OMICIDIO MORO, LA PROCURA GENERALE D’APPELLO FA RICORSO: “CIARELLI-DI SILVIO AVEVANO MATRICE MAFIOSA E TERRORISTICA”

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Massimiliano Moro (foto da latina24)

Omicidio di Massimiliano Moro: la Procura Generale della Corte d’Appello ricorre in Cassazione contro la sentenza

A febbraio scorso, la prima sezione della Corte d’Appello di Roma, presieduta dal giudice Vincenzo Gaetano Capozza, aveva respinto il ricorso della Direzione Distrettuale Antimafia ed emesso la sentenza a carico dei quattro imputati accusati di aver ucciso il criminale latinense Massimiliano Moro, freddato a colpi d’arma da fuoco nel suo appartamento in Largo Cesti, nel quartiere Q5 di Latina. 

Ora, dopo che a maggio sono uscite le motivazioni di quella sentenza, che hanno sancito di come l’omicidio sarebbe svincolato dall’alleanza dei due clan di origine rom Di Silvio e Ciarelli, la Procura Generale della Corte d’Appello ha fatto ricorso, appellandosi contro le assoluzioni di Antoniogiorgio Ciarelli e Ferdinando Di Silvio detto Pupetto e contro le due condanne a 15 anni di reclusione senza l’aggravante del metodo mafioso a carico di Simone Grenga, ritenuto l’esecutore materiale del delitto, e Ferdinando Ciarelli detto “Macù”, considerato il mandante.

Secondo la Procura Generale, la Corte d’Appello, nella sentenza del 18 febbraio, avrebbe disposto una pronuncia con “manifesta illogicità della motivazione” in relazione al ruolo ricoperto da Antoniogiorgio Ciarelli e Pupetto Di Silvio, ritenute figure rilevanti nell’alleanza dei dei due clan, così come stabilito dal processo Caronte. Alleanza che la sentenza Caronte ha certificato essere nata il 25 gennaio 2010, giorno in cui fu attinto da colpi d’arma da fuoco Carmine Ciarelli detto Porchettone e conseguentemente ucciso per vendetta Moro, individuato come il mandante degli spari. I due – Antoniogiorgio Ciarelli e Pupetto – avrebbero partecipato all’ideazione del delitto Moro sin dalle fasi della riunione presso l’ospedale Santa Maria Goretti di Latina dove era ricoverato Porchettone Ciarelli e dove i due sodalizi – Di Silvio e Ciarelli – si sarebbero messi d’accordo per la vendetta. Elementi sottolineati dalle parole della collaboratore di giustizia Andrea Pradissitto.

Illogica per la Procura Generale è l’assoluzione dei due – Ciarelli e Di Silvio – con la condanna di Pradissitto, reo confesso. Tutte e tre avrebbero fatto da “palo” a Grenga e Macù Ciarelli. Le posizioni dei tre vengono definite speculari. Altre illogicità sono state individuate dalla Procura Generale anche sulla mancata efficacia delle dichiarazioni dell’altro collaboratore di giustizia, Renato Pugliese, reso edotto dell’omicidio da Giuseppe Pasquale Di Silvio. Vengono giudicati dirimenti i contatti telefonici scambiati tra Grenga e Ciarelli nell’orario dell’omicidio di Moro, appena prima e appena dopo.

Sottolinea il Procuratore Generale che non si possono sorvolare i casellari giudiziari dei quattro imputati: Macù Ciarelli ha ben sei condanne per reati successivi all’omicidio Moro, tra cui estorsione, sequestro di persona, usura e associazione per delinquere; Grenga conta tre condanne tra cui tentato omicidio e armi; anche Antoniogiorgio Ciarelli e Pupetti Di Silvio hanno in faretra un casellario definito “altrettato nutrito”.

Rigetta la Procura Generale anche l’esclusione dell’aggravante mafiosa per Grenga e Macù Ciarelli, costituendo l’omicidio Moro l’apice della loro biografia criminale. La Corte d’Assise, secondo la Procura Generale, ha omesso di valutare le risultanze della sentenza Caronte: “l‘omicidio Moro ha rappresentato il vero e proprio atto fondativo di una inedita alleanza criminale stipulata tra due famiglie rom, da tempo attive nel territorio pontino, il cui scopo era quello di impadronirsi una volte per tutte della scena criminale latinense, sbarazzandosi di qualsivoglia rivale non rom, secondo un allarmante programma delinquenziale di matrice evidentemente mafiosa e per certi versi anche terroristica“.

