Condannati in appello i venti soggetti coinvolti nella maxi inchiesta ‘Propaggine’ della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma contro la prima “locale” di ‘ndrangheta nella Capitale. Nell’inchiesta furono coinvolto anche alcuni pontini
Venti imputati, sui 66 per i quali la Procura capitolina aveva chiesto il processo, avevano optato per il rito abbreviato. Fra gli imputati figurano i due boss ritenuti al vertice dell’organizzazione criminale, Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, appartenenti a storiche famiglie di ‘ndrangheta originarie di Cosoleto, centro in provincia di Reggio Calabria. Vincenzo Alvaro è giudicato con rito ordinario, Antonio Carzo è stata condannato col rito abbreviato.
A conferma la condanna ricevuta in primo grado, anche la Corte d’Appello di Roma. La pena più alta – 18 anni – è proprio per lui: Antonio Carzo, consideratoo uno dei due capi secondo la Direzione distrettuale antimafia di Roma. 12 anni e mezzo e 9 anni sono stati invece inflitti ai figli, Domenico e Vincenzo Carzo. Era il boss, Antonio Carzo, che, intercettato, diceva “Noi siamo una propaggine di là sotto”, predendosela contro la Procura di Roma e i suoi magistrati.
La sentenza d’Appello è arrivata dopo due ore di camera di consiglio per tutti e venti gli imputati già condannati in abbreviato. Condanne complessive per oltre cento anni di carcere. Rispetto al primo grado le pene sono state ridotte per alcuni imputati, ma c’è stata la conferma dell’impianto accusatorio e del 416 bis. Davanti all’ottava sezione penale del Tribunale di Roma continua, invece, il processo degli altri imputati – una quarantina – che hanno scelto il rito ordinario.
L’inchiesta era stata coordinata dai procuratori aggiunti Michele Prestipino e Ilaria Calò con i pm Giovanni Musarò, Francesco Minisci e Stefano Luciani, contesta, a vario titolo, le accuse di associazione mafiosa, cessione e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, estorsione aggravata e detenzione illegale di arma da fuoco, fittizia intestazione di beni, truffa ai danni dello Stato aggravata dalla finalità di agevolare la ‘ndrangheta, riciclaggio aggravato, favoreggiamento aggravato e concorso esterno in associazione mafiosa.
La “locale” operava a Roma dal 2015 dopo avere ottenuto l’investitura ufficiale dalla casa madre in Calabria. Il legame tra la “casa madre” sinopolese e la propaggine romana è stato sempre attivo e gestito con estrema cautela: le indagini hanno disvelato che, secondo una strategia ben specifica, i due capi del “locale” di ‘ndrangheta romani limitavano al minimo gli incontri di persona con i vertici calabresi, facendoli coincidere con eventi particolari, quali matrimoni o funerali, in occasione dei quali si sono svolti incontri fugaci ma risolutivi; nei casi di estrema urgenza, poi, gli incontri sono stati concordati mediante l’intermediazione di “messaggeri”.
Comune denominatore tra le due inchieste (l’altra è quella denominata “Tritone”, per cui la Cassazione ha rinviato in Appello per un giudizio bis riguardante l’associazione mafiosa) che nel 2022 hanno fatto emergere le due ‘ndrine presenti a Roma e Anzio/Nettuno, c’è anche, se non con un ruolo di primo piano, il territorio pontino.
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