante spot per le istituzioni. Responsabili: zero. Nel ’93, poi, nella casa in cui viveva, furono scovate alcune particolari apparecchiature, veri e propri ricetrasmettitori. Poco dopo, si scopre che possiede persino apparecchi capaci di intercettare comunicazioni delle forze dell’ordine. Ma gli episodi preoccupanti continuano. Nell’aprile del 1999, in un appartamento dove fittiziamente viveva il suo ex sodale, Giampiero Di Pofi, in realtà un immobile a sua completa disposizione, vengono scoperti alcuni dettagli niente affatto marginali. L’abitazione, in pieno centro città, in via IV Novembre, era oggetto di sfratto dopo la denuncia del proprietario che chiedeva a Di Pofi di essere pagato. La casa fu sequestrata ma quello che saltò agli occhi è che all’interno furono rinvenuti oggetti e documenti del Tuma tra cui atti d’indagine e documenti processuali riguardanti il gotha della criminalità pontina (e non solo) di quegli anni e di quelli a venire: Mario Baldascini, Federico Berlioz, Carmine Schiavone, Giuseppe Travali, Vincenzo Calcara, Giovanni e Filippo Giordano, Carmine Ciarelli ecc. Tutti documenti, alcuni dei quali riservati, nella disponibilità di Tuma.

E poi, come qualche anno prima, altre apparecchiature a laser per sventare possibili intercettazioni ambientali (ricerca di microspie e bonifica dei locali), o utili a intercettare, viceversa, le forze dell’ordine. L’idoneità degli strumenti fu certificata dall’allora Ministero delle Telecomunicazioni e lo stesso Tuma confermò di utilizzare questi apparecchi ammettendo candidamente di non voler essere intercettato.

COINVOLTO IN UNA MAXI INDAGINE DELL’ANTIMAFIA

Nel 1998, vi fu un terremoto a Latina negli ambienti criminali. La DDA di Roma arrestò il Tuma insieme ad altre 25 persone tra cui Carmine Ciarelli, i Baldascini, Cha Cha, Antonio Di Silvio, Peppe Lo Zingaro, in ragione delle dichiarazioni di Vincenzo Calcara e, sopratutto, Federico Berlioz. Berlioz era considerato un personaggio significativo (uno dei principali della mala latinense), parlò di “malavita organizzata di Latina“, dando per scontato un suo radicamento nel territorio e una mappatura di potere già evidente, e raccontando fatti, a suo dire, che non erano venuti mai alla luce poiché chi li aveva subiti non aveva avuto il coraggio di denunciarli per paura di ritorsioni. Non fu considerato del tutto credibile dalla magistratura, ma molte dichiarazioni, col senno di poi, lo erano eccome sopratutto nel quadro di una Latina insanguinata dagli omicidi degli anni Novanta, quando a perire furono, tra gli altri, Giancarlo De Bellis, Sergio Danieli, Silvano Dionigi, Rinaldo Merluzzi e Raffaele Micillo e quando, nel ’95, lo stesso Berlioz subì un attentato. Tra il ’91 e il ’95, per quanto sostenuto da Berlioz, i traffici maggiori di cocaina verso le nostre terre provenivano dalla Spagna, oltreché al traffico con il Sudamerica (in particolare la Colombia) sotto la responsabilità di Giordano. Tuma e Cha Cha furono descritti dal Berlioz come spacciatori vicini a lui e a Giordano.

