La condanna a 20 anni e sei mesi per Carmine Ciarelli, il boss di Pantanaccio, è definitiva: la Cassazione ha respinto il suo ultimo ricorso e ha reso definitiva la sua pena in continuazione con gli altri reati attribuitigli nel noto processo “Carone”
Per “Porchettone” o “Maiale”, così lo chiamavano negli ambienti criminali Carmine Ciarelli il più carismatico dei figli del capostipite Antonio, è scattata la condanna in via definitiva anche per il tentato omicidio di Gianfranco Fiori: il giovane individuato dai Ciarelli e dai Di Silvio – all’epoca (si era nel 2010) uniti nella guerra contro alcuni componenti della malavita pontina – come l’esecutore materiale del tentato omicidio di Carmine con sette colpi di pistola avvenuto il 25 gennaio 2010 nei pressi del Bar Sicuranza nel quartiere Pantanaccio. Quartiere di cui Carmine Ciarelli si considerava una specie di re e, ancora oggi, in molti del suo clan famigliare e negli ambienti criminali (e non solo) continuano a vederlo così. Il reuccio del Pantanaccio.
Da specificare che Gianfranco Fiori, pur considerato dai Ciarelli-Di Silvio come autore dei colpi di pistola contro Carmine Ciarelli, non lo è per la magistratura che lo ha assolto, nel 2015. Dopo una condanna a dodici anni e sei mesi di reclusione per il tentato omicidio di Carmine Ciarelli emessa nel 2012 dall’allora gup del Tribunale di Latina Costantino De Robbio, infatti Gianfranco Fiori, a distanza di tre anni (2015) fu assolto dalla Corte d’appello romana per non aver commesso il fatto.
Ad ogni modo lo speciale Tribunale criminale dei Ciarelli-Di Silvio, nel 2010, aveva stabilito che era stato Fiori ad aver sparato ed è così che l’allora 23enne fu oggetto di due tentati omicidi. Il giovane avrebbe sparato, secondo i clan rom, dando vita così a quella che giornalisticamente è stata chiamata la Guerra criminale che vide dopo l’attentato a Carmine Ciarelli la vendetta dei due sodalizi che si unirono contro il gruppo di malavitosi capeggiato da Massimiliano Moro, Mario Nardone e altri. Furono uccisi lo stesso Moro e Fabio Buonamano detto “Bistecca” e ci fu una lunga scia di tentati omicidi (Marchetto, Annoni, Fiori ecc.) più diverse gambizzazioni come quella ai danni di Alessandro Zof.
Tornando a Fiori, l’allora 23enne rischiò la vita due volte. Il 6 giugno 2010, dopo sei mesi dagli spari contro Carmine Ciarelli, e a distanza di sette giorni dal tentato omicidio di Francesco Annoni, una pattuglia dei Carabinieri, a Borgo Sabotino, notò arrivare, nei pressi del locale denominato “Alta marea”, una moto rubata con due persone a bordo, Giuliano Papa e Mario Esposito. Raggiunti da Giuseppe Di Silvio, detto Ciappola, ai due fu consegnata una pistola che Papa ripose nella cintola dei pantaloni. Al che i Carabinieri, intervenuti immediatamente, riuscirono a bloccare Di Silvio ed Esposito mentre Papa fuggì cercando di disfarsi della pistola che, prontamente recuperata dai militari, risultò essere rubata. Per il porto di arma tutti e tre i protagonisti dell’episodio furono condannati in primo grado, sentenza riformata in sede di appello con l’assoluzione di Esposito e Di Silvio.
Sulla base del contenuto di alcune intercettazioni ambientali e telefoniche, però, prima, durante e dopo tale fatto, gli inquirenti giunsero alla conclusione secondo la quale la sera dell’arresto di Esposito, Di Silvio e Papa, questi ultimi fossero in procinto di eseguire l’omicidio di Fiori (presente nello stabilimento adiacente al citato locale “Alta marea”), perché ritenuto esecutore materiale del tentato omicidio ai danni di Carmine Ciarelli. L’agguato sarebbe stato organizzato Carmine Di Silvio, su istigazione di Carmine Ciarelli, ma avrebbe dovuto essere eseguito in modo da non coinvolgere comunque, nel fatto, i Di Silvio, da cui il rimprovero di Costantino “Patatone” Di Silvio allo zio Carmine per avere invece coinvolto nell’agguato anche Ciappola.
Inoltre, nel settembre 2010, Antoniogiorgio Ciarelli, fratello più piccolo di Carmine, incontrò casualmente Fiori e lo malmenò brutalmente denunciandolo, il giorno successivo, quale autore dell’agguato ai danni del fratello. Un gesto deprecato da Carmine Ciarelli che, in una intercettazione ambientale captata quando era in carcere, commentò la condotta del fratello minore dicendo: “Non doveva alzare le mani su di lui! Quello meritava di essere trucidato!…gli ha dato solo la puzza“.
Infine, nel settembre 2010, anche Gianluca Mattiuzzo (al servizio dei Ciarelli-Di Silvio), anche lui coinvolto nel processo Caronte, accettò di uccidere Fiori, nel frattempo trasferitosi fuori Latina, a Cervinia. Un proposito anch’esso andato a monte.
Per gli episodi inseriti nel processo Caronte (estorsioni e altro), Carmine Ciarelli, ritenuto il capo della famiglia nomade, venne condannato a 20 anni e mezzo di carcere, ma la Suprema Corte annullò per lui solo la condanna relativa all’accusa di essere coinvolto nel tentato omicidio di Gianfranco Fiori e rimandò tutto in Corte di Appello. Corte che si espresse nei confronti di Carmine Ciarelli condannandolo a 20 anni e sei mesi nel 2018. Contro questo giudizio Ciarelli ha presentato ricorso in Cassazione la quale, definitivamente, ora, lo ha condannato alla succitata pena che ha reso definitiva una storia giudiziaria e, giocoforza, criminale.