PROCESSO SCHEGGIA, IL BOSS “LALLÀ” DI SILVIO DAL CARCERE: “MI AMMAZZO, HO PROVATO A SUICIDARMI DUE VOLTE”

Armando Di Silvio, detto Lallà (foto d'archivio)
Armando Di Silvio, detto Lallà (foto d'archivio)

Processo Scheggia: riparte in Aula il dibattimento per il procedimento che vede sul banco degli imputati l’ex consigliera regionale Gina Cetrone. Armando Di Silvio interviene: “Ho provato a impiccarmi e sgozzarmi”

Dopo due udienze saltate per l’allagamento del carcere di Agrigento dove è recluso uno degli imputati, Samuele Di Silvio, e per un malore occorso ad Armando Di Silvio detto “Lallà”, è ripartito il processo che vede sul banco degli imputati per estorsione, atti di illecita concorrenza, violenza privata, più gli illeciti connessi alle elezioni amministrative di Terracina 2016, tutti aggravati dal metodo mafioso, l’ex consigliere regionale del Pdl Gina Cetrone, l’ex marito Umberto Pagliaroli, e i tre Di Silvio – Armando detto Lallà e i figli Gianluca e Samuele. Più l’attuale collaboratore di giustizia Agostino Riccardo.

L’udienza era incentrata sulla testimonianza del Dirigente della Squadra Mobile di Latina Giuseppe Pontecorvo la cui escussione in Aula era stata negata proprio per gli impedimenti palesatisi lo scorso 9 novembre e lo scorso 30 novembre: carcere allagato e malore.

Vice Questore Aggiunto Giuseppe Pontecorvo
Il Vice Questore Aggiunto Giuseppe Pontecorvo

Il Dirigente Pontecorvo aveva testimoniato nell’udienza del 30 settembre quando, interrogato dal Pm Luigia Spinelli, aveva iniziato la ricostruzione delle fasi d’indagini poi concretizzatisi negli arresti a carico degli odierni imputati, avvenuti a gennaio 2020. Il Vice Questore aggiunto aveva menzionato in Aula le chat Facebook che dimostrano come Agostino Riccardo, più gli altri componenti del Clan Di Silvio, interloquivano con Umberto Pagliaroli e Gina Cetrone, sia per quanto riguardava la propaganda elettorale per le Comunali di Terracina 2016, sia per l’estorsione che gli inquirenti ritengono si sia consumata ai danni di un imprenditore di Pescara, eseguita dal sodalizio rom ma commissionata dagli imprenditori Pagliaroli e Cetrone.

Non sono mancate, nell’odierna udienza, escalation di tipo emotivo come quando è intervenuto, con dichiarazioni spontanee di suo diritto, Armando “Lallà” Di Silvio, l’uomo che, nonostante sia stata condannato in primo grado a 24 anni per associazione mafiosa nel processo madre di quello celebrato quest’oggi, ossia “Alba Pontina”, è tornato a dipingersi come uno “zingarello”, un “morto di fare, uno, in sostanza, che non ha nulla a che vedere con il 416 bis.

“Io non conosco né Pagliaroli né Cetrone – ha detto in Aula il boss della famiglia sinti di Campo Boario – Nel 2016 lavoravo in un autolavaggio di Latina Scalo, non ho mai fatto l’attacchino dei manifesti dei politici, anche perché non ho mai votato in 55 anni di vita“.

Lallà, collegato in video conferenza dal carcere di Sassari, si presentava bendato in testa, al collo e a un braccio: una condizione che, come spiegherà lui stesso, è dovuta a tentativi di suicidio sventati solo per l’intervento della guardie carcerarie.

Bugiardo patologico lo definisco Agostino Riccardo – ha continuato Lallà – Non mi hanno mai fatto un fermo di polizia o foto a Terracina, cosa c’entro io? E non so niente di Pescara. Riccardo ha solo preso in giro i magistrati. Io sono diventato pazzo, mi sono tagliato il collo, ho provato a impiccarmi“. E ancora, dopo aver attaccato gli organi investigativi, ha ripreso a disperarsi: “Sono un povero zingaro analfabeta. Mi sento in un buco nero. Sono una persona buona e sensibile, del tutto estraneo ai fatti. Non ce la faccio più psicologicamente e fisicamente. L’intercettazione telefonica che riguarda me dura sette secondi, non significa niente. Sono una vittima delle millanterie di Riccardo, sta facendo una battaglia tutta sua, è lui il malfattore che scroccava cornetti agli avvocati. Sono passato da essere uno zingarello al bandito Giuliano, ma io sono padre di 5 figli e nonno di 9 nipoti potevo mai fare un’estorsione? Riccardo è un malfattore e ludopatico, si è visto Scarface o Il Padrino“.