Giuseppe Travali
Giuseppe Travali

Secondo l’altro “pentito” Vincenzo Calcara, Antonio Di Silvio (capostipite della famiglia del Gionchetto, oggetto dell’inchiesta recente “Scarface”) aveva contatti certi con cosche siciliane per la cocaina. A Tuma fu contestato, nell’ambito di questo provvedimento della DDA di Roma, anche il pestaggio di un nome noto negli ambienti della mala, Mario Zof (parente di Alessandro Zof), e la detenzione/ricettazione di una Smith Wesson calibro 38. Nell’aprile del 1993, presso il bar Di Russo a Piazza della Libertà, Tuma e Cha Cha tentarono, a loro modo, di far ritrattare Zof riguardo alle accuse di omicidio volontario che lo stesso aveva mosso nei confronti di Massimiliano Moro – il Moro, secondo la denuncia di Zof, aveva provato ad ucciderlo nel novembre del ’92. Il giudice di prevenzione, per questo episodio e altri afferenti a episodi di estorsioni, spaccio e associazione per delinquere si dichiarò incompetente, pur tuttavia osservando che l’associazione a delinquere era di difficile sussistenza mentre il traffico di stupefacenti aveva basi solide. Riguardo ai fatti concernenti il Tuma, il giudice di prevenzione, non avendo avuto alla sua attenzione gli atti d’indagine, disse che non poteva che allinearsi a quanto disposto dal Gip di Roma che aveva ordinato una provvedimento di non luogo a procedere.

LE SCORIE DELLA GAVETTA

Prima di fare il salto di livello, o almeno di tentare di farlo, stando ufficialmente alla larga da traffici di droga o dai reati spia più comuni alla criminalità, Gianluca Tuma ha dovuto affrontare alcuni processi e diversi episodi giudiziari e affini che rischiavano di ostacolare la sua ascesa all’imprenditorialità più importante. Al netto degli episodi minimi come la rissa durante una partita del suo As Campoboario e altro, i processi più significativi che connotano il modus operandi del personaggio di questa storia sono afferenti a ipotesi di reato tipici della criminalità. Processi che sono finiti in un nulla di fatto tra prescrizioni e assoluzioni, escluso il processo Don’t Touch dal quale ha ricavato una condanna a tre anni e quattro mesi per un reato da colletto bianco.

Dicembre 2001

La vicenda è quella dell’estorsione ai danni del panificio dei signori Locarini, Alberto e Francesco, i quali avrebbero voluto vendere la loro attività a un altro soggetto, Ferdinando Di Genova. Dopo sedici anni di indagini e processo al seguito, vi è stato un proscioglimento dalle lesioni per intervenuta prescrizione e un’assoluzione per Tuma dall’accusa di estorsione. Tuma e il suo sodale Di Pofi avevano il desiderio di far saltare la compravendita Locarini-Di Genova poiché interessati al panificio: un modus operandi che, qualche anno più tardi, si ripeterà per l’episodio dell’asta riguardante il capannone sulla Migliara 45 in cui furono coinvolti i politici Pastore, Carnevale, oltreché a Tuma medesimo e ai suoi amici. Come per molti degli episodi di estorsione o usura, spesso la vittima o le vittime entrano in contatto con il proprio carnefice, stabilendo, in taluni casi, rapporti di frequentazione forzata. Abitualmente, è la stessa vittima a farsi andare bene alcuni comportamenti del possibile carnefice, mentendo a se stesso sul fatto che tutto sommato quella è una brava persona e il rapporto è improntato sul rispetto. Tale vicenda è venuta alla luce grazie alle denunce querele di Di Genova per minacce e intimidazioni verso ignoti, e alla denuncia di Locarini contro Tuma&Co. Ipotizza. però, la Polizia che il Tuma abbia fatto ritrattare i Locarini, e i fatti logici e causali della storia, in effetti, non portano a escludere tale ragionamento.