I FATTI E LE SENTENZE – Era la sera del 25 gennaio 2010, a distanza di dodici ore dall’attentato contro il boss del Pantanaccio, Carmine Ciarelli, attinto da sette colpi di pistola di fronte al bar Sicuranza. Per gli inquirenti e, in particolare, per l’Antimafia e la sentenza Caronte, pronunciata dal Tribunale di Latina, in primo grado, nel 2012, l’inizio della guerra criminale pontina la quale, 24 ore dopo, lasciò sul campo un altro morto: Fabio Buonamano detto Bistecca, freddato e calpestato con l’auto dai due killer, Giuseppe Di Silvio detto “Romolo” e Costantino Di Silvio detto “Patatone” (entrambi condannati con sentenza passata in giudicato e tuttora in carcere). Entrambi gli omicidi sono considerati ritorsioni del clan (unito per l’occasione), Ciarelli e Di Silvio, contro la fazione italiana della malavita pontina composta da Moro, Nardone, Maricca e altri soggetti. In particolare l’omicidio Moro fu la risposta dei clan rom al tentato omicidio di Carmine Ciarelli detto “Porchettone”.

Dopo i due omicidi eccellenti, arrivò una lunga serie di gambizzazioni e ferimenti, oltreché all’omicidio Celani (comunque slegato dalla guerra criminale, secondo gli investigatori), recentemente giunto a una svolta investigativa.

A febbraio la Corte d’Appello confermò, come in primo grado, le assoluzioni per Antoniogiorgio Ciarelli, difeso dall’avvocato Alessandro Farau e Ferdinando Di Silvio detto “Pupetto”, assistito dall’avvocato Emilio Siviero. Simone Grenga, considerato dall’accusa l’esecutore materiale del delitto, e Ferdinando Ciarelli detto “Macù” ottennero la riduzione della pena a 15 anni e 4 mesi. Sia per Grenga, difeso dagli avvocati Marco Nardecchia e Massimo Frisetti, che per “Macù”, difeso dall’avvocato Italo Montini, cadde l’aggravante mafiosa. Un’altra sentenza, come quella dell’omicidio Giuroiu e quella del processo Reset, che non condivise l’impostazione dell’Antimafia sui clan rom di Latina.

I pubblici ministeri della DDA di Roma, Luigia Spinelli (oggi Procuratore Aggiunto a Latina e Francesco Gualtieri), avevano impugnato le assoluzioni di primo grado di Antoniogiorgio Ciarelli e Ferdinando Di Silvio detto “Pupetto”, oltreché ad impugnare le condanne a 20 anni di reclusione rimediate in primo grado da Simone Grenga e Ferdinando Ciarelli detto Macù per aver commesso l’omicidio aggravato dal metodo mafioso.

I magistrati antimafia chiedevano che ai due condannati venisse riconosciuta la premeditazione dell’omicidio, esclusa dal Tribunale di Latina in primo grado, che avrebbe comportato la condanna all’ergastolo. Ovviamente, si chiedeva che anche i due assolti venissero condannati a 30 anni di reclusione a testa, con il riconoscimento delle attenuanti generiche, così come richiesto in primo grado.

A dicembre, il Procuratore Generale della Corte d’Appello aveva accolto “in toto” le richieste dell’accusa, chiedendo di condannare all’ergastolo Ferdinando “Macù” Ciarelli e Simone Granga e a 30 anni di reclusione sia Ferdinando “Pupetto” Di Silvio che Antoniogiorgio Ciarelli.

Le difese di Macù e Grenga avevano invece chiesto l’assoluzione, ritenendo il racconto dei collaboratori di giustizia Renato Pugliese, Agostino Riccardo e Andrea Pradissitto (reo confesso di aver partecipato all’omicidio e già condannato) inattendibile. Le difese, inoltre, avevano sostenuto che non vi era sodalizio mafioso e che comunque non lo era al momento del fatto.

Alla fine, ad avere ragione, secondo la Corte d’Appello, furono le difese. Le motivazioni di quella sentenza che, in sostanza, ammette che non si può parlare di mafia in quanto il sodalizio Di Silvio/Ciarelli, la sera del 25 gennaio 2010, non si era ancora concretizzato.