Infine, in un crescendo, il capo rom ha letto uno scritto indirizzato al Pm Spinelli pregandola di credere alla sua innocenza: “Ho tentato il suicidio impiccandomi ieri, mi sono tagliato addome, collo e braccio. Ho avuto anche un trauma cranico. Sono in carcere a dicembre, sto a mezze maniche, sono un morto di fame. Forse è l’ultima volta che vengo al processo, io mi ammazzo. Ho provato a impiccarmi ieri e sgozzarmi stamani, non sono morto solo per l’intervento delle guardie“.

Successivamente, il Pm Spinelli ha ripreso l’esame del Dirigente Pontecorvo che ha continuato la ricostruzione dell’indagine menzionando di nuovo le chat Facebook e i riscontri effettuati dalla Squadra Mobile di Latina: le fasi, in sostanza, che hanno portato a delineare l’episodio dell’estorsione all’imprenditore di Pescara avvenuto ad aprile 2016 e l’accordo per la propaganda elettorale di Gina Cetrone. È stato ricordato in Aula come, ad esempio, l’auto Citroen Xsara, su cui viaggiava Agostino Riccardo, fu vista entrare e uscire dal point elettorale di Gina Cetrone e di come quest’ultima fu anche minacciata da Riccardo medesimo affinché pagasse quanto pattuito per l’attacchinaggio. O di come Pagliaroli si lamentasse che, a La Fiora (area periferica di Terracina), i manifesti elettorali di Cetrone fossero stati coperti da D’Amico e Lombardi, due “rivali” poi, secondo le indagini, messi a tacere dal Clan Di Silvio.

Gianluca Di Silvio
Gianluca Di Silvio, uno dei figli di Armando detto Lallà e fratello di Pupetto e Samuele

Riscontri, quelli della Polizia, corroborati anche dalla messaggistica Facebook dove a scambiarsi messaggi, in chat, sono Pagliaroli, Cetrone con Riccardo. Una circostanza venutasi a verificare dal momento che gli investigatori hanno avuto accesso al profilo di Agostino Riccardo da lui stesso fornito alla Polizia. Tutte vicende che ovviamente sono state contestate dagli avvocati del collegio difensivo. Per quanto riguarda le chat Facebook, ad esempio, l’avvocato Oropallo, difensore di Pagliaroli, ha chiesto se fossero state fatte verifiche tecniche sulla veridicità dei profili. Verifiche che, invece, non risultano essere state fatte perché, come ha spiegato il Dirigente Pontecorvo, gli allora indagati, oggi imputati, si chiamavano anche per nome.

C’è di più. L’avvocato difensore di Gina Cetrone, Magnarelli, è intervenuto sostenendo che ci sia una discrasia tra gli atti a cui attingeva il Dirigente della Squadra Mobile durante la testimonianza e ciò a cui il collegio difensivo aveva avuto accesso. Per tale ragione, l’avvocato ha chiesto di poter avere prima le trascrizioni complete e solo dopo contro-esaminare il Dirigente. È a questo punto che il Pm Spinelli è intervenuta vigorosamente, parlando di ostruzionismo del processo.

Una battaglia tra accusa e difesa inevitabile in un processo che ipotizza quell’allaccio drammatico tra mondo di sotto e mondo politico. E non possono, peraltro, mancare gli interventi a più riprese, durante la testimonianza di Pontecorvo, richiesti anche dai figli di “Lallà”, gli altri due imputati dei Di Silvio, Samuele e Gianluca.

I due figli del capo famiglia hanno cercato di sminuire la loro posizione di clan dominante nella città di Latina, descrivendosi anche loro, così come il padre, della gente semplice – altro che mafia – scagionando completamente il genitore poiché, come ha detto Samuele Di Silvio, “siamo noi le teste calde, non lui che è un brav’uomo mai accusato di nulla“. Samuele Di Silvio ha spiegato che hanno fatto sì attacchinaggio per Cetrone ma solo perché erano stati chiamati da Riccardo. Poi, una volta non ricevuto il pagamento pattuito, non avevano più proseguito. E sulle telefonate con gli altri imputati, Samuele Di Silvio ha detto: “Il mio telefono e quello di Gianluca venivano utilizzati da Riccardo ma non sapevamo chi chiamava“. E ancora sulla loro condizione: “Magari fossimo stati con Carminati e Buzzi, invece il nostro capo era Riccardo. Non siamo mafiosi, non abbiamo catena di supermercati, tabaccherie o altro. Era Riccardo che ci chiamava per l’attacchinaggio, lui mi ha solo insegnato a pippare la cocaina e mio padre infatti non voleva che uscissi con lui“.

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