I fatti

Di Genova è colui che aveva acquistato il panificio, Pane, pizza e dolci, dai Locarini. I Locarini, minacciati, dicevano al Di Genova: “Gianluca vuole il locale con le buone o con le cattive”. Tuma e suo fratello Gino Grenga picchiarono con un matterello e una stampella il Di Genova per farlo desistere dall’acquisto del forno. Di Genova denunciò i due all’ospedale ma il giorno dopo ritrattò dicendo di aver sentito solo “Eri stato avvisato”, e dichiarandosi, per di più, incapace di ricostruire il quadro. Negli stessi giorni fu picchiato anche Alberto Locarini da Grenga, Tuma e Di Pofi. L’interesse di Tuma per i panifici era antico. Da anni, attraverso la società Tecnicom srl, gestiva due rivendite di pane, Dolce Forno a Via Isonzo, e un’altra attività in via Cesare Augusto. Il modo in cui avvengono i fatti ricordano molto un sistema di estorsione/aggressione tipici di un’azione rodata – capita che si parli di estorsioni senza che si conoscano nel dettaglio le “tecniche”, poiché un’estorsione, compiuta da chi ne ha esperienza, non è semplicemente ottenere con la forza qualcosa che si desidera, ma si presuppone che abbia un contorno e una preparazione che non hanno nulla di improvvisato e che servono a mettere all’angolo la vittima impedendogli di reagire.

Così avviene

Gino Grenga
Gino Grenga, fratellastro di Gianluca Tuma

Cha Cha contatta Alberto Locarini e gli dice che Tuma vuole incontrarlo. Aggiunge che la compravendita tra il figlio e il Di Genova non s’ha da fare. Locarini ribatte che non fornirà il pane a Tuma perché questo non paga. Dopodiché arrivano Tuma, Grenga e Di Pofi e lo picchiano. Cha Cha accompagna Alberto a casa e questo viene portato all’ospedale dal figlio Francesco. C’è un falso amico, in questo caso Cha Cha, che attira a sé la vittima: si finge essere dalla parte di quest’ultima, simula il ruolo del mediatore di una controversia, ma in realtà gioca il ruolo dell’esca: se il pesce-vittima abboccherà nessuno si farà male, altrimenti si procederà allo strascico. Un agire che ricorda le più tipiche delle estorsioni come, per esempio, quella che ha visto tratti in arresto recentemente Agostino Riccardo, Samuele e Pupetto Di Silvio, e il figlio di Cha Cha Renato Pugliese da cui deriverebbe la sua collaborazione con la magistratura.

Gli esiti

Il gip, a novembre del 2001, dispose l’arresto per il trio Tuma/Di Pofi/Grenga (confermato dal Riesame). Al contempo, però, Di Genova decise di lasciare la sua attività di panificio a favore di Tuma dopo essere stato minacciato e pestato. Il fatto si ridimensionò anche a causa della remissione delle querele e delle dichiarazioni di Di Genova al difensore di Tuma, molto tenui se confrontate alla prima denuncia. L’ufficio Gip di Latina, nel 2002, nel respingere l’istanza per trasformare il carcere in domiciliari, stabilì che il Di Genova ridimensionando l’accusa aveva fornito una prova di inverosimiglianza tra le ultime dichiarazioni e le minacce/lesioni ricevute. Di Genova arriva per di più a dire: “Se fossi andato via e non lo avessi provocato con quelle parole minacciose lui se ne sarebbe andato senza nemmeno sfiorarmi”, la qual cosa appare una vera e propria testimonianza di sottomissione, molto simile a una sindrome di Stoccolma obbligata o alla reazione di una vittima di stupro che non riesce a liberarsi dell’artefatto senso di colpa indotto da una società maschilista. Anche il Riesame di Roma che riformava la misura, nel 2002, descriveva il Tuma come socialmente pericoloso e negligente nel presentarsi in Questura come prescrittogli. Per questo processo, Gianluca Tuma non si fece mancare, per la sua difesa, un avvocato di grido come Carlo Taormina. Alla fine, cadute le accuse, sarebbe stato Locarini a chiedere al Tuma di comprare il forno come fosse un piacere fatto ad un amico la cui attività rendeva poco.