La prima sezione romana, con tanto di giuria popolare, ha confermato le assoluzioni di “Pupetto” Di Silvio e Antoniogirgi Ciarelli, la cui presenza sotto casa di Moro (attestata dalle celle telefoniche, così come da accertamento della Squadra Mobile di Latina) non può provare la loro penale responsabilità nel concorso dell’omicidio. Non precise vengono considerate le dichiarazioni del reo confesso e collaboratore di giustizia Andrea Pradissitto, considerate imprecise nel collocare la loro presenza temporale sotto l’abitazione della vittima.

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Per quanto riguarda la colpevolezza accertata anche dalla Corte d’Appello per Simone Grenga e Ferdinando “Macù” Ciarelli, i giudici di secondo grado ritengono fondate le dichiarazioni di Pradissitto e degli altri due collaboratori di giustizia, Renato Pugliese e Agostino Riccardo.

Le dichiarazioni di tutti e tre “hanno trovato reciproci riscontri”, in quanto “parlando delle due riunioni tenutesi presso l’ospedale Santa Maria Goretti e del fatto che la convinzione circa la responsabilità di Moro per il tentato omicidio (nda: di Carmine Ciarelle) sia maturata al momento della visita presso il nosocomio da parte dello stesso”.

Riscontro oggettivo è dato dalla telefonata che “Macù” e Grenga fecero a Moro poco prima di passare a casa sua. Riscontrata anche la presenza di Grenga e Pradissitto sotto casa di Moro tramite la rilevazione delle celle telefoniche, mentre quelle di “Macù” non possono essere verificate in quanto il figlio di Carmine Ciarelli lasciò spento il telefono per giorni. Dirimenti anche le intercettazioni tra Macù e il padre Carmine Ciarelli in cui il primo spiega al secondo di come Moro e probabilmente Bistecca “non dormono più a casa, nel letto loro”.

Ad ogni modo, la Corte d’Appello eccepisce sull’aggravante mafiosa “in quanto la nascita dell’alleanza tra le famiglie Ciarelli e Di Silvio risulta essere successiva all’omicidio di Massimiliano Moro”.

“Ciò – spiegano i giudici d’Appello – emerge dalla dichiarazioni di Pradissitto il quale individua il momento della nascita della suddetta alleanza nelle riunioni tenutesi nei giorni successivi rispetto al delitto”. Pradissitto collocherebbe la nascita nelle riunioni del 2 e del 3 febbraio. “Il collaboratore spiegava il fine di questa alleanza consistente nella necessità di “riprendere forza sul territorio”, pianificando una serie di azioni ai danni di determinate persone. Individuava, su domanda del PM, come prima azione di questa alleanza il tentato omicidio di Fabrizio Marchetto di cui so occuparono lo stesso Pradissitto e Grenga”.

In pratica, secondo i giudici di secondo grado, l’omicidio Moro è “del tutto svincolato rispetto a quelle che risultano essere le finalità della suddetta alleanza“. A testimoniarlo ci sarebbe una dichiarazione di Pradissitto: “Il tentato omicidio di Carmine Ciarelli è stato vendicato con l’omicidio Moro. Lì si è chiusa la storia”.

A corroborare le tesi della Corte d’Appello, gli stessi giudici di secondo grado richiamano la sentenza Caronte, conclusosi con una sentenza di condanna per associazione per delinquere “semplice”, “la quale “individua la nascita della faida tra le famiglie rom Ciarelli-Di Silvio e le famiglie non rom in epoca successiva rispetto agli omicidi di Massimiliano Moro e Fabio Buonamano“.

I giudici romani sostengono che “manca la dimostrazione che il l’omicidio Moro sia stato commesso al fine specifico di agevolare l’attività dell’associazione, non sussistendo ancora la stessa, in quanto sorta in epoca successiva e, comunque, all’epoca della vicenda omicidiaria, classificata come semplice, pertanto priva del carattere mafioso“.

Un carattere mafioso che, va detto, all’epoca, non fu contestato dalla Procura di Latina. Un’epoca giudiziaria diversa (si parla di 13 anni fa) dove la parola “mafia” a Latina era considerata troppo grossa.

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