Tritone, la Cassazione aveva rimesso in discussione la sentenza per coloro che avevano scelto il rito abbreviato. L’Appello bis fa cadere il 416 bis
Sentenza inaspettata e clamorosa. La nuova sezione di Corte d’Appello di Roma, a cui la Cassazione aveva rinviato la decisione su diversi imputati del processo “Tritone” – il procedimento che rivelò una locale di ‘ndrangheta tra Anzio e Nettuno e che portò allo scioglimento dei due Comuni -, ha annullato l’associazione mafiosa e fatto cadere le aggravanti del 416 bis e dell’associazione armata.
Per 24 coinvolti nell’operazione anti-n’drangheta tra Anzio e Nettuno, denominata “Tritone”, dove finirono in manette più di 60 persone, la sentenza di condanna per l’accusa di associazione mafiosa era stata annullata con rinvio a febbraio.
La quinta sezione penale della Corte di Cassazione aveva rimandato gli atti al secondo grado disponendo un processo d’Appello bis a Roma. Annullamento della condanna per associazione mafiosa, con rinvio in Appello anche per Bruno Gallace, considerato come uno dei capi promotori dell’organizzazione. Gli imputati sono stati difesi, tra gli altri, dagli avvocati Alessia Vita, Vincenzo Garruba, Vincenzo Cicino, Valerio Spigarelli, Francesco Lojacono, Michele Monaco, Cesare Placanica e Gianluca Tognozzi.
La Cassazione, nel suo suo dispositivo, aveva annullato la sentenza impugnata nei confronti di Bruno Gallace, Vincenzo Italiano, Francesco Samà, Cosimo Tedesco, Fabrizio Lorenzo, Gregorio Spanò, in relazione all’associazione mafiosa, delitto con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della corte di appello di Roma.
Invece, per, Bartolomei, Mezinaj, Leoni, Scognamiglio, Alessandri, De Gilio, Menichetti, Gallace, Italiano Paduano, Forte, Tedesco, annullava la medesima sentenza, limitatamente alla ritenuta circostanza aggravante dell’associazione finalizzata al narcotraffico.
Ora, la quarta sezione della Corte d’Appello composta dalla terna di giudici Francesco Neri, Andrea Fanelli e Fabrizio Suriano, ha fatto cadere tutte le contestazioni più gravi, rideterminando le pene che sono diminuite per tutti e annullando le statuizioni civili a favore della parti civili: l’associazione nazionale “Antonino Caponnetto” e l’Assovittime Criminalità Onlus.
Per quanto riguarda le pene, la Corte d’Appello ha ritto in questo modo: 7 anni e 4 mesi a Guido Alessandrini; 10 anni e 5 mesi a Fabrizio Bartolomei; due mesi a Pasquale De Gilio; 8 anni e 9 mesi a Piero Forte; 18 anni e 9 mesi a Bruno Gallace e Vincenzo Italiano, considerati tra i maggiori esponenti della ‘ndrina; 10 anni e 9 mesi a Fabio Kowalsky; 10 anni e 5 mesi a Franco Leoni; 8 anni e 5 mesi a Fabrizio Lorenzo; 4 anni e 5 mesi a Saverio Menichetti; 11 anni e 9 mesi a Gentian Mezinaj; 10 ani e 6 mesi a Daniele Paduano; 1 anno e 4 mesi a Alfio Ricca; 8 anni a Francesco Samà; 7 anni e 2 mesi a Ciro Scognamiglio; 15 anni e 2 mesi a Fabrizio Schinzari; 14 anni e 1 mesi a Gregorio Spanò; infine, 7 anni a Cosimo Tedesco.
Confermate le condanne per Marco Pirri e Francesca Romagnoli. Gli imputati sono condannati alla rifusione in solido in favore della parte civile Regione Lazio a cui vanno 2.200 euro.
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A febbraio 2023, invece, il Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Roma, Roberto Saulino, aveva pronunciato una sentenza che confermava in pieno l’impianto accusatorio avanzato dalla Procura/Direzione Distrettuale Antimafia di Roma in merito al processo scaturito dalla maxi operazione anti ‘ndrangheta che, a febbraio 2022, era culminata in decine di arresti tra Anzio e Nettuno. A tutti e 25 gli imputati che avevano optato per il rito abbreviato erano stati inflitti complessivamente 260 anni di carcere. Una condanna confermata anche in Corte d’Appello e ribaltata a gennaio scorso dalla Cassazione, per poi cadere definitivamente oggi, 24 luglio 2025.