Ottobre 2005

La vicenda coinvolge l’ex consigliere provinciale di Latina Giuseppe Pastore (che denunciò Tuma), l’attuale consigliere comunale del PD Massimiliano Carnevale (all’epoca dei fatti consigliere comunale e collega di partito nell’Udc dello stesso Pastore), Cha Cha, Davide Di Guglielmo e Giampiero Di Pofi.

I fatti

Pastore dichiarò di aver subito delle intimidazioni atte a farlo desistere dalla presentazione di offerte nell’ambito dell’asta di un immobile uso artigianale sito a Borgo San Michele (LT), in Via Migliara 45, che costituiva parte del complesso aziendale del panificio dell’esecutivo Giovanni Pedà (un cognome che apparirà in seguito quando si approfondiranno le società di Tuma). Tuma voleva il capannone perché, già prima dell’asta, aveva effettuato lavori di ristrutturazione del capannone sapendo, probabilmente, di poterlo ottenere a poco prezzo. Dopo le intimidazioni, il capannone del deposito aziendale della Iride Multiservizi di Pastore fu incendiato. Secondo Pastore, che sospettava il notaio dell’asta per la fuga di notizie riguardo al suo interesse per l’immobile di Via Migliara 45, egli stesso fu raggiunto da Carnevale, Di Guglielmo e Di Pofi che gli dissero di desistere dall’asta. In particolare, a quanto riportò l’ex consigliere provinciale, Carnevale gli disse: “Se vuoi vivere tranquillo, se non vuoi avere problemi devi abbandonare l’asta”. Pastore non accettò di farsi da parte e poco dopo fu raggiunto nei suoi uffici in Provincia di Latina da Tuma, Cha Cha e Di Pofi. Dopo diverse intimidazioni, Pastore perdette l’asta che fu vinta da Finolim srl appartenente al sistema di società di Tuma i cui prestanome erano la moglie e il suocero. A dare sostanza al racconto di Pastore, c’è anche la testimonianza di un altro artigiano che avrebbe voluto l’immobile ma che desistette poiché era desiderato dallo “Zingaro”, ossia Tuma. Il fatto che la collaboratrice del notaio che riceveva le proposte di acquisto chiamasse Giampiero Di Pofi denota che questo potrebbe essere stato un sistema collaudato imperniato nei rapporti tra asta/notaio/parti interessate. Nelle intercettazioni dell’indagine, scorrendo i contatti telefonici del gruppo Pedà/Di Pofi/Cha Cha/Contarino (la collaboratrice del notaio), Tuma non compare mai e quando si vuole raggiungerlo si deve passare dal telefono della moglie. Il bonifico per l’acquisto del capannone fu versato dalla MA.ST srl del fratello di Massimiliano Mantovano.

Gli esiti

Il pm chiese la custodia cautelare per gli indagati, e per Tuma il carcere. Il gip negò la misura, pur sostenendo che il quadro indiziario era solido: turbata libertà degli incanti, estorsione aggravata; solo, e in più, per Tuma incendio doloso. Il pm si appellò e ottenne dal Riesame di Roma l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria degli indagati. Il Collegio romano riconobbe lo spessore criminale del gruppo non trascurabile. La Cassazione annullò con rinvio questo provvedimento per difetto di notifica a Tuma/Cha Cha/Di Pofi. Il secondo rinvio al Tribunale di Roma accolse come nel primo appello tutto l’impianto confermando il quadro accusatorio. Il procedimento si concluse nel 2015 con l’assoluzione per l’estorsione aggravata, e l’intervenuta prescrizione per l’incendio doloso e la turbata libertà degli incanti. Il Tribunale ritenne il Pastore non proprio credibile, ma disse che c’erano elementi di dubbio su tutta la vicenda: il Pastore è stato avvicinato, ma non si configura il reato con certezza.

Canis canem non est (Cane non mangia cane)

Nell’ambito del provvedimento della DDA nel gennaio del ’97 (vedi prima parte del reportage), quando arrestarono Tuma/i Fratelli Giordano/Berlioz/Mario Baldascini/Feola/Cha Cha, Antonio Di Silvio ecc., si legge che nel ’91 Pastore e il fratello furono estorti da Berlioz e Carmine Ciarelli. Ciarelli e Berlioz chiesero ai fratelli Pastore 150 milioni di lire minacciandoli e esplodendogli in faccia alcuni colpi di pistola. A quanto riporta un’informativa, le vittime, i Pastore, fecero cessare le minacce grazie all’intervento di Pasquale Galasso, legato a gruppi camorristici, e capo dell’omonimo clan.

Settembre 2006

La vicenda è quella dell’ex capo della Squadra Mobile di Latina, Fabio Ciccimarra, che fu aggredito insieme ai suoi collaboratori Spinelli e Pezza dentro le mura della Questura.

Fabio Ciccimarra
Fabio Ciccimarra

I fatti

Tuma, Di Pofi e Giovanni Giordano si erano recati in Questura per conoscere la situazione del figlio di Cha Cha, Renato Pugliese, coinvolto nell’altrettanto nota storia del locale “Makkeroni” dove, in seguito a una colluttazione, il titolare del locale Vincenzo Bruzzese morì di “crepacuore”. Seduti alla scrivania del poliziotto, dopo che erano stati invitati da Ciccimarra nei suoi uffici per avere qualche informazione su Cha Cha e il figlio nel frattempo irreperibili, Tuma e Di Pofi diedero vita a uno degli episodi più inquietanti che la città ricordi: il capo della Mobile, infatti, fu colpito con una testata dritta in faccia.

Gli esiti

I due furono condannati in primo grado per danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale (un anno e mezzo di reclusione a Tuma, otto mesi a Di Pofi), ma, pochi mesi fa (dicembre 2016), vi è stato, in Appello, il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione. Si è conclusa così, davanti alla Corte d’Appello di Roma, il processo di secondo grado per le botte all’interno della Questura di Latina, con Gianluca Tuma e Giampiero Di Pofi accusati di aver aggredito i poliziotti della Mobile e l’allora vice Questore Fabio Ciccimarra. Trascorsi dieci anni dai fatti, a chiedere i proscioglimenti per prescrizione è stato lo stesso procuratore generale: nessun danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale accertati, per un episodio che avrebbe meritato un’attenzione particolare dall’opinione pubblica e qualche domanda sulla sicurezza di un’intera città. Un fatto gravissimo e collegato a quello del Makkeroni da cui si origina e per il quale il gruppo di Tuma, come dice Di Pofi in un’intercettazione, si organizzò per andare a prendere un professore universitario al fine di dirimere la vicenda. Storie intrecciate che, dopo l’assoluzione di Renato Pugliese (perché il fatto non sussiste, dopo la condanna in primo grado per omicidio preterintenzionale di Bruzzese), forniscono un quadro fosco della farraginosa giustizia italiana.