Diversi i reati contestati a vario titolo: associazione mafiosa, associazione finalizzata at traffico internazionale di sostanze stupefacenti aggravata dal metodo mafioso, cessione e detenzione ai fini di spaccio, estorsione aggravata e detenzione illegale di arma da fuoco, fittizia intestazione di beni e attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti aggravato dal metodo mafioso.
Ai vertici di ben due sodalizi legati alla ‘ndrangheta di Santa Cristina d’Aspromonte in provincia di Reggio Calabria e di Guardavalle in provincia di Catanzaro, secondo l’ipotesi della magistratura, sono Giacomo Madaffari, Bruno Gallace e Davide Perronace.
Gli scopi della locale tra Anzio e Nettuno erano molteplici: acquisire la gestione e/o il controllo di attività economiche nei più svariati settori (ad esempio ittico, della panificazione, della gestione e smaltimento dei rifiuti, del movimento terra); commettere delitti contro il patrimonio, contro la vita e l’incolumità individuate, contro la pubblica amministrazione e in materia di armi e stupefacenti; affermare il controllo egemonico sul territorio, realizzato anche attraverso accordi con organizzazioni criminose omologhe e mediante infiltrazioni nelle amministrazioni comunali; infine, di procurarsi ingiuste utilità e controllare la politica alle elezioni 2018 e 2019: tra gli esponenti menzionati anche l’ex Sindaco Candido De Angelis che ha ammesso di conoscere la famiglia del boss Davide Perronace.
A dicembre 2024, invece, il Tribunale di Velletri aveva condannato tutti coloro che invece avevano optato per il rito ordinario. Dopo sei giorni di camera di consiglio, il collegio del Tribunale di Velletri, presieduto dal giudice Silvia Artuso, a latere i colleghi Eleonora Panzironi e Fabrizio Basei, aveva letto il dispositivo nei confronti dei 22 imputati, condannandolo a pene severe, tra cui quella a 28 anni per uno di coloro ritenuto un capo: Giacomo Madaffari.
La sentenza odierna, il cui dispositivo darà disponibile tra un paio di giorni, influenza anche l’appello di coloro che avevano optato il rito ordinario, con la possibilità prevedibilissima che anche in quel caso venga a cadere l’associazione mafiosa. Le motivazioni chiariranno i perché di una decisione che appare, come accennato, clamorosa e che sconfessa quanto raccontato da collaboratori di giustizia quali Antonino Belnome che aveva ricostruito le dinamiche di un gruppo che sembrava strutturato realmente come una vera e propria locale di ‘ndrangheta traslata sul territorio del litorale sud capitolino, a due passi da Latina e Aprilia (comune sciolto per mafia ad aprile).
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A commentare la sentenza di ieri, 24 luglio, sono stati l’associazione antimafia “Reti di Giustizia. Il Sociale Contro le Mafie”, il coordinamento antimafia Anzio-Nettuno e la Rete No Bavaglio.
“Le associazioni apprendono, con stupore, della sentenza di appello bis, del procedimento Tritone, in rito abbreviato. Attendiamo di leggere le motivazioni della corte, tuttavia questa decisione non cancella le altre sentenze, definitive, sull’esistenza di associazioni mafiose sui nostri territori come la sentenza Appia-Gallace. Da questa decisione sembra evincersi che per la Corte l’associazione mafiosa sussista ma non costituisca un distaccamento di Santa Cristina, altrimenti la corte avrebbe annullato senza trasmettere gli atti in Procura antimafia.
Naturalmente, occorrerà leggere la motivazione. Vogliamo poi ricordare che è stato confermato il reato di associazione a delinquere finalizzato al traffico di droga e che il tribunale di Velletri nella sentenza-in rito ordinario- ha delineato “la galassia dei rapporti politico mafiosi della locale di Anzio Nettuno”.
Noi continueremo a vigilare e a tenere “alta la guardia’ sui fenomeni di mafia nei nostri territori. Chiediamo inoltre alle amministrazioni di Anzio e Nettuno di costituirsi nel processo di appello Tritone ordinario in questa nuova fase processuale. Ringraziamo la procura distrettuale antimafia di Roma anche per la recente inchiesta sulla Mafia di Aprilia e sottolineiamo come Patrizio Forniti sia ancora latitante da più di un anno”.