Primula pontina

Tuma era preoccupatissimo per il processo Ciccimarra. Dalle intercettazioni contenute nell’indagine di Don’t Touch, si evince con chiarezza che quell’episodio era molto temuto. D’altronde, per un uomo che ricerca una parvenza di imprenditore rispettato e lontano da traffici e cattive amicizie, arrivando a non avere nessuna utenza telefonica (si fa raggiungere al telefono della moglie), riesumare quel buco nero sarebbe stato come ricacciarlo nella strada. Un imprenditore rispettabile non aggredisce un capo di una Squadra Mobile. Perseverando nel suo convinto procedere, cioè quello di risultare sempre e comunque irreperibile sia al telefono che dal vivo, fu probabilmente per questo processo che Tuma si inalberò con la madre per aver ritirato la citazione per il grado di appello, nonostante si fosse raccomandato con lei di non andare alle Poste. In un’intercettazione ambientale dell’indagine Don’t Touch, Di Pofi, parlando con la moglie di Tuma, sostiene che il medesimo aveva un progetto e se lo avessero condannato avrebbe vanificato i suoi sforzi, tra i quali quello di nascondersi per due anni da una notifica. Un agire che, come si evince in un’altra intercettazione della stessa indagine, è stato probabilmente concordato con il suo avvocato. Se sia stata una strategia difensiva studiata a tavolino con il legale non è certo, ma Tuma si era messo in testa di non ritirare le raccomandate riguardanti i suoi guai processuali. Come accade con i fatti fortuiti, la madre, un giorno, ritirò una raccomandata provocando le ire del figlio; la notifica causa dell’arrabbiatura potrebbe essere stata quella riguardante la causa del forno di Alberto Locarini, poi finita in un nulla di fatto – in un’intercettazione, la moglie di Tuma, confidandosi con Di Pofi, credeva, sbagliando, che non potesse andare in prescrizione; oppure quella di Ciccimara per la quale Tuma, a detta del suo entourage, era molto in apprensione. Quella che è certa è un’azione ben congegnata che fa di Tuma una vera e propria primula rossa: non aggiornare la residenza anagrafica e non farsi mai trovare per la notifica di atti giudiziari rappresentano strategie tese all’allungamento dei tempi delle udienze che, in caso di mancato ricevimento degli atti di una parte del processo, slittano (la prescrizione si ferma ma i tempi della giustizia si dilatano a tutto favore degli imputati).

Aprile 2014

La vicenda riguarda fatti contestati dal 2011 al 2014. I protagonisti principali sono Massimiliano Mantovano, le sue attività e gli appalti dell’Enac (Ente nazionale per l’aviazione civile). Coinvolti, tra gli altri, l’ex direttore dell’aeroporto di Ciampino, Sergio Legnante, il funzionario della Direzione centrale Enac, Alfonso Mele, l’ex funzionario Enac, Luigi Guerrini, tutti insieme all’imprenditore Mantovano in una presunta associazione a delinquere finalizzata a corruzione, truffa e frode in pubbliche forniture.

I fatti

L’imprenditore latinense Massimilano Mantovano, titolare della MGM, domiciliata a Roma in via Flaminia 395 (un indirizzo da tenere a mente), fu arrestato insieme a collaboratori e a funzionari/dipendenti dell’Enac nel 2014. La sua azione, secondo i magistrati, era in grado di condizionare scelte politiche e di governo. Con l’infedeltà dei dipendenti Enac, si accaparrava commesse pubbliche (esecuzioni dei lavori) a prezzi gonfiati subappaltando i lavori a prezzi più bassi cagionando, in questo modo, un danno patrimoniale alla PA.

Il gioco era semplice

I dipendenti o funzionari Enac rivelavano alle sue società informazioni che gli permettevano di vincere le gare pubbliche, inquinando il regolare svolgimento della gare d’appalto. Anche Mantovano, come Tuma, aveva alcuni prestanome per le sue società di riferimento.

La tecnica è sempre la stessa

Mettere come prestanome famigliari o amici fidatissimi. Dopo aver costituito un vero e proprio monopolio negli appalti Enac, realizzava lavori a prezzi molto alti a danno della casse pubbliche molto simili, per dirla con Buzzi, a mucche da mungere.

Il meccanismo era sempre lo stesso: ripetitivo e altamente remunerativo

1) Per eseguire alcuni lavori in un immobile adibito ad alloggi di servizio all’interno dell’aeroporto di Roma Urbe, una volta aggiudicatosi la gara per 66 mila euro con la società Fata, faceva eseguire i lavori subappaltando a una ditta per sole 4500 euro, e guadagnando per sé i restanti 61mila euro. 2) Per una recinzione aeroportuale, la MGM si aggiudica i lavori per circa 900mila euro e affida a una ditta subappaltatrice i lavori che li realizza per 80 mila euro, facendo guadagnare al sodalizio di Mantovano 800 mila euro. 3) Per la realizzazione della viabilità interna dell’area di distribuzione carburanti di Ciampino, la gara viene vinta per 886 mila euro e realizzata per 90 mila euro da una ditta in subappalto. Lavori che prevedevano un certo importo di gara sono, in questo modo, completati a bassissimo costo e, giocoforza, malamente. Truccando le gare si falsava il sistema concorrenziale che avrebbe potuto far risparmiare soldi alle casse pubbliche e ottenere, a differenza di quanto avvenuto, lavori qualificati. Un massimo guadagno per le ditte di Mantovano che, tramite il suo sistema di società, riusciva a farsi invitare alle gare dai dipendenti Enac corrotti: tutte le società dell’imprenditore pontino si interessavano così alla gara di appalto che diventava la leva per far girare il mondo, quello di esclusivo interesse della presunta associazione. Alle gare Mantovano faceva partecipare le sue ditte, vere o fittizie, e i funzionari Enac gli fornivano le informazioni utili ai dettagli di gara. Nello specifico, l’ingegnere Mele di Enac chiamava ad invito tutte le ditte a lui riconducibili fino a che la denuncia di un dirigente del medesimo ente di aviazione civile non bloccasse questa coazione a guadagnare (a favore di Mantovano) e a perdere (ai danni della collettività). Alla MGM srl figurava come dipendente/operaio un nome che non può passare inosservato: Gianluca Tuma. Mantovano, come risulta dagli atti dell’indagine, fece schermare i suoi uffici per evitare le intercettazioni con l’aiuto di apparecchiature preposte. Un’ossessione, quella di non essere intercettato, che lo accomuna a Tuma. Tuma e Cha Cha, le due belve di scorta come vengono definite dagli organi inquirenti in tale contesto, entrano in gioco quando devono risolvere questioni critiche per Mantovano. Sono ingaggiati, ad esempio, per la questione di alcuni titolari di una ditta, gli Esposito, che aveva eseguito dei lavori e non erano stati pagati da Mantovano (doveva loro 100mila euro). Durante la riunione chiarificatrice tra Mantovano ed Esposito negli uffici romani di Via Flaminia 395, Tuma e Cha Cha attendevano fuori. A rivelarlo, in un’intercettazione, è il geometra di Mantovano, Adriano Revelant, che si stupì della loro presenza poiché gli Esposito volevano discutere in maniera pacifica. Tuma sarebbe dovuto intervenire alla bisogna, e si deduce, dalle conversazioni telefoniche, che si presentò armato all’appuntamento. Mantovano contattò la primula pontina, come di consueto, sul telefono della moglie.

Gianluca Tuma e Vittorio Buongiorno
Un ritaglio di un articolo di giornale (Il Messaggero) che ritrae Gianluca Tuma (a sinistra) e che descrive la vicenda delle minacce rivolte a Vittorio Buongiorno (a destra)

Convergenze parallele

L’incontro tra Esposito e Mantovano, alla presenza nascosta di Tuma/Cha Cha, avveniva nella stanza al sesto piano di un immobile sito in Via Flaminia 395. Questa strada sembra più un crocevia di uomini, donne e interessi poiché passano di lì alcuni complicati rapporti economici e politici tra Mantovano, Tuma e un ex Sindaco di Latina che, di certo, non sono tra datore di lavoro e dipendente/operaio o tra vecchi amici che giocano a passarsi srl come fossero carte di una partita a tressette. Ubicata nello stesso sito, in Via Flaminia 393, c’è la Finclem srl costituita dalle mogli di Mantovano e Tuma, una società operante nel settore delle compravendite e locazioni immobiliari. Ma ubicata al civico 395, come rivelato da Vittorio Buongiorno e Marco Cusumano de Il Messaggero, c’è anche un’altra società, la Lifestyle, una srl nata nel 2008 per occuparsi di “Ricerca scientifica e sviluppo” e che originariamente vedeva la sua sede a Latina in Via Manzoni 31, civico di una società riconducibile a Tuma, la Edilfer srl. Quello che ha di particolare la Lifestyle srl non è rappresentato dal fatto di essere ubicata in Via Flaminia 395 (Roma) e di essere stata in Via Manzoni 31 (Latina), quanto piuttosto dal passato che vedeva come socio unico della succitata srl un personaggio molto noto a Latina: l’ex Sindaco Giovanni Di Giorgi che si è trovato a rappresentare una società che, per casualità pontine, come quelle che portarono a rilevare che il marchio verbale e figurativo della fu US Latina Calcio dell’ex onorevole Maietta appartenevano all’As Campoboario di Tuma e Cha Cha, ha avuto sede prima nello stesso civico di Tuma e poi in quello di Massimiliano Mantovano. Tra Tuma e Mantovano, d’altra parte, i legami non sono mai mancati. Quando sequestrarono a Gianluca Tuma le società con i primi provvedimenti di Don’t Touch, fu oggetto dell’azione giudiziaria la Cubinvest srl che, anni prima, aveva acquistato un immobile a Latina in Via Bruxelles dalla MGM di Mantovano, per la cifra di oltre 800mila euro, accollandosi i mutui di quest’ultima. L’immobile acquistato fu frazionato e una delle frazioni fu riacquistata dalla Global Project Management, società riconducibile a Mantovano. Si è scoperto che la Cubinvest non aveva speso niente, e le rate di debiti e mutuo continuava a pagarle la MGM. In seguito, dopo il sequestro Don’t Touch, la MGM rivendica i soldi che la Cubinvest non gli aveva mai dato, contestando la condotta e chiedendo il rimborso di oltre 600mila euro. Anche la Finclem, la società per il 75% della mogie di Tuma e il 25% della consorte di Mantovano, è stata coinvolta nelle indagini dell’Enac. Non è quindi pensabile che Tuma svolgesse esclusivamente ruoli da belva di scorta ma, al contrario, erano in essere interessi economici forti e duraturi. I loro rapporti di affari, inoltre, sono confermati dal fatto che il capannone dei Pedà presso la Migliara 45, oggetto del processo che vide sul banco degli imputati Tuma/Carnevale/Di Pofi ecc., fu pagato dalla Ma.St del fratello di Mantovano (ossia Stefano arrestato in Ottobre Rosso).

Ottobre 2015

La vicenda è quella di Don’t Touch. Tuma fu arrestato e gli sequestrarono parte del patrimonio – poi, cadute le altre ipotesi di reato, rimasero in piedi solo l’intestazione fittizia dei beni per cui è stato condannato a 3 anni e 4 mesi in Appello, e le minacce a Buongiorno per cui è ancora in piedi l’indagine, la cosiddetta Don’t Touch 2.

“Visto cosa è accaduto in Francia a usare la penna scorrettamente”

Così si sentì dire il giornalista de Il Messaggero Vittorio Buongiorno, fermato fuori la chiesa San Marco a Latina da un personaggio di cui aveva scritto poco prima. Vittorio era colpevole, a detta di Tuma, di aver scritto riguardo alla vicenda di Mantovano/Enac. Tuma fu citato nell’articolo come guardaspalle dell’imprenditore Mantovano (“le belve di scorta”, così come le descrive il gip di Roma nell’ordinanza di carcerazione di Mantovano). Cosa spinge Gianluca Tuma a esporsi così arrischiatamente per una vicenda che non lo vede neanche penalmente coinvolto? Può una semplice belva da scorta, che dovrebbe eseguire solo gli ordini di un eventuale padrone, dirigersi davanti a un luogo sacro e minacciare un giornalista di farlo finire come i poveri francesi di Charlie Hebdo?

*Questo articolo, a firma di Bernardo Bassoli, riprende ampi stralci di una serie di articoli scritti dallo stesso autore nel 2017

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